PER SERGIO PORTAS E' SEMPRE ISTRUTTIVA LA LETTURA DELLE "LETTERE DAL CARCERE" DI ANTONIO GRAMSCI, ANCHE A 74 ANNI DALLA SUA MORTE

la copertina del libro e nel riquadro Sergio Portas

la copertina del libro e nel riquadro Sergio Portas


di Paolo Pulina

 Nell’anno in cui ricorre il 120° anniversario della nascita di Antonio Gramsci avvenuta ad Ales (oggi in provincia di Oristano) il 22 gennaio 1891 e  in collegamento con la  ricorrenza del 74° anniversario della morte (27 aprile 1937) del martire antifascista, non mancano le riproposizioni delle sue Lettere del carcere, scritte nelle prigioni in cui il regime mussoliniano aveva segregato dal novembre 1926 l’oppositore politico, al cui cervello si era creduto di poter  imporre di “non funzionare” per almeno vent’anni.  

In abbinamento al “Corriere della Sera”, nella collezione “I classici del pensiero libero”, è arrivato qualche settimana fa nelle edicole (ed è stato in breve tempo esaurito, anche grazie al modico prezzo:  solo un euro) un volumetto con  una selezione delle Lettere gramsciane curata a suo tempo per Einaudi da Paolo Spriano, arricchita da una nuova prefazione, firmata  da Luciano Canfora.

La stessa casa editrice  Einaudi ha riproposto di recente la scelta delle Lettere a cura di Spriano, premettendovi una prefazione della scrittrice sarda Michela Murgia.

Anche il giornalista Sergio Portas (nato a Guspini  ma da decenni residente a Milano, dove si è laureato in Scienze Politiche e dove ha insegnato per 35 anni)  ha voluto confrontarsi con le Lettere dal carcere del grande conterraneo, leggendole in relazione costante a una  situazione geografica e storica ben determinata: la Lombardia del 2010. I risultati della sua applicazione ai testi gramsciani oggi li possiamo leggere, a nostra volta, nel suo appassionato e appassionante volume intitolato Antonio Gramsci: coscienza internazionalistica e subconscio sardo edito da Mediatre di Guspini   –  euro 10,00 – ,  che pubblica anche il quindicinale “Gazzetta del Medio Campidano”, in cui Portas ha una pagina sulle iniziative dei sardi emigrati in Lombardia dal titolo “Sardegna nel cuore”).  

Dice Portas: “Il mio libro sul sardo Antonio Gramsci  è riferito in prima istanza ai sardi tutti e in seconda ai sardi più giovani, magari a quelli che come lui hanno dovuto lasciare l’isola natia. E che poco  o nulla conoscono di come lui vivesse la sua sardità”.

La ricerca di Portas  è certo tesa a scovare nelle Lettere  gramsciane tutti i riferimenti che esse contengono alla storia, alla cultura, alla mentalità, ai costumi dei paesi della Sardegna e dimostra quanto forte fosse il cordone ombelicale che legava  il Grande Sardo alla terra natale  (“Gramsci emigrato sardo” ho voluto intitolare una mia relazione su questi stessi temi, sulla base della premessa che anche lui, soprattutto perché ne viveva  lontano, aveva un pensiero permanente: madre-Sardegna; Portas ha voluto riprodurre questo mio testo come postfazione del suo lavoro). Ma a Portas non interessa solo dare una rassegna compilatoria di citazioni “sarde” presenti nella corrispondenza gramsciana (è importante anche questo regesto, peraltro). La sua passione civile di giornalista “alla Gramsci” (non vende la sua penna a chi gliela paga meglio; vuole rimanere liberissimo senza nascondere le sue profonde convinzioni per far piacere a padroni e manutengoli) lo porta ad inserire tra le righe del testo una filigrana di riflessioni attualizzanti che ci dicono apertis verbis come lui vede la condizione della Milano e della Lombardia sottoposte all’ “egemonia” culturale leghista e lo stato di un Paese come l’Italia  (“e poi giù a gridare slogan razzisti e xenofobi, che tanto questo è il mercato della politica più becera”; “l’Italia sta sperimentando il ritorno xenofobo di correnti separatiste e particolariste: tali che sono, paradossalmente, al governo della nazione”).

Lo scrittore francese Claude Roy, leggendo in Lombardia nell’aprile 1948 la prima edizione delle Lettere, si commosse “al limite delle lacrime e della esaltazione”, e osservò: “Il solo fatto di leggere oggi queste lettere, sotto forma di un libro, rischierebbe di attenuarne la grandezza. Questo libro, infatti, è stato scritto giorno per giorno in undici anni di prigionia da un piccolo gobbo, malato, minato.[…] Niente ha potuto averla vinta sulla bontà di Gramsci, sulla sua gentilezza d’animo, sulla sua curiosità di spirito, sulla sua volontà, sulla sua potenza di meditazione e di lavoro”.

Alla luce di una lettura che ha suscitato in lui una commozione analoga a quella provata da Roy oltre 60 anni prima, il messaggio di Sergio Portas si può sintetizzare in queste parole riecheggianti lo schema di  giudizio dello scrittore francese: “Niente ha potuto averla vinta sulla sardità di Gramsci”.

Nel suo complesso questa corrispondenza (della quale  Benedetto Croce ha scritto che “appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico”)  –  sottolinea Canfora nell’edizione del “Corriere” – “ha un triplice valore: letterario, per la qualità indiscutibile della prosa; intellettuale, per le idee che l’ autore esprime; umano, per la sofferenza cui il detenuto è sottoposto e che non fa mai venir meno la sua volontà di non piegarsi ai carcerieri”.

Michela Murgia (così come Sergio Portas) è interessata a mettere in luce il “danno” che può provocare nei giovani,  nei ventenni,  “la privazione dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile come Gramsci”. Per lei, “queste lettere personali, quanto di più lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico”.

Insomma, queste Lettere non possono lasciare “indifferenti” (condizione che Gramsci avversava in sommo grado); esse ci offrono la lezione di un “classico”, cioè di un maestro-modello di coraggio, di moralità, di profondità di pensiero,  e anche di bella, brillante scrittura (non a caso Giuseppe Fiori – lo ricordiamo con affetto a otto anni esatti dalla morte –  raccomandava  questa lettura ai giovani desiderosi di diventare giornalisti).

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