PERDA MARIBENTU: A MILANO, LA FOLGORAZIONE PER L’ARTE DI STEFANO SUDDU E L’AMORE PER LA SUA GABRIELLA

Stefano Soddu

di SERGIO PORTAS

A Stefano Soddu l’hanno salvato l’amore della sua vita, Gabriella (nata Brembati), e la folgorazione per l’arte. Diversamente sarebbe venuto su come i figli della buona borghesia milanese, studi poco amati e frequentati, anche se di grande qualità, un posto da dirigente che nel suo ambiente non si nega a nessuno, una vita piena di cose e di macchine nuove, sempre perseguitati da una sensazione di disagio esistenziale, che sembra potersi sotterrare con un salto a Parigi o in costa Azzurra. E invece…intanto mi tocca giustificarmi del coraggio con cui vado a far affermazioni così apodittiche su di una persona che in realtà conosco a malapena, benché essendo lui un artista molto prolifico, sono parecchie le occasioni che ci hanno fatto incontrare, qui a Milano dove la moglie Gabriella dirige una galleria d’arte, dal 1998: la “Scoglio di Quarto”, sulle rive del naviglio pavese, forse il posto più alla page per quella folla di ragazzi umidi di birra che vanno vagando di notte, immemori di mascherine, a formare quella che i giornali e le televisioni chiamano universalmente “movida”. E’ che a Stefano, oltre che a usare le mani per assemblare materiali i più svariati che lui sa mutare in sculture, e di cui sono pieni musei di mezzo mondo, quel mondo che ha girato in lungo e in largo facendo mostra di questi suoi lavori, piace anche metter per iscritto i suoi pensieri, ed è qui che si mette a nudo (o quasi) insomma è qui che lascia tracce di sé più leggibili, per noi comuni mortali, che critici d’arte non siamo. Con lui faccio inesorabilmente una sorta di gioco di specchi, nato com’è venti giorni dopo che io ero già venuto al mondo, il 9 ottobre 1946 a Cagliari, “nel nostro appartamento del palazzo Valdes” scrive lui, granito e pietra calcare nel basamento e terracotta per gli ornamenti nella parte che si affaccia nel viale Regina Elena. Babbo laureato in chimica, è nei suoi laboratori che il piccolo Stefano stupirà primariamente delle possibilità alchemiche che hanno gli elementi di trasmutarsi l’uno con l’altro mutando di stato e di colore. E ne rimarrà folgorato per la vita. E’ il mediano di due fratelli, Celestino e Carlo Alberto, e per continuare il gioco delle nostre “vite parallele”, è intorno ai tre anni d’età che esse si sono incrociate, galeotta la spiaggia del Poetto, i miei ricordi sono anche i suoi: “ci si andava col tram, di quelli con veranda aperta sul retro ed era quella la zona privilegiata per il viaggio…il rito della preparazione era sempre lo stesso, la borsa contenete i cibi, con il pane i pomodori e l’origano. Pantaloncini e maglietta e giù a piedi per il viale Regina Margherita verso il porto dove c’era la fermata del tram”. Il mare si annunciava con un sapore di salmastro che riempiva l’aria a chilometri di distanza, calmo il più delle volte, una spiaggia di rena bianca che non avrei più rivisto se non a Varadero di Cuba, che andava inesorabilmente a scaldarsi sino a diventare impraticabile e ustionante se si osava affrontarla a piedi nudi. Perché la felicità fosse perfetta, un secchiello di plastica e una