Mostra a Villa Siotto di Sarroch: dalla Grecia alla Sardegna, sulle onde del Mediterraneo

di Primo Pantoli

 

Mediterraneo: quasi un lago, una culla fra popoli e civiltà diverse, crocicchio di rotte percorse dai più disparati navigatori; le sue acque, fitte di approdi, col capriccio del caso e dei potenti, potevano unire o separare uomini diversi, recare fra loro floridi commerci o guerre devastanti, raffinate culture o barbarie disumane. Eppure nel fondo di queste acque non troppo cristalline, come nel fondo di un acquario limaccioso, protetto da un cielo caldo e azzurro, sono nati gli avannotti di civiltà destinate a stupire il mondo, per secoli. Nella storia e nel mito. E se la storia ci rivela, lungo le vie tortuose del progresso, altre nefandezze, ci consola il mito, portatore di poesia e di sogni. Virgilio, nell’intento di nobilitare la grezza praticità di Roma, ha guidato Enea lungo i tracciati di un progresso che non poteva non venire dalla Grecia, nel grande cordone ombelicale che ha fatto di Roma e del Mediterraneo il centro del mondo, sovrapponendo i miti, cambiando nome agli dei, rifacendo i loro templi, le loro statue, costruendo città insuperabili, finché a Colombo non venne in mente di bypassare l’Europa per altri lidi…… Il mito, dunque, ovvero la poesia. Saziato il ventre, l’uomo comincia a sognare. Gli uomini si trasformano in dei e eroi, in santi e martiri. Gli artisti producono le immagini. È un prodotto che va a ruba e non conosce crisi. Ogni popolo forgia i propri eroi, ogni stato vanta le sue origini sacre, ogni campanile il suo santo protettore. A ciascun superuomo il suo quadro o il suo monumento con gli occhi all’insù. Ogni mito ha il suo codazzo di retorica e di business. Fanno eccezione i grandi artisti che qualunque tema affrontino, anche il più squallido, sanno trasformarlo in opera di bellezza e poesia. Siamo alla mostra che il Comune di Sarroch ospita a Villa Siotto (fino al primo novembre) in un ambiente espositivo invidiabile e proseguendo nella scelta politica ardua, ma esemplare, di scommettere sull’arte ai più alti livelli. Lo scorso anno Goya, quest’anno i due massimi pittori dei miti del Mediterraneo: De Chirico e Aligi Sassu, il primo nato nella culla della classicità, la Grecia, il secondo, a Milano, ma da padre sardo originario di un oscuro paese di un’isola che ancora ai più era allora sconosciuta, silenziosa. Questa sardità, nel giovane milanese che venne a contatto con le più belle firme dell’avanguardia italiana, non verrà mai meno. Partecipa ai movimenti più avanzati, ma come defilato: il futurismo (ma senza rinunciare alla figura), la metafisica (ma senza la monumentalità di De Chirico o di Carrà), Delacroix, Gericault (ma senza il possente disegno rinascimentale che li sostiene), i fauves (ma come immersi in un magma di colori vibranti e spregiudicati), la Scuola romana di Scipione e i Mafai (ma entro un costrutto violento, sanguigno). Sfiora perfino Bonnard, (ma con temi sociali, politici, appassionati). Ovunque sembra sopravvivere in Sassu l’eterna " resistenza" della cultura sarda al modernismo della cultura globale, e in definitiva alle imposizioni del Sistema che già allora (Sassu muore nel 2000) cominciava a dominare l’universo artistico, e che ora impera indisturbato. Una bella mostra, una bella accoppiata, esempi di grande pittura, da noi rara, che può insegnarci molto, interessante affiancamento di due protagonisti, più per contrasti che per affinità. Accomunati dal Mediterraneo che De Chirico però indaga con spirito antico, con la memoria di antichi sogni e le avvisaglie di nuovi incubi, fra statue incombenti e piazze freudiane, sospeso fra una mitica età dell’oro e le cupe realtà del nuovo secolo. Accomunati dall’amore per i cavalli, che De Chirico vede come emblemi di mitiche guerre di giganti e di possenti cavalcate di eroi. D’altronde De Chirico dipinge con fredda determinazione, il suo colore sottolinea e accentua, con la precisione di un Paolo Uccello, piani prospettici e profondità di spazi. Aligi Sassu, al confronto, appare come un naif, se guardiamo il suo disegno anticlassico, planare, incurante di proporzioni e di solidità, che vuole ignorare la prospettiva, per disperdersi e annegare nella passione orgiastica di un colore allucinato, nella sensazione carnale dei corpi ammucchiati, rossi di sangue, abbiamo la percezione di una realtà umana che esula dal mito, anzi direi che riporta il mito sulla terra, fra gli uomini rossi.  Basterebbe la copertina del ricco catalogo della mostra – con la presentazione di Silvia Pegoraro – per evidenziare le profonde differenze di linguaggio fra i due. I cavalli di De Chirico sono alteri monumenti di marmo, possenti messaggeri di un mondo "altro". Il cavallo di Sassu guizza, pennellata fra le pennellate, nel gorgo di un rosso tramonto che tutto avvolge, cielo, mare, esseri viventi, è l’umanità dolente, contorta in una costante ribellione. E saranno gli operai in sciopero, i corpi disfatti delle donne dei caffè o dei postriboli, i santi, i martiri, che rivestino nomi mitici o siano cadaveri senza nome di combattenti per la libertà, Sassu non si sofferma sui particolari: tutto è favola amara. La riscatta un colore vivido, usa i colori complementari che accendono i dipinti, la corsa instancabile del piccolo sardo da un’esperienza all’altra, da una tecnica all’altra, affresco, mosaico, incisione, ceramica, scultura, in una frenesia di fare, dire, parlare, forse reazione ai ricordi della sua isola silenziosa. Così l’urgenza di viaggiare, per vedere, imparare, confrontare la propria cultura col resto del mondo, perché possa sbocciare.
Nella monografia che gli ha dedicato Simona Campus (Ilisso) si può leggere: "Ha scelto Milano per crescere, Maiorca per vivere e per amare. Ma torna sempre in Sardegna. Perché è la terra di suo padre. Perché qui è il fondamento della sua coscienza civile. Perché da qui si spiega il suo istinto per la libertà". Aligi Sassu tornerà in Sardegna per l’ultimo viaggio. Ha voluto che le sue ceneri fossero sparse nel Mediterraneo, dalle rocce di Alghero, a strapiombo sull’azzurro, come un ritorno a casa. Ai funerali di De Chirico, pochi hanno seguito il feretro: pochi artisti, ancor meno politici. Ironia della storia.

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