DOSSIER EMIGRAZIONE: I SARDI NEL MONDO TRA STORIA E ATTUALITA'


a cura di Raffaele Callia

 Evoluzione storica del fenomeno tra Otto e Novecento

Anche la Sardegna, come molte altre regioni d’Italia, ha partecipato ai flussi emigratori di massa dell’Ottocento e del Novecento, anche se, nel caso dell’Isola, le caratteristiche di tale fenomeno si differenziano da quelle di quasi tutte le altre regioni riguardo ad alcuni principali aspetti (Zaccagnini, 1995). Anzitutto per i tempi di avvio dell’emigrazione di massa (in ritardo rispetto ad altri contesti regionali). In secondo luogo per le destinazioni, privilegiando come meta principale il continente europeo, piuttosto che le traiettorie transoceaniche (Callia, 2009). In terzo luogo per l’incidenza dei flussi in uscita rispetto alla popolazione residente: la Sardegna, di fatti, è sempre stata sostanzialmente spopolata e con una bassa densità demografica; per cui non può essere utilizzato, in questo caso, il paradigma secondo cui l’emigrazione rappresenta una sorta di safety valve per le aree sovrappopolate.

Si è calcolato che negli ultimi lustri dell’Ottocento la media annua degli espatri non raggiungesse le 100 unità, mentre nell’ultimo anno di quel medesimo secolo si registrò un flusso in uscita di 1.110 persone (Crespi, 1963). Il che dà vigore alla tesi, sufficientemente condivisa fra gli studiosi, secondo cui bisognerebbe far risalire alla fine del XIX secolo le prime ondate migratorie di particolare consistenza. Basti pensare che nel periodo 1876-1900 le persone emigrate dalla Sardegna furono circa 8.000, mentre nel primo Novecento (in particolare tra il 1901 e il 1915) si registrarono poco meno di 90.000 espatri. Le ragioni di questo differimento temporale, rispetto ad altri contesti regionali, potrebbero essere ricercate sia nel costante isolamento della Sardegna, unitamente a una ritardata spinta della transizione demografica (Gentileschi, 2006), sia nel peso esercitato da alcune variabili locali nel condizionare le scelte migratorie dei sardi, fra cui le difficoltà relative al sistema dei trasporti interno e il flusso (ridotto e tardivo) di informazioni riguardo alle reti migratorie esistenti (Lo Monaco, 1965). Partiti in ritardo, i flussi migratori dalla Sardegna nel corso del primo decennio del Novecento coinvolsero in modo particolare le aree nord-occidentali dell’Isola: il Goceano, il Marghine, il Meilogu, il Monteacuto, il Montiferru e la Planargia. Coinvolgimento che ebbe il suo peso non solo in termini assoluti ma anche rispetto alla popolazione residente. Basti pensare che mentre il capoluogo, Cagliari, nel triennio 1908-1910 registrò un’incidenza della popolazione emigrata su quella residente (nel 1911) dello 0,3%, il ben più piccolo comune di Ozieri (nella regione del Monteacuto) riportò una percentuale del 2,2% (Zaccagnini, 1995). Un anno prima dello scoppio della Grande Guerra risultarono espatriati 12.265 sardi, di cui 7.130 verso il continente americano, 3.988 verso l’Europa e 1.147 verso l’Africa (Rudas, 1974). Nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, durante il quale si manifestarono i funesti effetti della “grande depressione” conseguente alla crisi del ’29, i flussi emigratori subirono una sostanziale battuta d’arresto. Oltre alla crisi economica giocarono un ruolo decisivo anche le politiche restrittive poste in essere dai Paesi di immigrazione (fra cui gli Stati Uniti), di pari passo con il contenimento delle partenze voluto dal regime fascista. Alla fine della seconda guerra mondiale, invece, si registrò una forte ripresa degli espatri. Non a caso, gli anni ’50 vengono considerati da alcuni studiosi come un periodo di “nuova emigrazione”. D’altra parte il Paese, uscito sconfitto dalla guerra, si trovava