SUGLI INCENDI IN SARDEGNA SEMPRE TRAGICAMENTE ATTUALE UNA RIFLESSIONE DI OTTO ANNI FA

di PAOLO PULINA

Chi è nato e cresciuto in una famiglia di pastori 

sa che pecore, maiali e altri animali allevati,

compiuto un certo loro ciclo, sono destinati

al macello, e da questa legge non sono fuori!

Mentre guardo attonito le pecore bruciate vive

dai fuochi che hanno devastato l’Oristanese,

penso: “pietà l’è morta” e più non sopravvive

nelle menti dal dèmone della piromania prese!

Di nuovo in preda a irrefrenabile sgomento,

non riesco a condividere il ragionamento

che solo fenomeni naturali hanno un peso:

sole, vento; ma sì, anche un cerino acceso!

Vien detto: “Tutti incendiari nelle estati sarde!”

Eh, no!  Non potendo argomentare in versi,

riprendo uno scritto che ha otto anni tondi:

la tragica attualità in cui i sardi sono immersi

rispetto al passato non segna cambi profondi!

Di seguito, ecco l’articolo pubblicato in questo sito il 10 agosto 2013

GLI INCENDI ESTIVI NEGLI ULTIMI DECENNI IN SARDEGNA: LA STORIA SEMPRE UGUALE E INFINITA DEI PIROMANI IMPUNITI

di Paolo Pulina

Alla fine del mese di giugno 1991, il Circolo sardo “Domo Nostra” di Cesano Boscone (MI), in quell’anno presieduto da Giuseppe Lai, organizzò un conferenza sul tema, già allora ogni estate  tragicamente attuale, degli incendi in Sardegna. Dopo tante idee sul “che fare” esposte dai relatori tecnici, mi permisi di fare qualche considerazione storico-culturale.

 « Il fuoco continua a parlare della Sardegna, all’interno e soprattutto fuori dell’isola. “Lingua di fuoco” potrebbe essere  titolo di un romanzo che un narratore dello stesso valore potrebbe affiancare a “Lingua di falce” di Gavino Ledda. Purtroppo il fuoco parla di sé, dentro e fuori della Sardegna (basti pensare alle quasi venti vittime registratesi nell’agosto 1989 nelle località di forte richiamo turistico della Costa Smeralda), come tragedia apocalittica, come maledizione divina. Eppure ci fu un tempo storico neanche troppo lontano da noi in cui in Sardegna gli incendi controllati delle campagne servivano, come ha notato il geografo Maurice Le Lannou, a una specie di regolazione agronomica dei terreni. Eppure, fino a qualche decennio fa, i falò di San Giovanni (“sos fogarones de Santu Giuanne”; qualcosa di simile si fa in molti  altri Paesi, in maniera particolare – ho visto –  in Danimarca) erano un’occasione di festa e uomini e donne, saltandoci sopra tenendosi per mano, diventavano “compares de Santu Giuanne” e talvolta il legame così stabilito era più forte di quello formalmente fissato dall’ “olio santo”.

Eppure ci fu un tempo favoloso in Sardegna in cui il fuoco era una forza al servizio dell’uomo: si veda la fiaba “Come sant’Antonio rubò il fuoco” (ai diavoli, con l’aiuto di un astuto maialetto; la leggenda si chiude con questa “spiegazione”: “Fu in questo modo che la Sardegna e il mondo conobbero finalmente il fuoco e il gran freddo cessò per sempre”), nella raccolta di “Fiabe sarde”, scelte e tradotte da Francesco Enna, pubblicata  nei primi mesi del 1991 dagli Oscar Mondadori. Sarà possibile ancora questo? È impensabile metterci la mano sul fuoco».

Nell’agosto 1993, essendo in vacanza nel mio paese natale, Ploaghe,  replicai di getto, a caldo, a un articolo di un antropologo sardo, ospitato con grande evidenza nella prima pagina del quotidiano  “ La Nuova Sardegna”, che esprimeva, a mio parere, non condivisibili posizioni ecologiste di tipo radicale (“Siamo tutti possibili incendiari nelle estati sarde”). Furono pubblicate decine di opinioni in merito alle tesi dell’antropologo ma non il mio contributo, che avevo intitolato “La colpa non è del cerino acceso”:  le cause degli incendi estivi in Sardegna per me erano e restano individuali e individuabili (le generalizzazioni rischiano di diventare genericità).

