FARI E FORTI DE LA MADDALENA: VIAGGIO NELLE PUBBLICAZIONI DI BARBARA CALANCA

di FRANCESCA BIANCHI

Barbara Calanca, guida naturalistica e subacquea, nonché fotografa professionista, anche nel settore subacqueo. Nel corso della sua carriera ha partecipato a numerose campagne oceanografiche per lo studio delle aree marine protette della Sardegna. Dopo aver parlato della peculiarità dell’area geomarina protetta del Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena, Barbara Calanca si è soffermata su alcuni dei suoi libri: Il Mare nella Tradizione Maddalenina (Ed. Rossi, 1996), in cui spiega il ruolo esercitato dal mare nella storia e nella tradizione de La Maddalena; Fari di Sardegna, (Paolo Sorba Editore, 2006), una guida alla scoperta della Sardegna attraverso la storia dei fari; Il cammino delle fortificazioni. La Piazzaforte di La Maddalena (Carlo Delfino Editore, 2019), un viaggio alla scoperta delle fortezze militari poste a difesa dello Stretto di Bonifacio.

Sig.ra Calanca, oltre quarant’anni fa ha scelto di lasciare Roma per stabilirsi a La Maddalena. Cosa l’ha indotta a prendere questa decisione? Quando è nato il suo amore per l’Arcipelago di La Maddalena? Quarant’anni fa ero addetto stampa nella Segreteria Nazionale UIL a Roma. Ero appena uscita dal liceo e mi ero trovata catapultata nella stanza dei bottoni della politica della Prima Repubblica. La UIL era diretta da Giorgio Benvenuto e il Paese era in mano a Bettino Craxi, entrambi socialisti. Allestimmo il Congresso nazionale del sindacato a Bologna e in quell’occasione conobbi un fotografo maddalenino che mi decantò le bellezze del luogo. L’estate venni a conoscere di persona questo incantevole paesaggio e l’anno dopo, il 1979, decisi di trasferirmi in seguito a un “colpo di fulmine” per l’arcipelago e per un suo abitante che divenne mio marito per venticinque anni.

A quando risale il suo primo viaggio nell’isola? Che ricordo conserva di quella visita? Il primo viaggio risale al 1978, anno in cui conobbi sull’isola mio marito, un amante della vela e del mare in tutte le sue sfaccettature e stagioni. L’arcipelago era la cornice ideale con la sua natura selvaggia e il suo paesaggio incontaminato.
Lei è una guida naturalistica e subacquea, nonché fotografa professionista, anche nel settore subacqueo. Nel corso della sua carriera ha partecipato a numerose campagne oceanografiche per lo studio delle aree marine protette della Sardegna. Qual è la peculiarità dell’area geomarina protetta rappresentata dal Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena? Situato nello Stretto di Bonifacio, tra la Sardegna e la Corsica, il parco geomarino conta sette isole principali e cinquantacinque isolotti con una superficie di circa 50 chilometri quadrati e uno sviluppo costiero di 180 chilometri. Le isole dell’arcipelago, insieme a quelle della Corsica (Lavezzi e Cavallo), rappresentano una continuità territoriale tra le due Regioni (la Corsica francese e la Sardegna italiana), e la maggior parte è di natura granitica. In misura minore sono presenti anche altri tipi di roccia come gneiss e scisti, in particolare nelle isole Bisce, Pecora, Piana, Santa Maria e Punta Rossa a Caprera. Gli aspetti morfologici attuali sono il risultato di un processo che ha avuto inizio nel paleozoico, alimentato dalle costanti erosioni dovute ad azioni chimico-fisiche. Le rocce hanno assunto forme bizzarre e sono diventate famose come “La Strega e il Bulldog” nell’isola di Spargi. Le spiagge sono spesso piccole e incastonate tra le rocce, formate da una notevole componente biologica derivante dai fondali antistanti, come la Spiaggia Rosa di Budelli, protetta da un decreto ministeriale del 1992.
Ha pubblicato diversi libri. Il primo, intitolato Il Mare nella Tradizione Maddalenina (Ed. Rossi), risale al 1996. Quale ruolo ha giocato il mare nella storia e nella tradizione de La Maddalena? “Il mare nella tradizione maddalenina” mi fu commissionato dal Comune di La Maddalena. Essenzialmente quel volume parla delle tradizioni legate alla pesca e delle specie ittiche che popolano questo mare con i loro nomi nel dialetto locale e l’impiego nella cucina. È chiaro che gli abitanti dell’arcipelago sono stati forgiati dalla presenza del mare, soprattutto dalle attività legate alla Marina Militare: i primi insediamenti stabili derivano proprio dall’occupazione piemontese del 1767. Da lì si formò una comunità in cui il lavoro principale era legato alla presenza della Piazzaforte della Marina dopo l’Unità d’Italia.

