LA PESTE IN SARDEGNA: QUEI TERRIBILI CINQUE ANNI TRA IL 1652 E IL 1657

Simulacro di Sant’Efisio, a cui è legato il voto della Municipalità di Cagliari. Foto: Nicola Orrù

di ROBERTA CARBONI

Nel corso del XVII secolo l’Europa fu devastata a più riprese dal terribile morbo della peste, che anno dopo anno stroncò le vite di migliaia di persone, devastando l’economia, l’agricoltura e il commercio ed isolando numerosi villaggi, che furono letteralmente abbandonati a se stessi.

Inserita nel circuito di scambi commerciali del Regno di Spagna, la Sardegna fu attraversata dal morbo nel quinquennio 1652-1657, fungendo da tramite per l’espansione del contagio a Napoli, Roma e Genova.

La diffusione della peste sull’isola è legata a molteplici cambiamenti sociali, politici ed economici che ne condizionarono la storia e modificarono consuetudini e credenze, stimolando la nascita o incentivando la ripresa di nuovi culti, primo tra tutti quello verso Sant’Efisio.

Nel suo libro “Castigo de Dios: la grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV” Francesco Manconi ha analizzato le condizioni socio-economiche dell’isola nel quinquennio 1652-1657, offrendo ulteriori spunti di ricerca ed approfondimento.

“Ed ecco che apparve ai miei occhi un cavallo livido, chi lo cavalcava era chiamato Peste e Ade lo seguiva”

Con queste parole, contenute nell’Apocalissi di San Giovanni, prese corpo l’incubo della fine, l’ossessione dell’uomo verso la dannazione eterna e la punizione di Dio per i peccati degli uomini.

Già piegata dalla continua pressione fiscale esercitata dalla Corona di Spagna per sostenere la Guerra dei Trent’anni contro l’espansione asburgica, nella prima metà del Seicento la Sardegna attraversò un processo di graduale impoverimento, culminato con la brutale irruzione della più catastrofica epidemia dell’Età Moderna.

Il terrore generato dal morbo era tale che si evitava perfino di pronunciarne il nome, ricorrendo ad appellativi come “calentura maligna” o “el mal que corre”. Ma più di tutto la peste era vista come “castigo de Dios”, una punizione divina per i peccati commessi dagli uomini. Si cominciò a vedere la morte come qualcosa di inevitabile e prossima, con l’unica soluzione di attenderne l’arrivo. Non è un caso che in questi anni si siano moltiplicate le opere caritatevoli da parte di nobili e benefattori o le richiesta di intercessione verso santi taumaturghi quali san Rocco o San Sebastiano, oltre al già citato Sant’Efisio. Ma non solo, la Chiesa concesse più volte l’indulgenza ai fedeli nel caso della loro presenza a particolari celebrazioni liturgiche.

Celebre, a questo proposito, il voto perpetuo siglato dalla Municipalità di Cagliari a Sant’Efisio l’11 Luglio del 1652.

Ma non solo. Padre Giorgio Aleo, importante cronista del XVII secolo riferisce come un’apposita delegazione di chierici fu inviata a Pisa per richiedere la restituzione delle reliquie del santo custodite all’interno del Duomo di Pisa.

Nell’Aprile del 1652 una nave mercantile proveniente da Tarragona giunse ad Alghero. A causa dei mancati controlli sanitari nel porto, il contagio si diffuse dapprima in città e poi nelle campagne, per poi raggiungere a macchia d’olio il Logudoro, la Nurra, l’Anglona, la Gallura e l’intero Campidano. Ad essere devastate furono, nell’ordine, Alghero, Sassari, Oristano e infine Cagliari, secondo un percorso che seguiva il movimento di uomini e merci lungo la principale via di comunicazione del Regno.

Furono sopratutto le città e le aree pianeggianti a spiccata vocazione agricola, dove i contatti e gli scambi tra le comunità erano più intensi, a pagare a caro prezzo la diffusione del morbo.

Alghero e Sassari subirono in pochi mesi drastici cali demografici, anche a causa della mancanza di una adeguata profilassi dovuta alla scarsa conoscenza del terribile flagello.

Ma non solo. Il propagarsi del contagio cominciò a creare enormi problemi di ordine pubblico con frequenti migrazioni interne e tumulti popolari dovuti alla fame e alle inumane condizioni di gestione dei malati. Oltre alle pene pecuniarie furono previste anche numerose condanne a morte per chi avesse superato i cordoni sanitari o introdotto illegalmente persone e merci all’interno dei confini. Perfino aiutare un familiare era considerato un reato.

Chi subiva il contagio veniva visitato dai medici della “junta del morbo”, un apposito organo suddiviso in varie sezioni responsabili della profilassi. Le case degli appestati venivano sigillate e le persone costrette a stare al loro interno.

Spesso i morti erano talmente tanti che i fossori non riuscivano a trasportarli tutti sui carri ed erano costretti a lasciare i cadaveri in decomposizione ai margini delle strade. Addirittura in alcuni casi, per mancanza di tempo e in condizioni di estrema urgenza, i malati venivano sepolti nelle fosse comuni ancora vivi.

Il bilancio finale fu catastrofico. Pur in mancanza di precisi dati demografici si suppone che i morti siano stati circa seimila. L’entità della pandemia fu tale che le conseguenze furono devastanti anche negli anni successivi. Molti villaggi, colpiti dal disastroso calo demografico, scomparvero e i pochi abitanti sopravvissuti furono costretti a trasferirsi nei centri più vicini. Ma non solo: le annate agricole che seguirono furono disastrose, con un picco di negatività nel 1680, in cui si registra un tasso di mortalità elevatissimo. Alla peste, dunque, seguirono carestie talmente devastanti da portare alla morte per inedia un numero di uomini probabilmente maggiore di quelli scomparsi a causa del contagio.

Il secolo si chiuse pertanto con un saldo demografico largamente passivo, con l’abbandono delle campagne e il regresso delle attività produttive e dell’agricoltura a vantaggio dell’allevamento brado.

La Sardegna avrebbe ricordato per molto tempo la terribile “peste barocca”, votandosi per sempre al santo che, secondo la tradizione, l’avrebbe allontanata.

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