LA VOCE NURAGICA DELLE LAUNEDDAS: IPNOSI ESTETICA DEL FIATO CONTINUO


ricerca redazionale

Ipnosi estetica del fiato continuo. Che comunque non basterebbe a spiegare l’enigma delle launeddas. Tre canne e una musica ruvida quanto sacrale che attraversa millenni di storia. E proprio dall’Aulete itifallico di Ittiri, il sorprendente bronzetto che raffigura un suonatore di launeddas, conservato nel museo archeologico di Cagliari, prende le mosse “Le launeddas nuragiche”, di Piero Ortu, Ptm editrice Mogoro. Uno studio innovativo che si addentra nel fascino e mistero di uno strumento e della sua musica fuori dal tempo.
Piero Ortu, economista ed ex sindaco di Oristano, è un cultore di launeddas, che ha imparato a suonare e costruire. Dopo quattro anni di ricerca ha elaborato una tesi unica nel suo genere che avvicina le launeddas sarde all’antico flauto europeo (pipiolu o pipaiou , ovvero lo stesso flauto di Corcelettes). Un’analisi approfondita di ciò che intuì il più grande studioso di launeddas, Andreas Fridolin Weiss Bentzon. Accantonata l’analisi secondo i canoni della musica moderna («che fa apparire le launeddas come uno strumento estremamente complesso perché ci si perde nelle diversità delle sue tonalità»), lo studioso avanza attraverso uno studio modale, già sperimentato positivamente da uno dei massimi suonatori di launeddas del passato, Dionigi Burranca. «Burranca aveva elaborato un suo metodo di scrittura della musica in una dimensione modale», precisa Ortu. «Ovvero poteva creare uno spartito per ogni tipo di strumento indipendentemente dalla sua tonalità». Ma l’analisi modale «evidenzia anche la diversità derivata dall’influsso delle scale degli altre flauti mediterranei la cui differenza minima è diventata sostanziale». E qui si entra nel nocciolo della questione. «A tutt’oggi infatti ogni ricerca sulle launeddas si è riferita ad una concezione ottocentesca dell’evoluzione che talvolta si è rivelata spesso frutto di un’analisi superficiale, priva di fondamento logico e del supporto di un’analisi scientifica». Ed è da queste basi che Ortu parla di incroci perfetti tra lobas (cioè le due canne unite: bordone e canna melodica di accompagnamento) e mancoseddas , la più piccola che in genere suona la melodia. Combinazioni che, scaturite dagli incroci di strumenti originari quali su moriscu e su para ‘e sa mongia , hanno portato oggi agli strumenti usati e conosciuti. Le diverse tipologie di launeddas ancora in uso, circa tredici, «possono essere divise in tre gruppi in base alla nota modale di armonizzazione della mancosedda», scrive lo studioso. Nel primo gruppo (armonizzazione in Sol) «troviamo gli strumenti più antichi con il relativo patrimonio musicale, poiché alla mancosedda è dato il ruolo di esprimere la melodia». Ortu fa notare anche come, l’armonizzazione in Sol, «fu probabilmente obbligata perché era l’unica soluzione per soddisfare il desiderio di esprimere un patrimonio musicale noto, quello del flauto europeo, nella realizzazione della prima launedda con un’armonizzazione appunto simile a quella del canto a tenores». Solo in un secondo momento («forse da un’influenza greca e mediorientale»), nascono strumenti armonizzati in Do e La. «I suonatori nuragici capirono che l’armonizzazione delle tre canne potesse avvenire solo negli attuali Sol, Do e La, escludendo il Si che esprime un semitono. Di conseguenza realizzarono, nel tempo, i primi tre strumenti nella soluzione più semplice delle scale parallele a cui la mediana a pippia si avvicina di più, dato che è la prima derivazione, ovvero la più antica launedda ancora oggi in uso». Da evidenziare poi il curioso collegamento, individuato dall’autore, fra l’evoluzione delle mediane e i nomi che indicano le diverse fasi di vita della donna, (mediana a pipia, manna o asciutta, fiuda e fiudedda. Ovvero: ragazzina, adulta, vedova e ragazza madre). E a sostegno della teoria delle scale “parallele”, già note e applicate dai greci e latini con il doppio aulos greco e la doppia tibia romana, pari ed impari, (come già evidenziato dal Fara), Ortu si sofferma su una serie di analisi delle combinazioni che daranno vita ai diversi strumenti. Il risultato di incroci sono inoltre «una conferma indiretta dell’ipotesi che tumbu e mancosa (loba) fossero legati fin dalle origini». Un suono quello delle launeddas che coglie l’anima dei sardi. E che nell’antichità era considerato «divino» come lo era il suonatore. «Un suono corale», conclude, «ovvero prodotto da più canne suonate simultaneamente, come è oggi, per cui più apprezzato del monodico suono del flauto antico». Per lo studioso si può tranquillamente sostenere come le launeddas conservate dalla tradizione, siano «l’ultimo retaggio vivo e smagliante della civiltà nuragica».

 

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