in ginocchio dal punto di vista socio-economico; la Sardegna, dal canto suo, doveva ancora una volta misurarsi con i non pochi problemi irrisolti del passato. La fame e la miseria, aggravate da una guerra che aveva messo a dura prova la popolazione, costituirono il principale fattore di questa nuova stagione migratoria. A differenza delle altre ondate del passato, la corrente emigratoria che prese avvio negli anni ’50 vide protagoniste anche le zone urbane e industriali dell’Isola, in particolare le aree minerarie in crisi, fra cui quella del Sulcis-Iglesiente: si pensi che in questo territorio, nel decennio 1951-61, le forze di lavoro diminuirono di oltre la metà. In proposito, alcuni autori (Puggioni, Zurru, 2008) ritengono che a questa “nuova emigrazione” si possano associare tre fasi distinte: una prima, caratterizzata dai flussi provenienti in particolare dalle aree minerarie in crisi; una seconda (di matrice fondamentalmente contadina) proveniente, almeno inizialmente, dalle aree rurali centro-occidentali; una terza (di prevalente matrice pastorale) derivante dalle zone interne dell’Isola. È da rilevare come il periodo di emigrazione più consistente coincise con l’avvio di quel cambiamento che, nelle intenzioni della classe politica dell’epoca, avrebbe dovuto determinare il passaggio da un’economia primariamente agropastorale ad un sistema economico a prevalente vocazione industriale, soprattutto in virtù delle consistenti risorse finanziarie messe a disposizione dai cosiddetti “piani di rinascita” della Regione Sardegna. Le traiettorie di questa “nuova emigrazione” coinvolsero principalmente le regioni dell’Italia nord-occidentale, con una presenza comunque significativa anche nell’area laziale e tosco-emiliana. L’emigrazione verso l’estero, invece, confermò ancora una volta la preferenza dei sardi per il continente europeo. Per quanto riguarda l’emigrazione verso l’Italia continentale (la quale raggiunse i picchi più elevati nella prima metà degli anni ’60) va precisato come questa ebbe una certa concentrazione nelle aree metropolitane, privilegiando i capoluoghi e i relativi entroterra in circa un caso su due. Si pensi che, nei primi anni ’70, nella sola città di Torino si concentrarono oltre 70.000 emigrati sardi (Rudas, 1974). Nel caso dell’immigrazione sarda nel Lazio, che pure annoverò un interessante fenomeno migratorio di persone dedite alla pastorizia nelle campagne di quella regione, la sola capitale ne assorbì in quegli anni oltre l’80%. Nel Comune di Genova, invece, si concentrò il 60% dell’emigrazione sarda nell’area ligure. Relativamente all’emigrazione verso l’estero, si è già rilevato come i sardi privilegiarono i Paesi europei. Anzitutto la Repubblica Federale Tedesca, il Paese in cui tra il 1962 e il 1966 si concentrò circa la metà di tutti i sardi emigrati in Europa (Pinelli, 1982); ma anche la Francia, il Belgio, la Svizzera e i Paesi Bassi. Tra i Paesi transoceanici, invece, l’Argentina continuò a rappresentare una meta privilegiata ancora nel corso degli anni Sessanta. Durante gli anni ’70 si verificò un ribaltamento del movimento migratorio, con dei saldi finalmente positivi (sebbene contenuti). Di fatti, in quegli anni si cominciò ad assistere ad un fenomeno relativamente consistente di rientri, sebbene ad essere maggiormente coinvolti furono i Comuni più popolosi dell’Isola. A cominciare ad intraprendere la strada del rientro furono per lo più gli emigrati provenienti dalla Germania, dalla Francia e dalla Svizzera; mentre tra coloro che rientrarono dai Paesi extra-europei si segnalarono soprattutto gli emigrati provenienti dall’Argentina e dagli Stati Uniti (Gentileschi, 1983). Il fenomeno dei rientri e i flussi degli anni ’80 e ’90 costituiscono la cifra di una

