SORELLA PIETRA: IL PALCOSCENICO DELLA SARDEGNA COME SFONDO DELLE NOSTRE ESISTENZE

Perdas Fittas nel sito archeologico di Biru e concas – Sorgono

Per noi, nati in quest’isola, è come una sorella maggiore, la Pietra. La conosciamo da sempre, viviamo al suo fianco, ne sentiamo il profumo, ne abbiamo assimilato il carattere, duro. Per i turisti che scoprono i graniti della Gallura questi sono monumenti della natura, per noi no, sono parte di noi della nostra essenza.

La prima volta che, da ragazzo, mi sono trovato a Roma ho visto di fronte a me i monumenti che, per anni, avevo conosciuto solo dai libri di scuola. Potevo toccare con mano la colonna Traiana, entrare dentro il Colosseo o nella basilica di San Pietro. L’impatto era notevole, sindrome di Stendhal? Non lo so. Ciò che, tuttavia, mi colpiva più di ogni altra cosa era l’apparente indifferenza con cui la gente del luogo si relazionava con queste grandi opere. Le persone, passavano d’avanti a quelle meraviglie con assoluta noncuranza, impegnate nella loro quotidianità. Per me era diverso, non avevo mai visto quelle bellezze da vicino. Per me era un’esperienza nuova e, per certi versi, sconvolgente.

Così credo sia per le pietre di Sardegna. Siamo nati in mezzo a loro, fanno parte di noi. Sono membri della famiglia. Sono il palcoscenico che fa da sfondo alle nostre esistenze. Sono bellissime, lo sappiamo, ma non abbiamo la necessità di contemplarle. Non sono altro da noi, per questo non sentiamo il bisogno di esaltare la loro bellezza; sarebbe come fare un complimento a sé stessi e questo potrebbe apparire narcisistico.

Da sempre, nella nostra Isola, le relazioni più importanti che l’uomo ha instaurato con la natura sono state quelle stabilite con la pietra. Con questo elemento ha avuto un rapporto privilegiato. Certo, per i nostri più antichi antenati era fondamentale confrontarsi con tutti gli elementi presenti in natura. Si dovevano raccogliere i frutti e cacciare gli animali per garantire la propria sopravvivenza e quella dei propri discendenti. Si dovevano costruire, con i più diversi materiali disponibili, armi per la guerra e utensili per il lavoro quotidiano. Ma al di là delle attività legate alle esigenze immediate, ogni volta che l’uomo poteva fermarsi un momento e dedicare un po’ di tempo ad attività più alte la sua attenzione si è rivolta, prima di tutto, alla pietra.

Domus de Janas Noeddale – Ossi

Nella pietra ha scavato le sue prime abitazioni, le Domus de Janas. Spesso elaborando una primordiale architettura d’interni che dimostra la presenza di un senso estetico e una sensibilità artistica che va al di là di una pura e semplice attività manuale, volta al soddisfacimento di una esclusiva necessità abitativa.

Con la pietra ha innalzato betili, perdas fittas, simboli di fertilità e altari attorno a cui si raccoglievano i sacerdoti del culto ed il popolo, durante lo svolgimento delle cerimonie religiose.

Nel tempo, il rapporto tra l’uomo e la pietra si è evoluto fino a sfociare in realizzazioni uniche al mondo. Basti pensare alla maestosità della civiltà nuragica, tra i più importanti esempi di architettura megalitica dell’antichità. Al complesso scultoreo dei giganti di Mont’e Prama, ancora, per molti aspetti, avvolti nel mistero. Al sito archeologico di Monte d’Accoddi, una vera è propria ziqqurat del mediterraneo.

Perché mai i nostri antichi antenati dedicavano tempo ed energie a movimentare queste grosse pietre, conficcarle nel terreno, costruire torri merlate o altari religiosi quando, con quegli sforzi, avrebbero potuto porre in essere attività più proficue dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità immediate legate alla sopravvivenza quotidiana? Su questo non vi è, tra gli addetti ai lavori, accordo unanime. Certo è che tutto questo sforzo costruttivo deve avere, necessariamente, un significato che va oltre la pura e semplice materialità. Quando l’uomo impiega le sue energie in attività che apparentemente sono in contrasto con il soddisfacimento delle esigenze più immediate, significa che per lui il risultato di quelle attività ha un valore e un’importanza superiori allo sforzo compiuto per realizzarle.

