IL MUTO DI GALLURA: LO STRAORDINARIO ROMANZO DI ENRICO COSTA, PORTATO SUGLI SCHERMI DA MATTEO FRESI

di SERGIO PORTAS

Se si ha la possibilità di viaggiare attraverso la Sardegna in primavera o anche in autunno inoltrato capita di essere presi da un senso di incantamento, tanto la natura la fa da padrona sontuosa, campi verdissimi a trapunta di fiori dai colori vivaci, mimose che spargono intorno il loro giallo dorato, muovendosi a ogni soffio di vento, graniti sontuosi che spezzano l’orizzonte impigliando nei picchi stracci di nuvole quasi mai minacciose, prefigurando il mare al di là delle barriere che formano. Immaginate cosa doveva essere la Gallura intorno alla metà dell’ottocento. In tutta l’isola erano allora poco più che mezzo milione di anime ( 27.000 sapevano anche leggere e scrivere), al solito per lo più stipate, si fa per dire, nelle città principali. Enrico Costa, poliedrico uomo di cultura sassarese che nacque in quel periodo ( 1841), nel suo romanzo: “Il muto di Gallura” (pubblicato nel 1884) scrive: “…Nella Gallura, oltre la città di Tempio, sono cinque villaggi principali: Aggius, Bortigiadas, Luras, Calangianus, S.Teresa. La maggior parte però della popolazione è sparsa per l’estesa campagna, in gruppi di due, tre, o quattro case cui si da il nome di “stazzo”- specie di ovile isolato, dove vive un’intera famiglia di pastori. Gli stazzi sono aggruppati fra loro sotto il nome di “cussorgie”; le cussorgie sono in gran parte riunite in “Cappellanie”, o parrocchie rurali ausiliarie, istituite dal Conte Bogino sotto il regno di Carlo Emanuele III, verso il 1759.  Secondo l’Angius le cussorgie della Gallura sono 188; le quali comprendono 1578 stazzi…Aggius nell’ultimo censimento del 1881, contava 2420 abitanti; di cui solo 500 in paese, e 1920 sparsi nei suoi 459 stazzi…è addossato ad una strana catena di montagne che sembrano create per difenderlo…Quei monti hanno forme bizzarre, e ti fanno pensare al famoso Resegone di Lecco, immortalato dal Manzoni”. Ebbene il torinese Matteo Fresi (babbo gallurese e anche lui ha un trascorso di una gioventù spesa come istruttore nella scuola di vela della Maddalena) ispirato al romanzo del Costa, ha girato per un’estensione di venti-trenta chilometri di Aggius, uno straordinario film in lingua gallurese, con sottotitoli in italiano, usando a mò di sfondo una Gallura odierna, resa ancora più deserta di uomini a motivo del covid imperante. La troupe composta da circa 80 elementi, a parte qualche incidente di percorso costituito dal solito positivo asintomatico, ha potuto agire in una sorta di bolla atemporale, una “cussorgia” dei nostri tempi che, anche in grazia del forzato isolamento, ne ha cementato la coesione, cosa che ha dato al film una patina di “veridicità” tutta particolare. Nella scena in cui è tutta una comunità rurale che, vestita coi colori della festa, si muove verso lo stazzo in cui è una sposa promessa che si deve chiedere oggi nella cerimonia dell’ ”abbraccio”, parte a piedi e parte a cavallo, sembra veramente di vedere venire avanti la Sardegna tutta. Il sassarese Marco Bullitta qui è Pietro Vasa, il maturo innamorato della giovane Mariangiola ( Noemi Medas), padre della sposa ( mancata) è il nuorese Giovanni Carroni a interpretare Antonio Mamia, capo della famiglia che si dilanierà coi Vasa sino a contare più di settanta morti ammazzati in un periodo di soli cinque anni. Il cast quindi, a parte il prete, il comandante dei carabinieri, il delegato di polizia, è tutto sardo, da Fiorenzo Mattu a Syama Rayner che sarà anche nata in India ma è venuta su grande a Olbia, è qui fa Gavina, troppo bella perché di lei non si innamori il protagonista del film, il muto, Bastiano Tansu, Andrea Arcangeli scelto scientemente, dice il regista, perché immerso in una comunità di parlanti assolutamente sconosciuta, ne venga rimarcata l’ estraneità dai cosiddetti “normali”, quelli che in grazia del dono della parola ( il muto nasce senza il senso dell’udito) possono fare una dichiarazione d’amore all’innamorata, recitare una poesia, cantare in una festa. Il muto è un diverso che viene emarginato dai coetanei, immerso in un mondo ovattato in cui osserva marionette che aprono la bocca rivolgendosi l’un l’altro, con esiti i più disparati, dal pianto al riso più sfrenato. E’ bravo con le mani Bastiano, sa fare intagli col coltello e poi ha una mira infallibile, cosa che in una società di maschi cacciatori, è apprezzata per quello che vale. E quando scoppia una faida tra famiglie, vale ancora di più. I fucili sono quelli che tocca caricare a palla, dalla canna lunga, il calcio istoriato, i costumi ricordano vagamente quelli di un Messico d’antan, corpetti con alamari dorati, cappelli a larghe tese (ma, dice Fresi, tutti regolarmente d’epoca, ci si vestiva così, tra la gente che non fosse povera, i più), cosa che