nuova mobilità, definita “vai e vieni”, che caratterizza in modo distintivo la Sardegna della fine del Novecento. Peraltro, negli ultimi anni hanno cominciato ad affacciarsi anche nell’Isola nuovi e più complessi aspetti concernenti le dinamiche demografiche: in primis il saldo naturale, costantemente negativo dal 1998 fino ad oggi (fatta eccezione per il 2000), e il progressivo invecchiamento della popolazione residente. Oltre a ciò, va pure rilevato come anche la Sardegna, così come le altre regioni italiane (sebbene in misura contenuta rispetto a queste), stia diventando progressivamente terra di immigrazione. D’altra parte, non si può trascurare il fatto che proprio la presenza straniera, a fronte dei già citati saldi naturali negativi, stia contribuendo oramai da diversi anni alla “tenuta demografica” dell’Isola. Per quanto concerne il periodo a cavallo fra la fine del Novecento e il 2000 i dati Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (da e verso l’estero) registrano un saldo in perdita. Di fatti, se si considera il periodo 1996-2003 (fatta eccezione per un solo anno) il saldo è stato costantemente negativo. Il che significa che in questo periodo la Sardegna ha perso mediamente oltre 500 cittadini ogni anno (Gentileschi, 2006). Una nuova stagione di flussi migratori, in cui convivono la presenza crescente degli stranieri nell’Isola e la ripresa delle partenze verso altre regioni italiane e verso l’estero, seppure secondo la specifica tipologia della mobilità “vai e vieni” e con caratteristiche socio-demografiche alquanto diverse rispetto al passato, hanno di fatto aperto un nuovo capitolo della storia migratoria della Sardegna in questo inizio del terzo millennio. Si tratta di un capitolo inedito ma non per questo meno complesso rispetto a quello scritto dai cosiddetti pionieri dell’emigrazione, tra la fine dell’Ottocento e il corso del Novecento.

 

La realtà del fenomeno degli ultimi anni

Al di là del dato fisiologico della mobilità “vai e vieni”, con periodi più o meno lunghi di permanenza in altre regioni o all’estero, è bene non sottovalutare le caratteristiche socio-demografiche di coloro che rappresentano i principali protagonisti dei flussi in uscita più recenti. I nuovi emigrati, infatti, sono relativamente giovani, con un livello di istruzione generalmente medio-alto, non di rado in possesso della laurea. Se si tiene conto delle relazioni esistenti fra sviluppo economico, capitale sociale e capitale umano, va da sé che la perdita – seppure contenuta – di risorse dall’alto profilo professionale e dall’elevata formazione rischia di impoverire ulteriormente le aree di partenza, già messe a dura prova in questi ultimi anni da una grave crisi del sistema industriale (come nel caso del Sulcis-Iglesiente). A tale proposito alcuni autori hanno posto in luce come, seppure «ancora nel periodo 1982-1986 la quota di emigrati [sardi] in possesso di un diploma di scuola secondaria e di una laurea rappresentava il 19% del totale, ultimamente (1997-2002) la quota parte di questi emigrati [è stata] del 35%» (Puggioni, Zurru, 2008). Si tratta di un dato che, in rapporto alle caratteristiche qualitative dei flussi, presuppone una lettura più approfondita circa le tendenze in atto, sia riguardo al profilo socio-demografico dei nuovi emigrati, sia in ordine alla loro origine territoriale e ai luoghi di destinazione. Nel caso specifico dell’emigrazione verso l’estero viene in soccorso la banca dati dell’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), seppure con non poche lacune, sovente attribuibili al ritardo con cui gli stessi emigrati provvedono (o non provvedono affatto) alla registrazione delle cancellazioni delle residenze anagrafiche nei Comuni di provenienza.

 