Per l’editore Paolo Sorba nel 2006 ha pubblicato Fari di Sardegna, una guida alla scoperta della Sardegna attraverso la storia dei fari. A quali fonti ha attinto per la stesura di questo lavoro? Questo libro è stato reso possibile grazie all’appoggio dello Stato Maggiore della Marina Militare e al contributo e alle disponibilità offerti dal Comando Zona Fari della Sardegna, con sede a La Maddalena. La fonte principale è stata quindi l’Archivio storico di Marifari, da cui ho tratto documenti, planimetrie originali e prospetti degli edifici. Poi ci sono state le interviste ai faristi e ai loro familiari e la raccolta di documenti messami a disposizione da Italia Nostra.

Qual è stato il primo faro ad essere costruito sulla costa sarda? Quali vicende hanno segnato la sua storia? Il primo faro costruito sulla costa sarda fu quello di Razzoli nel 1843, che durante la Seconda Guerra Mondiale fu presidio della Marina Militare Italiana. Dai documenti della Regia Marina del 1938 risulta che al faro era assegnata una coppia di asinelli adibiti al trasporto di materiali; uno di sesso maschile e colore grigio, chiamato Menelik, l’altra di nome Martina. Nel 1969 l’edificio fu dichiarato inagibile a causa di gravi lesioni nei muri perimetrali e fu abbandonato definitivamente nel 1974, sostituito da una torre alimentata da pannelli solari e situata a nord del vecchio faro. La sua portata è di 19 miglia, con il settore rosso che indica il pericolo di Lavezzi già da 15 miglia. Attualmente il vecchio edificio è stato dato in concessione ad una società per fini imprenditoriali.

Nel libro parla anche del faro di Capo Testa, a Santa Teresa di Gallura, importante per la sua posizione su un passaggio difficile come le Bocche di Bonifacio. In particolare, riporta l’episodio più importante del suo passato, avvenuto nel 1855. Cosa accadde in quell’occasione? Quale legame c’è tra Capo Testa, Capo Pertusato e Lavezzi? Il faro di Capo Testa fu costruito nel 1845 ed ha una storia importante da raccontare. Dieci anni dopo la sua costruzione fu testimone della più grande tragedia del Mediterraneo dell’Ottocento: il naufragio della Sémillante. Era il 15 febbraio 1855 quando il vascello a tre alberi della Marina Imperiale francese, partito il giorno prima da Tolone e diretto in Crimea con 750 uomini a bordo, si schiantò sull’isola di Lavezzi durante una tempesta di sud ovest nelle Bocche di Bonifacio. Il guardiano del faro di Capo Testa dichiarò che il 15 febbraio, verso le ore 11 del mattino, una fregata di cui non comprendeva la manovra, cosa che gli fece presupporre avesse difficoltà al timone, avanzava a secco di vele e tentava di risalire le Bocche sparendo all’orizzonte. Il mare era così forte che i vetri del faro erano ricoperti da una spessa coltre di sale. Nello stesso momento a Bonifacio, sulla rocca dominata dal faro di Capo Pertusato, costruito un anno prima di quello di Capo Testa, gli abitanti della cittadina còrsa improvvisavano una processione cantando le litanie dei santi per placare l’ira degli elementi. Anche loro videro la Sémillante mentre combatteva la sua ultima battaglia contro il vento e il mare, un’ora dopo che il farista di Capo Testa aveva individuato la fregata e qualche istante prima che si schiantasse definitivamente sugli scogli di Lavezzi. Dei 750 uomini a bordo il mare ne restituì solo 592. Furono sepolti insieme al loro comandante, Gabriel Jugan, nei due piccoli cimiteri sulle spiagge dell’Acciarino e di Furcone, vicino ai luoghi dove erano stati ritrovati. Gli altri sparirono per sempre tra i flutti.

Una delle figure più affascinanti e suggestive è sicuramente quella del guardiano del faro. Lei avrà senz’altro avuto modo di incontrare qualche farista e ascoltarne la storia e il racconto della vita vissuta all’interno di un faro. Come si svolge la giornata tipo di un farista? Quali compiti deve svolgere? La vita dei guardiani dei fari, fino a qualche decennio fa, non era per niente così idilliaca o romantica come la letteratura o la cinematografia ci ha voluto far credere. Le famiglie, spesso numerose, vivevano a stretto contatto tra loro, senza privacy né luce elettrica, isolate dal resto del mondo. Era una vita dura per tutti: adulti e bambini. Questi ultimi crescevano selvatici, avevano paura degli estranei e, come i loro genitori, ignoravano quello che esisteva al di là di quel povero microcosmo. Negli anni dal 1956 al 1961 furono istituite le scuole per i figli dei faristi: i maestri si recavano al faro e illuminavano la mente dei bambini e quella dei loro genitori.
In Sardegna quanti faristi sono rimasti? Soltanto sei fari sono ancora abitati. Attraverso un sistema computerizzato, ciascun faro della Sardegna è collegato con il centro del Comando sito a La Maddalena. Qui viene evidenziata ogni anomalia o avaria e reso possibile l’intervento di riparazione.