paletta, magari un salvagente a forma d’oca. Poi ti portano via dalla Sardegna e uno capisce che la vita bisogna sapersela sfangare, io vengo in Continente a cinque anni, Stefano riesce a fare le elementari a Cagliari ma a dieci anni è anche lui a Milano, tornerà in capitale a farsi un paio d’anni di medie, ma poi è tutta una carriera scolastica svogliata è quella che gli tocca, finisce fin in collegio, sino a che, a diciannove anni l’incontro fatale con Gabriella, per lei prima la maturità classica al “Beccaria”, poi la laurea in Giurisprudenza alla Statale. Matrimonio a 26 anni, padre l’anno dopo di un Filippo che sembra voler seguire le orme paterne (espone e scrive poesie), un bel ventennio a far carriera manageriale per industrie multinazionali, ballando il tango del conflitto sociale sfociato con la conquista operaia dello Statuto dei lavoratori, pensate che in un suo articolo, il diciotto, era sin previsto che non si potesse licenziare nessuno senza un giustificato motivo, orrore che Matteo Renzi si è affrettato a cancellare durante il suo mandato di governo. E che il “popolo” (quello che i licenziamenti senza motivo li subisce) ha ingoiato senza obiettare alcunché, negli anni settanta davanti a tanto scempio ci sarebbe stato uno sciopero generale spontaneo di durata indefinita. Mi piace pensare che anche per questo Soddu, buttato alle spalle una lucrosa carriera in giacca e cravatta, cede alla passione di sempre sin qui conculcata e si mette a fare sculture a gogò. Siamo oramai nel ’95, tre anni dopo nascerà “Scoglio di Quarto” che è comunque opera essenziale di Gabriella, un vulcano di idee per le quali non c’è mai tempo abbastanza perché tutte trovino una loro realizzazione. Nel maggio di quest’anno di chiusura obbligata si è inventata una sorta di collana: “Segni e Parole” in cui l’opera inedita di un artista figurativo (11 “plaquettes”, opuscoli) viene presentata in tandem con quella di un poeta, di uno scrittore: che so: “Immaginando aquiloni, tecnica mista di Angela Occhipinti, poesia di Alberto Barranco di Valdivieso”. Mi dice Gabriella: “A galleria chiusa per pandemia l’ho fatto più per me che per gli artisti, che loro sanno trovare altri spazi per sopravvivere”. Quel Valdivieso di prima è presente in galleria per contribuire alla presentazione dell’ultima fatica letteraria di Stefano: “Perdamaribentu” (ediz.Scoglio di Quarto) di cui lui scrive l’introduzione, un libro di ridotte dimensioni ma di grandi pregi estetici e di scrittura, pieno com’è di foto in bianco e nero di Giacomo Nuzzo, anche egli qui presente, ragazzo del ’47, il suo impegno fotografico ha doppiato il mezzo secolo, e le sue foto hanno seguito anzi preceduto il destino fatato delle  opere di Soddu, esposte in mezza Europa e negli USA, e poi i libri di fotografie e gli scrittori che scrivono di questi libri. Valdivieso ne traccia genesi e dimensioni dicendolo “pieno di sentimento, ricco di elementi, una sorta di diario minimo di viaggio, scandito da racconti di vita vissuta, segnato da una ricerca artistica che si rifà alla “land art”, in cui gli elementi che la natura offre spontaneamente prendono un significato diverso da come sono variamente assemblati dall’artista”.

