AI PIEDI DEL TORNADO NEGLI STATI UNITI, DOVE LE CATASTROFI SI SUPERANO E SI VINCONO CON LA CULTURA DEL FAR DA SE'


di Gianfranco Cappai

È l’odore acre e pungente di legna e fango, la prima cosa che colpisce. E dopo viene il silenzio. Di Joplin, Missouri, è rimasto molto poco. Al tornado formatosi con venti che soffiavano a circa 350 km/h è bastata una mezz’ora per devastare una città. Centinaia di alberi centennali dalle radici possenti sono stati completamente sradicati. A quei pochi che hanno avuto la forza di tenersi aggrappati a Madre Terra è stata portata via la corteccia, senza pietà. Nudi, come pecore dopo una tosatura, con un corpo bianco pallido, rimangono lì, privati, per motivi di sicurezza, anche dei loro arti ormai storpi e spezzati dalla rabbia del vento.

La vernice rossa e nera nelle facciate di quelle che una volta erano case, con semplici codici, indica il numero di persone che, vive o morte, sono riuscite ad uscire o sono state trovate all’interno delle stesse. Carcasse di macchine da tutte le parti: in mezzo ad una strada, in cima a qualche tetto semidistrutto, aggrovigliate intorno ad un albero o una struttura di cemento particolarmente fortunata e resistente. L’ospedale ha perso i suoi due piani più alti ed è stato completamente devastato al suo interno. Una macchina per i raggi X è stata addirittura trovata a un centinaio di km di distanza da Joplin. 142 morti, 900 feriti e 105 persone ancora scomparse si aggiungono alle migliaia di senzatetto. 8000 strutture, tra case, appartamenti, edifici adibiti ad uffici, scuole, chiese ed ospedali rasi al suolo per un totale di 3 miliardi di dollari in danni. È stato il tornado più devastante (da quando si è cominciato a registrarne sia la potenza sia le conseguenze del fenomeno) nella storia degli Stati Uniti d’America. E poi ci sono gli americani. Quelli che piantano bandiere a stelle e strisce sugli alberi spezzati o tra un cumulo di pietre davanti ad una vecchia porta ferita. Quelli che alla CNN dicono che anche se il tornado li ha presi a calci in culo loro si rialzeranno e ricostruiranno, come avevano già fatto qualche decennio prima con un tornado di minore intensità. Quelli che non si affidano alla Croce Rossa, perchè sanno che la burocrazia ci mette sempre troppo tempo; e vengono dal Wisconsin, dall’Alabama, dal Michigan, dalla Pennsylvania con le loro auto ed i loro van carichi di aiuti di ogni tipo. Quelli che piazzano bancate improvvisate in altrettanto improvvisate piazzole, per dare da mangiare a chi ha bisogno, e lascia cartoni con bottiglie d’acqua negli incroci stradali o ai lati delle strade, per chiunque avesse sete. Quelli che hanno perso tutto e si riuniscono nelle enormi chiese per racimolare donazioni e, instancabilmente, organizzano gli aiuti che sono a disposizione e, a notte fonda, stremati, dormono davanti all’altare. Quelli che al dargli alcune buste per la spazzatura ti abbracciano e piangono, ringraziandoti, felici, emozionati e consapevoli allo stesso tempo di vivere in un paese di contraddizioni permanenti, ma sempre unito nel momento del bisogno. Quelli che, passando con un camioncino carico di cibo e bibite fresche, sorridono e salutano mentre stai lì a guardare la desolazione intorno e ti chiedono se c’è bisogno di qualcosa, se hai bisogno di una mano. Quelli che, immancabilmente, ti salutano con un “che Dio ti benedica”. Quelli che, per buona educazione, anche in mezzo al disastro più totale, puliscono gli escrementi che il cane che portano a spasso ha appena lasciato in un giardino devastato quanto la casa che gli stava dietro; perchè a loro non è venuto in mente che quella casa non ci potrebbe essere più: sono certi del fatto che quella devastazione è temporanea. Per questa ragione quello è ancora considerato il giardino di qualcuno. E, alla fine, ci sono io. Io che non riesco a capire il perchè dietro ogni disastro che succede nel mio paese ci siano parole e rimorsi tardivi per non aver agito nella maniera giusta quando se ne aveva la possibilità. Io che non capisco perchè ci sia sempre quel sottile velo di apatia tra di noi che, a seconda della latitudine, ci crediamo geneticamente superiori e ancora pensiamo che forse al sud o al nord certe cose se le meritano pure. Io che non capisco perchè ci siano sempre problemi con fondi e aiuti che, se arrivano, arrivano sempre dimezzati perchè finiti nelle tasche del furbo di turno o caduti nei buchi della grande ragnatela chiamata burocrazia. Io che non capisco perchè sia più importante scendere a compromessi con la speranza che le catastrofi non accadano o giocando con lo statistichese piuttosto che prevenire in tempo qualcosa. Insomma, te lo chiedo davvero con tutto l’amore e l’affetto che provo per te, cara Italia: fa qualcosa, non spingermi a dare ragione agli stereotipi

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