ha fatto scrivere a molti di essere dinanzi a una sorta di “western sardo”, anche in grazia della scelta del sonoro che in parte richiama temi dei film di Sergio Leone. Ma il tono del film è di tutt’altro tenore, la faida, la vendetta che scandisce le scelte dei protagonisti, rimanda più a una tragedia greca, dove il fato, le rigidissime regole che reggono in piedi i rapporti tra le persone, le famiglie, i parenti più o meno stretti, tutte confluiscono a configurare una serie di comportamenti obbligati, da cui è impossibile uscire, pena l’esclusione della società che ti circonda. E l’infallibile muto, cecchino capace di colpire da molto lontano, diviene improvvisamente protagonista, da reietto che era, tanto che anche quando non è comprovata la sua presenza in un fatto di sangue, a lui viene ascritto ogni nefandezza, persino l’uccisione del figlio quattordicenne del Mamia. Cui seguirà l’altrettanto orribile uccisione di una donna: l’amata madre del Vasa. E quando sono fanciulli e donne a morire di fucile, da una parte e dall’altra, chi volete che tenti di “mettere pace”, non c’è prete sulla terra che possa neanche tentare, non c’è “ragionante” o “paciere” che tenga, e noi lo vediamo tristemente nei nostri televisori in questi orrendi tempi in cui “pietà l’è morta” e i vecchi, le donne, i fanciulli sono costretti a fuggirsene, a milioni, che le loro case sono bombardate, distrutte. I padri e mariti costretti al fronte, a cercare vendetta. Fosse comuni ripiene di poveri corpi con le mani legate e un foro di pallottola dietro la nuca. Splendida è la Gallura degli agguati, foreste di lecci e sugheri tanto intricate da velare la luce del sole, il mare per nulla presente, solo alla fine del film ci si ricorda che le luci di Bonifacio, la Corsica, sono quelle che si confondono con le stelle, sono lì, a un tiro di schioppo. Una specie di terra promessa e diversa, che si potrebbe facilmente raggiungere, se solo si volesse. Ma le leggi della faida e dell’onore sono ben più stringenti fin anche del desiderio di pensare a una possibilità di vita diversa e migliore. Eppure, come tutte le cose degli umani, anche il doversi ammazzare l’un l’altro, ha infine una fine e la parola dei “pacieri”, della chiesa, ottiene l’effetto desiderato, ci si bacerà sulle guance in segno di pace. I fucili ben oliati rimessi nelle cassapanche. Ognuno piangerà i suoi morti. Cosicché si aprirà una parentesi in cui uomini e donne torneranno ad innamorarsi e a fare discorsi di futuro, toccherà anche a Bastiano parte di questo destino, addirittura ricambiato nel film di Fresi, meno nel libro di Costa. Con la sua Gavina scambierà qualcosa di più di un bacio. Del resto è un bellissimo giovane, dallo sguardo intenso, ha di che far innamorare  una giovane ragazza, sedicenne nel libro di Costa. Ma lui è anche il muto terribile che si è macchiato di un incerto numero di assassini, ricercato dai soldati del re, che lo vorrebbero impiccato a una forca. Come può solo pensare che un padre gli possa consegnare una figlia adolescente perché ne faccia la sua sposa. Nella Sardegna del 1850. A un sordomuto, oramai per tutti “figlio del diavolo”. Vaga per i monti e le foreste di Gallura Bastiano, diventato preda anche dei parenti dell’innamorata sua, tutti lo vogliono morto ora che la sua abilità nell’uccidere non ha più il valore di prima, anzi viene esecrata per quella che è: un’arte demoniaca che spinge ai confini dell’umano, per cui si viene emarginati, con cui la “gente normale” non vuole avere nulla a che fare. Nel libro del Costa il muto scompare letteralmente dalla scena, ucciso e sepolto in qualche forra? Scappato in Corsica dove si parla un dialetto molto simile al gallurese, che comunque lui non può sentire? La sua figura sfuma nelle storie che si raccontano ai bimbi la sera, davanti al caminetto acceso, mentre fuori il vento fra le canne cerca invano di farle suonare a launeddas. Il regista Matteo Fresi è presente a Milano, il primo di aprile scorso, all’Anteo pieno di gente, con lui alcuni dei suoi attori; Marco Bullitta, Fiorenzo Mattu, Micaela Deiana. A fine proiezione un applauso che pareva non finire più. La scommessa difficile di far parlare gli interpreti in gallurese, e gli attori presenti sono tutti concordi nel dire che non è stato per nulla facile, è stata ampiamente vinta. La storia si dipana in modo quasi lirico, a sfondo una Sardegna che sfoggia tutte le sue meraviglie, resuscitata da Fresi con un tocco di magia incosciente ( è al suo primo lungometraggio), da un sonno che l’aveva fatta cadere addormentata nella metà dell’ottocento e che si è svegliata coi vestiti di allora, con la gente di allora, che si prendeva a fucilate per una mancata promessa di matrimonio. Il cecchino più infallibile di tutti: lui, il muto di Gallura.

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