Evoluzione, Paesi di destinazione e origine territoriale dei flussi in uscita

A maggio del 2009, il dato degli iscritti sardi all’Aire è aumentato complessivamente del 5,9% rispetto all’anno precedente (passando da 93.497 a 99.049 unità). Si tratta di un incremento superiore di circa un punto percentuale rispetto a quello nazionale (pari al 4,8%). La crescita appare confermata anche dalle fonti Istat sulle cancellazioni delle residenze anagrafiche per l’estero; basti pensare che, relativamente al periodo 2002-2008, i dati dell’Istituto nazionale di statistica registrano una media di poco più di 1.400 cancellazioni annue. L’incidenza della popolazione iscritta all’Aire nel maggio 2009, rispetto a quella residente nell’Isola, è del 5,9% (il dato a livello nazionale è del 6,5%). Il grosso dell’emigrazione sarda continua a risiedere prevalentemente in Europa, in particolare nei Paesi dell’Unione Europea (nell’82% dei casi). Nello specifico, i primi sei Paesi di residenza (vale a dire Germania, Francia, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi e Regno Unito) detengono l’86% di tutti gli iscritti sardi all’Aire, con proporzioni sostanzialmente immutate rispetto agli anni precedenti. I primi Paesi extraeuropei in cui gli immigrati sardi risiedono con oltre mille unità continuano ad essere l’Argentina (con 2.886 iscritti, pari al 2,9%), gli Stati Uniti d’America (con 1.436 iscritti, corrispondenti all’1,4%) e l’Australia (con 1.280 iscritti, pari all’1,3%). Il primo Paese africano per numero di residenti è il Sud Africa (471), mentre quello asiatico è la Thailandia (51). Rispetto al 2008, per ciò che concerne le destinazioni, gli incrementi più significativi in termini percentuali hanno riguardato sia i Paesi europei, fra cui la Spagna (+25,7%) e l’Irlanda (+18,4%), sia i Paesi extraeuropei, in particolare quelli latinoamericani, fra cui l’Uruguay, il Brasile, il Cile e l’Argentina (tutti con un +15%). L’incremento in valori assoluti conferma come la Germania e la Francia siano mete preferite, come nel passato, anche dagli attuali emigrati sardi, avendo registrato rispettivamente un incremento di 1.414 e 819 unità in relazione al 2008. Di fatti, i sardi registrati in Germania sono passati da 27.184 a 28.598, mentre quelli registrati in Francia sono passati da 23.110 nel 2008 a 23.929 nel 2009. Peraltro, rispetto al medesimo periodo, la presenza dei sardi è cresciuta in modo significativo anche nel Regno Unito, passando da 5.479 a 6.103 (un incremento pari all’11,4%). A ben considerare, i dati più recenti sulle iscrizioni all’Aire pongono in luce un certo dinamismo riguardo alla mobilità dei sardi nei Paesi d’oltreoceano, confermando allo stesso tempo il carattere strutturale dell’emigrazione isolana verso i Paesi europei. Per quanto attiene la provenienza provinciale (per il 2009 i dati dell’Aire fanno ancora riferimento alle quattro province storiche della Sardegna, vale a dire Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano), va rilevato come la maggior parte degli emigrati sardi sia originaria della Provincia di Cagliari, con una quota pari al 39,1%. Poco meno della metà proviene dalla Provincia di Nuoro (24,9%) e da quella di Sassari (24,4%), mentre dalla Provincia di Oristano giunge solo l’11,6%. Per quanto concerne i dati di flusso, le fonti Istat sulle cancellazioni per l’estero consentono di calcolare una media relativa al triennio 2006-2008, con una disaggregazione che fa riferimento alle attuali otto Province amministrative della Sardegna. Al primo posto si colloca la Provincia di Cagliari, con una media di 492 cancellazioni, Seguono le Province di Sassari (283), Olbia-Tempio (146), Oristano (134), Carbonia-Iglesias (110), Nuoro (101), Medio Campidano (81) e in ultimo Ogliastra (50). Considerando il numero degli iscritti all’Aire, nel caso degli emigrati originari delle Province di Cagliari, Nuoro e Oristano, si collocano ai primi tre posti, in ordine decrescente, i residenti in Germania, Francia e Belgio. Nella Provincia di Sassari, invece, cambia l’ordine del primo Paese (la Francia, al posto della Germania), mentre rimane invariata la posizione del Belgio (al terzo posto). Il quarto posto è occupato dalla Svizzera in tutte le Province, tranne che in quella di Cagliari, ove si posiziona al sesto posto dietro ai Paesi Bassi e al Regno Unito.