In questa ottica, probabilmente, devono essere interpretati i monumenti megalitici che, ancora oggi, ci accompagnano come testimoni muti di un passato lontano. Quelle grosse pietre conficcate nel terreno non sono solo pietre, sono simboli che vanno oltre la materialità. Rappresentano l’insopprimibile necessità dell’uomo di non arrendersi di fronte alla morte. Di voler credere che ci sia qualcosa che va oltre. Quelle pietre rappresentano il ponte tra la vita è ciò che l’uomo ha sempre immaginato esserci dopo. Un legame che ci unisce ai nostri antenati che hanno già affrontato quel passaggio e con i quali si vuole mantenere una relazione simbolica. Queste realizzazioni sembrano avere dunque, come minimo comun denominatore, il soddisfacimento di un bisogno religioso: la necessità di realizzare un’unione tra il mondo reale e quello sovrannaturale.

Dopo i fasti della civiltà nuragica, il rapporto dei sardi con la pietra è proseguito in una maniera che potremmo definire più discreta. Nei secoli si sono costruiti i muretti a secco che ancora vediamo nelle nostre campagne. Testimoni silenziosi di dissidi che sfociavano talvolta in fatti di sangue.

Nel corso del tempo la pietra è stata usata, naturalmente, per costruire le abitazioni. Fino a pochi decenni fa quasi tutte le case dei nostri paesi venivano costruite in pietra, “contones”. Ognuno la sua: granito, nelle diverse varietà, in Gallura e Barbagia, trachite nel Barigadu, scisto a Tonara, Aritzo e Desulo, rocce calcaree a Orosei.

C’erano allora i “Maistos de muru”. Non erano semplici muratori, nella loro istintività, erano dei veri e propri artisti. Utilizzando un mucchio di pietre apparentemente informi riuscivano a costruire un muro che, nella sua naturalità, mostrava ambizioni di eleganza e grazia. Riuscivano a trovare il posto giusto per ogn’una di esse. Di ciascuna mettevano in evidenza la parte migliore, talché l’osservatore che esaminava il risultato finale aveva l’impressione che tutte quelle pietre fossero state scelte, scientemente una per una, già da prima dell’inizio del lavoro, per ottenere quel prodotto finito. La stessa creatività posseduta dai poeti improvvisatori con la differenza che, per questi ultimi, i materiali utilizzati non erano le pietre ma le parole.

Ancor prima di iniziare l’opera avevano chiaro in mente quello che sarebbe dovuto essere l’esito finale. Esaminavano mentalmente i dettagli, considerando gli spazi disponibili per lo sviluppo della struttura, l’andamento e le irregolarità del terreno su cui poggiare. Si procuravano quindi la sabbia e il cemento che, con l’aiuto del fido manovale, miscelavano manualmente nelle giuste proporzioni fino ad ottenere un composto omogeneo al quale, poi, aggiungevano l’acqua, per ottenere una malta che serviva a legare le pietre tra loro. Credo che la descrizione più bella di queste fasi sia quella fatta da Pablo Neruda nella poesia “Ode al muratore”.

Nel lavoro di questi uomini ho sempre visto un’analogia con l’opera dei grandi artisti. Non sembri blasfemo il paragone. Si narra che Michelangelo, quando sceglieva i blocchi di marmo per le sue opere, vedesse già in questi la figura che vi era contenuta, imprigionata al suo interno. Compito dello scultore era darle vita liberandola dalla materia in sovrappiù. Così per i Maistos de muru. Per loro la sequenza delle operazioni veniva, naturalmente, invertita rispetto al grande artista rinascimentale. In questo caso non si trattava di far emergere una figura dall’interno eliminando il materiale in eccesso, ma di comporre un oggetto finale, armonico ed elegante, a partire da poche materie prime, che al profano sembravano incompatibili tra loro ma che, nelle mani sapienti di questi artigiani si compenetravano in maniera mirabile.