Il suo ultimo libro, intitolato Il cammino delle fortificazioni. La Piazzaforte di La Maddalena, è stato pubblicato nel 2019 dall’editore Carlo Delfino. Si tratta di un viaggio alla scoperta delle fortezze militari poste a difesa dello Stretto di Bonifacio. Quando e con quali finalità è nata la Piazzaforte? Dopo l’occupazione piemontese del 1767 nascono i primi forti sull’isola di Santo Stefano e a La Maddalena a difesa dei canali di navigazione e in funzione del pericolo francese: la vicina Corsica aveva appena cambiato nazionalità. Nel 1793, infatti, un allora sconosciuto Napoleone Bonaparte tentò di bombardare La Maddalena cannoneggiandola dalla torre di Santo Stefano, che aveva appena occupato. Fu respinto e i cimeli di quei fatti d’armi sono conservati in una mostra permanente ospitata nel Palazzo comunale, dove si ricostruisce la storia di quei giorni. La piazzaforte vera e propria nasce dopo l’Unità d’Italia, nel 1861, quando in varie Commissioni Difesa del neonato Regno Italiano si decide che l’arcipelago di La Maddalena poteva costituire una valida base navale per la Regia Marina. Così, dal 1886 l’arcipelago si trasformò in un grande cantiere e arrivarono maestranze da tutta Italia con le loro famiglie. Iniziò un periodo d’oro per La Maddalena: la popolazione passò dai 1.895 abitanti del 1881 agli 8.361 del 1901. Tutto l’arcipelago fu difeso da potenti fortificazioni, posti di vedetta, casermaggi, depositi, munizioni. Si delinea l’assetto definitivo del Paese e della sua cultura.

Quali sono le principali caratteristiche delle fortificazioni maddalenine? Il concetto principale da tenere a mente quando si visitano le fortificazioni sparse per l’Arcipelago è che si tratta di un unico sistema difensivo legato alla storia e alla cultura europea di oltre due secoli, dalla fine del 1700. La piazzaforte è stata unica in Sardegna, aggiungendosi alle altre basi navali di Genova, Savona, La Spezia, Venezia, Messina, Gaeta, Reggio Calabria, Taranto. Le opere sono state costruite in tre periodi storici differenti e anche dal punto di vista architettonico ci sono diversi elementi che ne caratterizzano gli stili. Il profilo basso, le mura robuste, le rondelle (primitive forme di baluardo ali angoli, es. forte Carlo Felice) sono presenti nei forti costruiti subito dopo l’occupazione piemontese del 1767. Dal 1887 si è affermato, invece, il concetto di difesa a campi trincerati, che ha prodotto la costruzione di grandi forti staccati con l’introduzione dell’uso del cemento. Infine, le batterie costiere nate dopo la Prima Guerra Mondiale sono caratterizzate dalla capacità di mascherare le opere nel rilievo del paesaggio. L’elemento protagonista rimane il granito, risorsa facile da reperire in loco.
Quali forti sono stati recuperati e riconvertiti? In che maniera è stato possibile fare ciò? I forti recuperati finora sono Arbuticci, a Caprera, che ospita il Memoriale Garibaldi, il comprensorio di Stagnali, che è diventato il Centro di Educazione Ambientale del Parco, l’Opera Colmi, trasformata in Teatro, Monte Altura, a Palau, restaurato e messo a disposizione dei visitatori. Tutti progetti resi possibili grazie a finanziamenti pubblici ed europei.

Quando e come è nato il suo interesse per i forti militari? Come per i fari, anche i forti esercitano su di me un grande fascino. È stato interessante studiarne l’evoluzione, individuare le parti celate, trovare gli accessi agli impianti sotterranei, esplorare e “riportare alla luce”, anche in senso metaforico, le loro peculiarità. Inoltre, non ho mai visto le fortificazioni come qualcosa di avulso dal contesto storico e architettonico mondiale. Interessante, perciò, per me capire cosa accadeva nello stesso momento dall’altra parte del mondo o in un altro paese europeo.

Quanto ai forti galluresi, dove sono dislocati i forti più importanti? Quali peculiarità hanno? I forti sulla costa gallurese, di fronte l’arcipelago, sono nati in funzione della base militare navale presente a La Maddalena, per cui sono stati costruiti a partire dalla fine del 1800. Sono: Monte Altura e Capo d’Orso, a Palau, e il forte Cappellini, a Baia Sardinia. Dopo la Prima Guerra Mondiale nascono le batterie costiere di Punta Falcone e Capo Testa (la batteria Garassini, la Ferrero, la De Caroli) e la batteria di Punta Battistoni. Quelle di fine Ottocento sono grandi fortezze poste in posizione elevata, le altre sono batterie costiere mimetizzate tra i graniti e la vegetazione.