 

Profilo socio-demografico degli emigrati sardi dalle fonti più recenti

Chi sono i circa 100.000 sardi che risultano iscritti all’Aire ad aprile del 2009? Rispetto a ciò va rilevato che i database non appaiono particolarmente prodighi di informazioni, soprattutto a causa dei dati non specificati rispetto ad alcuni campi. Dai dati disponibili si può affermare che la maggior parte degli emigrati sardi è composta da uomini (per il 54,9%). Tale componente risulta maggioritaria in tutte e quattro le province sarde d’origine. Per lo più si tratta di persone relativamente giovani (la parte più ampia, pari al 27,5%, si colloca nella classe d’età compresa tra i 30 e i 44 anni), anche se appare comunque rilevante la quota di coloro che possiedono un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (pari al 25,6%). Il 18% dei residenti sardi all’estero risulta minorenne (la porzione più consistente proviene dalla Provincia di Cagliari) e solo il 13% ha un’età uguale o superiore a 65 anni. Per quanto riguarda lo stato civile, più della metà risulta celibe o nubile (il 56,4%). Risultano coniugati, invece, soltanto nel 36,8% dei casi. Assolutamente minoritaria la quota di vedovi e divorziati: rispettivamente il 2,1% e l’1,8%. Per una quota pari al 2,8% non è stato possibile risalire alle informazioni riguardanti lo stato civile. Ugualmente non utilizzabili appaiono i dati riguardanti il livello di istruzione, giacché nel 77,7% dei casi gli emigrati sardi non hanno reso disponibile tale informazione. Le stesse considerazioni valgono sia per la “condizione professionale” (informazione non disponibile nel 90,8% dei casi) sia per il “settore di attività” (dato inutilizzabile nell’88,9% dei casi). Esaminando i dati riguardanti i motivi di iscrizione degli emigrati sardi all’Aire, risulta che nel 62% dei casi si tratta di richieste associate all’espatrio. Seguono i

motivi di nascita (30,6%), il trasferimento da altro Comune (3,8%), l’acquisizione di cittadinanza (2,1%) e la re-iscrizione da irreperibilità (1,6%). Va infine rilevato come la quota più consistente degli emigrati sardi censiti dall’Aire (pari al 59,8%) sia composta da lungo residenti, in quanto iscritta da oltre 10 anni nelle relative banche dati

 