Possiamo ancora ammirare queste realizzazioni nelle case in pietra dei nostri paesi, specie quelli del centro e nord Sardegna. Nei campidani la pietra scarseggiava e, quindi, si è sviluppata una tecnologia costruttiva alternativa che prevedeva l’utilizzo della terra, unita alla paglia e pochi altri elementi, per ottenere i mattoni in terra cruda, ladiri.

In tempi recenti i blocchetti in cemento, i laterizi e le strutture in cemento armato hanno quasi completamente soppiantato l’uso della pietra come elemento costruttivo. Ma ciò non ha fatto scomparire questa antica materia. Al contrario la ha nobilitata. Ora le finiture in granito di Gallura e marmo di Orosei fanno bella mostra nelle ville più esclusive, nelle residenze di città, nei palazzi, porti e aeroporti di tutto il mondo.

Costantino Nivola – Dea Madre Mediterranea – Presso spazio esterno del Consiglio Regionale della Sardegna – Cagliari

Come già detto, all’utilizzo della pietra per uso “civile” si è sempre affiancato, fin dall’antichità, anche un impiego artistico e religioso. Questi aspetti non sono slegati, anzi, al contrario, risultano intimamente connessi. É sintomatico, ad esempio, riflettere al fatto che il padre di Costantino Nivola era muratore e da lui Costantino apprese i primi rudimenti del mestiere. L’arte di Nivola prende avvio dalla pietra che egli imparò a conoscere e a manipolare fin da bambino, in maniera quasi istintiva. Successivamente, a contatto con alcuni tra i maggiori maestri dell’epoca, egli giunse a una maturazione artistica che lo portò ad acquisire consapevolezza delle proprie radici e a riproporre, in chiave moderna, le antiche “Madri” nuragiche.

Più di recente Pinuccio Sciola, con le sue pietre sonore, ha realizzato un’evoluzione fondamentale nella tradizione scultorea: La pietra da oggetto muto per eccellenza è diventata un oggetto parlante. Sciola, per la prima volta, ha dato voce alla pietra. L’ha fatta parlare, anzi cantare. Un’evoluzione tanto naturale quanto imprevedibile. Le sue pietre sonore si trovano oggi nelle più importanti città del mondo a testimoniare un rapporto tra l’uomo e la pietra che, in Sardegna, non si è mai interrotto.

La Sardegna ha un cuore di pietra. Qui l’età della pietra non è mai finita, è ancora viva e presente e riesce a dare frutti sempre nuovi.

Pinuccio Sciola – Scultura presso Parco di Monteclaro – Cagliari

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6 commenti

  1. Stupenda e appassionata rappresentazione del vero. Condivisibile in tutto da chi vive in questi ambienti.
    Complimenti.

  2. Augusta Moro

    Giorgio, non mi basta un ristretto commento per esprimerti semplici congratulazioni, preferisco chiamarti per commentare concetti fondamentali della nostra cultura.

  3. Complimenti per l’articolo Giorgio Piras, mi sono identificata pienamente con la tua analisi e sento le stesse emozioni di fronte a sculture e monumenti: dai più moderni, ricchi ed imponenti ai più piccoli e antichi, ma maestosi se pensiamo all’epoca in cui sono stati costruiti. Adoro ancora cercare piccole pietre con forme particolari come quando ero piccola 💖. Un caro saluto, Sara.

  4. Bruno Curreli

    Ciao Giorgio
    Complimenti per il bellissimo articolo, conoscevo di tantissime doti, questa di scrittore mi giunge nuova ma non inaspettata. Un abbraccio
    BRUNELLO

  5. Elena Eugenia

    Bravissimo Giorgio!! Animo sensibile e studioso attento. Fai onore al nostro piccolo villaggio. Complimenti per l ‘ esauriente articolo che ho letto con piacere ed interesse.

    • Complimenti, Giorgio,per la tua ricca e articolata narrazione sulla presenza e le funzioni della pietra in Sardegna!Hai toccato un po’ tutti gli aspetti:naturale, scientifico, artistico,estetico,storico identitario ed emotivo. In un breve saggio giornalistico non potevi fare di più. Bravo, Giorgio! Ad meliora!

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