Sul  “Messaggero Sardo”, agosto-settembre 1994,

http://www.regione.sardegna.it/messaggero/1994_ago-set_35.pdf

ripresi i concetti essenziali di quel “pezzo” aggiornandolo con considerazioni riferite all’estate 1994, che trascrivo qui di seguito.

«Nell’estate del 1994, in vacanza in Sicilia, seguii attraverso i giornali e la televisione e attraverso le telefonate ai parenti (finché fu possibile) il dramma dei paesi e dei luoghi colpiti dalle fiamme devastatrici nella zona della Sardegna (il Logudoro) di cui sono originario: Ploaghe innanzi tutto (ottocento capi di bestiame, soprattutto pecore, arsi in centinaia di ettari di pascoli distrutti), Osilo, Chiaramonti, Nulvi, Campomela, ecc.

Appresi che erano stati arrestati lavoratori stagionali della forestale sospettati di aver attizzato qualche esca incendiaria in preda a rancori per torti subìti; lessi che più volte i freni mal funzionanti di qualche convoglio ferroviario avevano fatto sprizzare scintille che avevano alimentato fiamme che il forte vento aveva fatto diventare spietate. Non mi sentii di escludere a priori che venisse accertata anche la colpa di qualche pastore poco preoccupato dell’estendersi incontrollato di fiamme accese per bruciare porzioni limitate di  pascolo. I fatti insomma avevano dato ragione a chi modestamente suggeriva di non addossare le colpe a cause non imputabili all’uomo (il sole, il vento) e a responsabilità collettive che assolvevano a priori comportamenti devianti di tipo individuale.

Il sociologo Sabino Acquaviva in un articolo dell’agosto 1994 ricordava i grandi falò di Ferragosto che nella civiltà contadina avevano “un significato religioso, prima pagano e poi cristiano”. Personalmente mi sento di proporre – riferendomi alla zona della Sardegna maggiormente colpita nel 1994 dai fuochi assassini – che dal 1995 la festa dei Candelieri (pesanti colonne a forma di grande cero votivo che vengono portate a braccia a Ferragosto per le strade di Sassari e dei paesi di Ploaghe e di Nulvi) si trasformi in una processione religiosa e in un corteo laico, non più per ricordare lo scampato pericolo da qualche terribile peste dei secoli passati ma per affermare che la peste dei nostri giorni in Sardegna sono gli incendi».

Dopo tutte le estati infernali che il fuoco appiccato dai piromani (infami distruttori del paesaggio, degli animali, e spesso anche degli uomini)  ha “regalato” alla Sardegna nel periodo 1995-2012, oggi nelle prime giornate di agosto 2013, in vacanza in Sicilia, devo leggere con angoscia di ottomila ettari devastati dagli incendi  divampati in particolare nell’Oristanese, nell’Ogliastra, nel Cagliaritano; di centinaia di persone evacuate.

Leggo che i parlamentari sardi – in un  appello al Governo perché la Sardegna non venga lasciata sola a combattere gli incendi e perché quindi siano potenziati i mezzi e il personale destinati a contrastare le fiamme  e venga aumentato il numero dei Canadair con base negli aeroporti sardi – evidenziano il «disastro ambientale che si sta compiendo in queste ore con roghi da nord a sud dell’Isola, con migliaia di ettari in fumo, abitazioni evacuate e feriti».

Non so se ancora oggi qualcuno osa sostenere che «parlare sempre di dolo ci deresponsabilizza».

Ci deresponsabilizza di più dimenticarci delle responsabilità dei criminali incendiari.  Sui  piromani – causa prima del «disastro ambientale» – cada la maledizione delle persone civili; venga messa anche qualche taglia così da favorirne l’individuazione; venga stabilita e fatta valere qualche punizione esemplare. In questi ultimi due campi i parlamentari sardi hanno qualche possibilità di intervento…

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7 commenti

  1. Ma l’antropologo cui fa cenno e del quale non condivideva la posizione, è Giulio Angioni?

  2. certo, mi riferisco a Giulio Angioni. Ho parlato delle tesi di Angioni – confermando di non condividerle – anche in un articolo sul romanzo “Assandira” (quando è stato tradotto in film) dato che sono accennate anche lì. Il mio articolo è reperibile su Tottus in Pari. http://www.tottusinpari.it/2020/09/20/75690/

  3. ricordavo l’articolo su Assandira, per quello mi è tornato subito alla mente

  4. Le riflessioni attuali ahimè non sono sole per gli incendi. A ottobre torneranno le alluvioni ed ancora non si è fatto nulla. Non ho parole!

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