Emigrazione sarda e alcune questioni aperte

Anche per la Sardegna, dunque, l’emigrazione continua ancora oggi a rappresentare una realtà importante e in continuo divenire. Il fenomeno dei flussi in uscita continua ad accompagnare non poche comunità territoriali dell’Isola, sebbene con caratteristiche differenti rispetto al passato, per il profilo quantitativo e qualitativo che contraddistingue l’attualità: un fenomeno che, stante il recente acuirsi della crisi del settore industriale e più in generale del tessuto socio-economico, potrebbe rivelarsi di portata ancora più ampia nell’immediato futuro. Peraltro, alcuni indicatori relativi al 2008, fra cui la disoccupazione di molti giovani sardi (al 21,3% nella classe d’età 15-24 anni e oltre il 30% fino ai 30 anni) e l’incidenza della povertà relativa sulle famiglie isolane (pari al 19,4%, a fronte dell’11,3% a livello nazionale), tendono a confermare la probabilità di nuove partenze, sia verso altre regioni italiane sia verso l’estero. Di fronte a tali prospettive, sono in molti a chiedersi quale possa essere il contributo delle associazioni che si occupano della tutela degli emigrati (vecchi e nuovi), in particolare nel governare la complessità del momento; aspetti, questi, affrontati diffusamente nel Rapporto Italiani nel Mondo (Aledda, Callia, 2008) e su cui si sofferma, in buona misura, anche il paragrafo quarto di questo stesso capitolo. Da più parti, segnatamente in questi ultimi anni, si sottolinea come lo stesso sistema di relazioni tra le vecchie e le nuove generazioni di emigrati costituisca spesso un forte elemento di conflittualità. Taluni, non senza una nota polemica, ritengono che in alcuni casi i circoli sardi siano rimasti a lungo troppo chiusi in se stessi, limitandosi ad organizzare attività interne per i propri soci. Ricambio delle leadership, trasparenza ed apertura nel sistema dei finanziamenti regionali ai circoli, maggiore partecipazione nei processi decisionali, innovazione nei contenuti e nelle attività proposte, sono tutti aspetti su cui le nuove generazioni di emigrati chiedono di poter esprimere maggiore protagonismo, col desiderio di poter offrire un proprio specifico contributo. Anche a livello istituzionale si registrano dei segnali di novità. Anzitutto un’attenzione diversa per il mondo dell’emigrazione, troppo spesso associato retoricamente al passato storico, privo di ricadute sul presente e ancora di più sul futuro della Sardegna. Uno di questi segnali sembrerebbe rappresentato dall’aver voluto organizzare a Cagliari, nell’aprile del 2008, una Conferenza internazionale (dal titolo “I Sardi nel Mondo”) cui hanno preso parte oltre 400 delegati in rappresentanza delle comunità sarde sparse nei vari continenti; un segnale di novità giacché, come ha rilevato il mensile “Il Messaggero Sardo”, c’erano tante facce note, «esponenti della vecchia emigrazione, quelli che erano partiti con le valigie di cartone e che hanno costituito circoli e associazioni e hanno combattuto per ottenere il riconoscimento dei loro diritti. Ma c’erano anche tante facce nuove, dei figli dei vecchi emigrati, quelli della seconda generazione […]. E c’erano gli esponenti della nuova emigrazione, giovani spesso laureati costretti a cercare lavoro o migliori opportunità lontano dall’Isola. Tutti legati da un sentimento comune: far qualcosa, essere messi nella condizione di dare il proprio contributo allo sviluppo della Sardegna […]. Per tre giorni [dal 25 al 27 aprile] hanno discusso, si sono confrontati e hanno risvegliato un interesse che negli ultimi lustri era sembrato si fosse affievolito». Sempre sul piano istituzionale va ricordato che la Regione Autonoma della Sardegna, attraverso i cosiddetti Piani triennali (l’ultimo predisposto è quello relativo al periodo 2009-2012, con uno stanziamento di 4 milioni di euro), sulla scorta della legge regionale n. 7/1991 dispone periodicamente gli interventi a favore delle organizzazioni dei sardi emigrati e delle associazioni di tutela operative in Sardegna. Si tratta di un’attenzione che, in occasione del Piano triennale 2007- 2009, si è tradotta anche sul versante conoscitivo, con lo scopo di approfondire sempre più (e sempre meglio) la conoscenza dei sardi sparsi nei vari continenti. Le associazioni dei sardi nel mondo dall’“osservatorio” CREI-ACLI Il processo in atto che sta attraversando la realtà associativa delle comunità italiane nel mondo vede protagoniste, tra le tante esperienze, le associazioni che fanno riferimento alle regioni di origine degli emigrati. Associazioni che hanno assunto un ruolo storico per la crescita e il mantenimento dell’identità culturale, hanno contribuito e ancora oggi contribuiscono al processo di sviluppo dei diritti di cittadinanza, di partecipazione e di rappresentanza, unitamente ad altre forme associative a carattere di promozione sociale e nazionale. L’associazionismo