Lei ha fatto tante escursioni ai forti. Ce n’è uno che l’ha colpita particolarmente? La maggior parte delle fortezze militari oggi in quali condizioni si presenta? Quali misure si possono attuare per tutelare e valorizzare questi monumenti? Tra le fortificazioni che più amo ci sono senz’altro le batterie dei primi del Novecento. Tra queste, la batteria Ferrero a Punta Falcone, nel comune di Santa Teresa di Gallura, Candeo e Messa del Cervo nell’isola di Caprera e la batteria Rubin Cervin a Spargi. Mi affascina trovare ancora le scritte della Seconda Guerra Mondiale, pensare che lì dentro qualcuno, solo e impaurito, abbia scritto il suo nome e la data perché ci si ricordasse di lui. Purtroppo molti forti sono in stato fatiscente: le mura stanno crollando, i vandali fanno il resto. Il recupero di questo patrimonio ovviamente comporta spese enormi, per cui è impossibile pensare che un comune possa farsene carico. Alcuni, però, si prestano a diventare luoghi ricettivi; basti pensare alle dimore storiche o ai castelli portoghesi, sempre pieni di prenotazioni; altri possono essi stessi essere museo e ospitare mostre: il forte Sant’Andrea, nel centro storico, si presterebbe a tale finalità.
Nel libro non si sofferma solo sull’importanza storico-militare di queste fortificazioni. Quali potenzialità possono offrire in senso architettonico, paesaggistico, antropologico? Le potenzialità sono molte, ma solo se saranno recuperate in termini di sicurezza e inserite negli itinerari guidati; così come sono ora, a parte i forti restaurati e adibiti a museo, gli altri sono in balìa degli elementi naturali e dei vandali.
Quale messaggio spera possa arrivare ai lettori dei suoi libri? Immagino che i lettori dei miei libri siano persone già sensibili ai temi trattati, che siano amanti del turismo lento, della ricerca delle tracce della storia e della scoperta e della comprensione dei luoghi. Perciò spero solo di essere riuscita a dare loro notizie esplicative su ciò che stanno vedendo.

Quale futuro si augura per La Maddalena? Mi auguro che nel futuro l’isola non basi più la sua economia solo sul turismo. Penso sia una scelta fallimentare che può portare profitto a qualche titolare di attività ad esso collegate, ma non ai dipendenti che, salvo qualche eccezione, come ormai ampiamente risaputo, sono stagionali, precari, sottopagati; sono, in poche parole, messi nelle condizioni di non poter programmare un futuro: costruirsi una famiglia, accedere ad un mutuo per acquistare casa, ecc. Auspico, perciò, che la politica si faccia promotrice di posti di lavoro a tempo indeterminato, lottando, per esempio, per la riapertura dell’Arsenale come struttura civile per rimessaggio imbarcazioni di ogni stazza, promuovendo investimenti per la nascita di centri di talassoterapia, come ad Ischia, che lavorino tutto l’anno, invogliando pensionati del Nord Europa a svernare a La Maddalena, attirandoli con attività sportive, escursioni, vita sana all’aria aperta. La monoeconomia è un suicidio, come ampiamente decritto nel saggio  ”Il selfie del mondo” di Marco d’Eramo (Feltrinelli, 2022): “Del moderno, della civiltà capitalistica industrializzata, il turismo è solo lo specchio magnificante che fa risaltare, tra l’altro, il processo di autodistruzione del centro urbano… L’urbanicidio da monocultura, da monofunzionalità, dove ogni altra attività viene espulsa dalla città e la città diventa integralmente, totalmente turistica. Detroit è morta mentre Chicago è sopravvissuta, perché l’una era la Motor Town mono-occupazionale, mono-funzionale e dipendeva da una sola industria, quella della General Motors, mentre Chicago si basava su attività differenziate, agricoltura, svariate industrie, finanza, cultura, centri di ricerca, ecc. Ogni città che dipende da una sola industria (che sia turismo o altro) è destinata a morire presto. Già oggi Venezia è una città morta: basta camminare tra le case una notte di novembre senza nemmeno una finestra illuminata. Come a Detroit l’industria automobilistica ha lasciato, andandosene, edifici sventrati, finestre in frantumi, voragini stradali e casette unifamiliari bruciate, così nelle città turistiche, quando il vento sarà cambiato e le orde seguiranno il pifferaio di Hamelin, le uniche tracce saranno bottiglie rotte, cartacce, lattine e rifiuti come quelli che la risacca deposita sul litorale”.

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