E, a suo dire, “la capacità estemporanea di Soddu è quella che gli riesce meglio proprio quando lui non progetta, non pensa prima l’opera che va formandosi dalle sue mani”. Vale la pena di leggere l’introduzione al libro che lui titola “Piccoli frammenti sentimentali”: “…sussiste, tra memoria e sogno, la stessa ambigua identità di genere perché permane un forte legame tra realtà oggettiva del vissuto e significato soggettivo dell’esperienza. L’assimilazione del ricordo costruisce la storia della nostra intima “mitologia” e sarà questa storia che vorremo condividere perché nessuno di noi alla fine desidera essere lasciato da solo nel cammino della memoria. Dunque siamo tutti autori di un sogno cosciente, che rimpasta i fatti della nostra vita vissuta collegandoli a filo stretto con i sentimenti che ci provocano…(pag.7). Insomma Stefano Soddu ritorna nella sua, mia Sardegna (era il 2019 ante covid) insieme a Gabriella e la sua amica Alessandra, brava artista e pittrice, che si godranno mare e sole in beatissima pace, mentre lui scatenerà su sabbia e alghe marine la sua verve d’artista, Giacomo Nuzzo tutto fotograferà magistralmente. Scrive Stefano in questo suo “Perdamaribentu”: “Milano mi ha dato tantissimo…la mia sardità però, impregna nel profondo il mio essere. L’infanzia e parte dell’adolescenza trascorsa in terra sarda, ha impresso in maniera indelebile il mio modo di essere e di sentire la vita nella sua essenza…i ricordi sembrano fuoriuscire da un libro di favole ancestrali dove l’uomo è esso stesso natura e puro sentimento. E’ la natura di quest’isola antica…”(pag.13/14). E ancora: “La Sardegna è una calamita la cui forza attraversa il mare e mi cattura costringendomi al ritorno” (pag.15). Scendendo da Sassari prima fermata è alla basilica di Saccargia venuta su, narra la leggenda, per un voto di un Giudice di Torres che desiderava disperatamente la nascita di un figlio, e fu esaurito. Poi a Bonorva per le “Domus de Jana” di Sant’Andrea Priu, una ventina di stanze scavate artificialmente nella roccia con decorazioni che vanno dal tempo neolitico a quello romano, poi paleocristiano fino ai tempi più recenti. A Cabras ci si ferma per un piatto di spaghetti alla bottarga. Un’ora dopo a Serramanna, “il paese della mia infanzia, della casa dei nonni, delle vendemmie e delle bevute nelle cantine degli amici dell’adolescenza…la bella chiesa romanica, il cimitero dove riposano i miei genitori e molti parenti” (pag.29). Tappa successiva Villasimius, dove Stefano ha una casetta in un villaggio di villette a schiera fin dal 1978, non è un caso che il viaggio di approccio sia scandito dal nome delle spiagge che si susseguono: ognuna dal mare diversamente colorato: Cala Regina, Mari Pintau, Torre delle Stelle che racchiude la spiaggia di bianco intenso di Baccu Mandara. E una volta arrivati, quelle di Villasimius: Cuccureddu dove sbocca un torrentello che forma una sorta di laghetto salmastro. “Su questa foce inizio la mia opera di Land Art minimale: infilzo canne in verticale sulla sabbia del fondo e le uso come piedistalli per le patate di mare. Avannotti guizzano piccolissimi sulle basi delle canne indifferenti alla mia presenza” (pag.39). E a Punta Molentis dove “due mari si scontrano separati da una lingua di terra e granito” (pag.51). “Lontano, sul mare, fa sognare la selvaggia lunga e stretta isola di Serpentara…in questa occasione utilizzo sopratutto alghe che dispongo in un mio ordine allungato su una piccola parete in pietra.”(pag.53). Per Is Trais: residui di lavorazione, tronchi di legno consumato, corde sfilacciate”. Grandi cerchi concentrici sulla sabbia sottile e bianchissima di Serra e Morus. Le foto di Nizzo colgono questi attimi che vento e mare si incaricheranno di cancellare. “La pioggia dilaverà la terra, il vento scombinerà le geometrie” (pag.69). Ma non solo spiagge e mare ma anche cibo, cotolette alla brace col rito del fuoco che regalerà i suoi residui per le pittu-sculture esposte qui a Milano, colazione a s’”Arcu Pintau”, nome dato dai sardi all’arcobaleno, l’arco dipinto. E dopo il giro turistico di Cagliari, da “Lilliccu”, una istituzione: frutti di mare e burrida, bucconis bolliti e pasta al granchio o al riccio di mare, fregula con arselle, orate alla vernaccia e anguille…vermentino molto fresco, angurie e fichi per frutta, sebadas al miele per dolce. Per i frammenti di ricordi a comporre il “puzzle” di una vita quindi non solo pietra e mare e vento.

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