dei sardi è inserito, oggi come ieri, dentro questo processo di cambiamento, portando nel dibattito generale la propria originalità organizzativa e culturale all’interno delle comunità in cui sono state accolte e in cui vivono e operano quotidianamente. Come si è posto in luce in questo stesso capitolo, l’emigrazione dei sardi è fenomeno relativamente recente rispetto alla gran parte delle Regioni italiane. Se si escludono i primi movimenti tra il XIX e il XX secolo verso l’Uruguay, l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti d’America, è durante il periodo a cavallo tra le due guerre mondiali, e poi a seguito della crisi mineraria, che si registra una migrazione in uscita con cifre rilevanti. L’emigrazione dei sardi, sebbene statisticamente poco significativa in proporzione ai grandi flussi delle regioni più popolate, quali il Veneto, il Piemonte, la Lombardia, la Calabria e la Sicilia, è divenuta nel tempo un fenomeno rilevante in rapporto alla popolazione complessiva dell’Isola, se si considera che, per restare agli anni più recenti, nel ventennio 1950-70 più di 400 mila sardi abbandonarono l’Isola (con una popolazione residente compresa fra poco più di 1.200.000 e circa 1.400.000 abitanti). Non a caso, per i sardi, l’immagine stessa dell’emigrato si estende a tutti coloro che hanno lasciato l’Isola perché costretti dal bisogno anche, se si sono fermati dentro i confini dello Stato italiano. Il bisogno di mantenere le relazioni con la terra d’origine e fra gli stessi emigrati, la necessità di esprimersi con la propria lingua, l’attaccamento alle radici e alle tradizioni, hanno agevolato sin dalle prime esperienze la costituzione di associazioni e di circoli visti come spazio, non solo fisico, dove vivere anche se lontani, da sardi e alla maniera dei sardi, momenti di aggregazione sociale e culturale. Tutto ciò per continuare a praticare quei valori di solidarietà e di comunione insiti in quel concetto di “Sardegna Nazione” teorizzato da Emilio Lussu, con il quale un’intera generazione di emigrati aveva combattuto durante la Grande Guerra. Contemporaneamente, in Sardegna, nascevano i primi movimenti di ispirazione cristiana e sindacale per organizzare le tutele degli emigrati ed assistere le loro famiglie rimaste nell’Isola. Nel corso degli anni sono sorti il “Comitato d’Intesa”, il “Consorzio delle Associazioni” e l’“Istituto Culturale”, per arrivare all’attuale “FAES” (Federazione Associazione Emigrati Sardi), che in Sardegna raggruppa in forma federativa le associazioni che si occupano di sardi non residenti. L’attività di sensibilizzazione da parte delle associazioni nei confronti dell’Amministrazione regionale portò alla promulgazione del primo provvedimento normativo specifico (la legge regionale 10/65), attraverso cui furono disposti i primi strumenti a favore degli emigrati sardi con interventi assistenziali alle famiglie, mutuando il modello dall’esperienza già maturata nell’ambito delle organizzazioni cattoliche. Si dovette attendere il 1972, perché in Sardegna si prendesse coscienza della realtà vissuta da una gran parte dei sardi emigrati. La conf
erenza svoltasi ad Alghero in quell’anno, infatti, vide lo scioglimento del “Comitato d’Intesa” e fece registrare la necessità di una mobilitazione generale non solo per i diritti degli emigrati ma per lo sviluppo complessivo dell’Isola. Di fatti, era cresciuta la consapevolezza che solo con lo sviluppo socio-economico si potesse arginare il flusso di quanti erano costretti a lasciare l’Isola in cerca di fortuna. La conferenza di Alghero segnò quindi il confine tra gli interventi socio-assistenziali tradizionali e l’azione politica del mondo dell’emigrazione sarda. I circoli divennero luoghi di dibattito politico, si rafforzarono i legami con le istituzioni in Sardegna, si organizzarono con organi democratici e nacquero nei vari Stati le prime “Leghe nazionali”, organismi di coordinamento dei circoli ma anche luoghi di rappresentanza politica. Crebbe pure la partecipazione degli emigrati alle elezioni politiche ed amministrative in Sardegna, a costo di oneri finanziari sostenuti personalmente per affrontare le spese di viaggio. Solo nel 1989, con la “Conferenza programmatica” tenutasi a Cagliari, furono riconosciuti ai sardi non residenti nell’Isola i diritti di partecipazione sostanziale alle scelte politiche, economiche e culturali riguardanti la Sardegna. Sulla scorta di quel riconoscimento si giunse, infatti, alla formulazione della Legge regionale 15 gennaio 1991, n. 7 (ancora oggi in vigore), le cui finalità – indicate nel primo articolo – sono orientate a «rafforzare i legami con le comunità sarde situate fuori dall’Isola». In questa prospettiva, la legge del 1991: «a) garantisce la parità di trattamento tra sardi residenti e non residenti; b) promuove […] forme di partecipazione e di solidarietà tra lavoratori emigrati; c) promuove pari opportunità di elevazione morale e materiale per coloro che rientrano o che comunque mantengono contatti con la terra d’origine; d) promuove ogni iniziativa rivolta a tutelare e sviluppare i legami di identità tra la Sardegna e le comunità sarde extra isolane. [Inoltre, al secondo comma del medesimo articolo, si stabilisce che è compito della Regione favorire] il concorso dei sardi non residenti e la funzione democratica e culturale dell’associazionismo sardo fuori dall’Isola, valorizzando le competenze professionali, le esperienze umane e il possibile contributo di iniziative imprenditoriali finalizzate allo sviluppo della Sardegna». Oramai, la legge rendeva chiaro come lo scenario associativo non fosse più composto soltanto da associazioni di carattere etnico-regionale, ma da vere e proprie organizzazioni promotrici di cultura sarda; non più associazioni con le quali i sardi richiedevano unicamente assistenza e solidarietà, ma vere e proprie vetrine dell’Isola. Luoghi di incontro in grado di diffondere informazioni e di confrontarsi con le società in cui erano – e sono tuttora – inseriti, divenendo punti di riferimento per chi all’estero è interessato alla Sardegna. Attualmente i circoli sardi esistenti registrano una presenza preponderante nella Penisola. All’estero sono maggiormente presenti in Europa, anche se non mancano delle sedi operative in America e Australia, come si evince dalle informazioni fornite dal sito internet istituzionale della Regione Autonoma della Sardegna, in cui si legge che i circoli, «nati per aiutare gli emigrati a integrarsi nelle nuove realtà […], hanno un compito morale, culturale, sociale e solidale da svolgere per la crescita della società sarda». Come si è già rilevato, la maggior parte dei circoli sardi esistenti ed operativi fuori dall’Italia si concentra in Europa (pari al 71%), in particolare in Germania, Francia, Svizzera, Belgio ed Olanda. In America (soprattutto Latina), opera il 23% dei circoli sardi (in particolare in Argentina e Brasile). Anche nella lontana Australia risultano presenti ed operativi quattro circoli. Sempre secondo le informazioni rese disponibili dal sito istituzionale della Regione Sardegna, nelle altre regioni italiane i circoli sono presenti per lo più nel Nord (in Lombardia, Piemonte e Veneto). In minor numero, invece, sono presenti in Emilia Romagna, Lazio, Liguria e Toscana. I circoli, organizzati secondo le norme del Paese in cui sono sorti, sono un punto di riferimento per i sardi e i loro discendenti. Considerando che ormai nella maggioranza dei casi si tratta di persone appartenenti quasi sempre alle terze o successive generazioni, appare chiaro quale sia la loro importanza per il mantenimento e la trasmissione dei valori e delle tradizioni proprie della cultura sarda. Ciò risulta più evidente nei circoli d’oltreoceano (in America e in Australia), ove i flussi emigratori di una certa consistenza sono cessati da oltre 40 anni, con una presenza poco numerosa di emigrati sardi nati in Sardegna, ma con una significativa popolazione di discendenti, assai attiva e alla quale è oramai affidata la gestione delle associazioni e delle attività sociali e culturali. Si tratta di sardi con doppia cittadinanza che vogliono sentirsi partecipi della vita culturale della Sardegna, mantenendo vive le tradizioni, la cultura e la lingua. Sardi di passaporto italiano, ovvero sardi di cuore, come molti amano definirsi. Ad oggi non esistono riferimenti certi per quanto riguarda la consistenza numerica della comunità sarda allargata alle generazioni di discendenti (che non hanno mantenuto la cittadinanza italiana), né questo sarà possibile in futuro. Ciò che si può affermare, anche in virtù delle ricerche sui cognomi sardi effettuate da numerosi circoli, è che si tratti di una collettività con un numero di membri almeno doppio rispetto ai flussi migratori delle prime generazioni. Non a caso, in questi anni, i circoli si sono attrezzati per assistere i propri aderenti nello svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie per il riconoscimento della cittadinanza italiana, rendendo più visibile la comunità dei sardi all’estero. Un ultimo cenno deve essere fatto riguardo ai circoli sardi dell’Italia continentale e la loro Federazione. La loro esistenza, caratterizzata da un impegno che continua ad essere profuso a livello sociale e culturale, risulta quanto mai utile ancora oggi, soprattutto nell’essere un punto di riferimento per i tanti giovani che negli ultimi anni hanno ripreso la via dell’emigrazione verso il Nord Italia e verso l’estero. Una nuova emigrazione che necessita ancora di punti di accoglienza per quanti giungono alla ricerca di un lavoro e desiderano ritrovare nei circoli monumenti di aggregazione e possibilità di sentirsi ancora parte di un’unica comunità.

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