LA “SARDINIAE BREVIS HISTORIAE ED DESCRIPTIO” DI SIGISMONDO ARQUER: IL LIBRO ALL’INDICE DELLE PUBBLICAZIONI PROIBITE DALLA SANTA INQUISIZIONE

di ROBERTA CARBONI

La “Sardiniae brevis historia et descriptio”, scritta tra il 1549 e il 1550 dal cagliaritano Sigismondo Arquer, rappresenta il primo tentativo organico di trattazione storico-geografica relativa alla Sardegna, costituendo ancora oggi una tra le fonti documentarie più preziose ed autorevoli relative alle vicende dell’isola nel XVI secolo. Eppure, appena qualche anno dopo la sua pubblicazione, l’opera fu inserita dalla Chiesa nell’Indice dei Libri Proibiti. Ma come poteva un’opera di carattere storico contenere idee e precetti che fuorviassero dalla corretta opinione imposta dalla Chiesa?

Sigismondo Arquer è senz’altro uno tra i personaggi più carismatici della storia di Sardegna. La sua figura ha ispirato la nascita di circoli culturali, convegni e perfino logge massoniche a lui intitolati.

Nato a Cagliari nel 1530, in un ambiente caratterizzato da una profonda ed insanabile frattura tra la Corona spagnola e l’aristocrazia feudale sarda, ebbe una vita breve ma intensa, scandita da una serie di vicende che si dipanarono, in un crescendo drammatico ed avventuroso, fra Sardegna, Italia, Svizzera, Belgio, Germania e Spagna.

Nutrito di cultura umanistica, a soli diciassette anni era già in possesso di due lauree in Diritto Civile e in Teologia, conseguite nelle prestigiose università di Pisa e Siena e, fin da subito, fu investito di importanti incarichi pubblici presso la Corte. Tra questi quello di avvocato fiscale per il Regno di Sardegna, attribuitogli dal re Filippo II di Spagna, che lo portò ad entrare presto in conflitto con gli interessi della potente consorteria di feudatari sardi guidata don Salvatore Aymerich, divenendone il bersaglio privilegiato.

L’aristocrazia feudale cagliaritana, coinvolta in attività speculative e manovre finanziarie ai danni della Corona, era già riuscita a neutralizzare con discreto successo tutti coloro che, prima di Sigismondo, avevano provato a sciogliere la fitta trama di macchinazioni e scandali che coinvolgevano i principali esponenti della nobiltà sardo-iberica. Tra questi, il “caso della viceregina”, un complesso “affare di stato” che coinvolgeva la consorte del vicerè di Sardegna, Maria de Requenses, e alcuni popolani, accomunati dall’accusa di stregoneria. Il caso, nutrito da numerose testimonianze prezzolate, si protrasse per circa due anni, concludendosi con il ferale rogo di due popolani, avvenuto nel 1545 nella Plaza Major, l’attuale Piazza Palazzo a Cagliari.

L’ingarbugliata matassa di queste vicende aveva finito col coinvolgere indirettamente perfino il padre di Sigismondo, Giovanni Antonio Arquer, la cui difesa costrinse il giovane giurista a recarsi dapprima presso la corte imperiale a Bruxelles per poi tornare a Cagliari nel 1555 ottenendo il rilascio del padre e la carica di avvocato fiscale.

Molte di queste informazioni si attingono dall’intenso rapporto epistolare che Sigismondo intrattenne con il nobile valenzano Gaspare Centelles, con il quale discuteva di politica, religione ed impressioni di viaggio.

Durante la sua permanenza in Svizzera, a Basilea Sigismondo conobbe Sebastian Münster, un ex monaco francescano che, colpito dalle idee promulgate da Martin Lutero, sposò gli ideali protestanti, predicando la necessità di riformare le basi istituzionali della Chiesa e, soprattutto, il potere attribuito al papato e al clero. L’adesione al luteranesimo segnò per Münster l’inizio di una florida attività letteraria, cui univa l’insegnamento presso l’Università di Basilea. Dopo la pubblicazione di alcuni saggi e traduzioni, tra cui quella della Bibbia dal latino all’ ebraico, nel 1554 cominciò a scrivere la sua opera più importante, la “Cosmographia Universalis”, che ambiva ad essere la prima descrizione del mondo in lingua tedesca. Il successo dell’opera fu tale che, nel tempo, ne furono pubblicate diverse edizioni – 24 in circa 100 anni –  tra cui quella del 1550, alla cui stesura contribuì proprio Sigismondo Arquer.

Il giovane Sigismondo, appena diciottenne, rimase affascinato dall’ambiente culturale dei cantoni svizzeri, dove vigeva un clima di tolleranza religiosa legato all’opera di riformatori come il celebre Zwingli. Dietro invito di Münster, il giovane giurista cagliaritano collaborò alla riedizione in latino della “Cosmographia” e, nel 1549 cominciò a scrivere la sua breve trattazione della Sardegna, intitolata “Sardiniae brevis historiae et descriptio”.

Sebbene si tratti di una piccola trattazione, l’opera risulta il primo lavoro descrittivo mai prodotto sulla Sardegna, che unisce descrizioni e notizie di carattere storico, demografico ed economico a carte geografiche della Sardegna. Tra queste è ancora oggi celebre la mappa della città di Cagliari con i suoi quattro quartieri ancora cinti da torri e mura, oggi scomparse. Degna di nota è anche la carta geografica della Sardegna, chiamata “Sardinia Insula”.

Non mancano, inoltre, note sugli usi, costumi e lingua dei sardi, con alcune descrizioni dei principali paesi della Sardegna, molti dei quali descritti come arretrati e malsani, altri ancora attanagliati dalla corruzione e dal malaffare, a suo parere, il vero problema del mancato progresso dell’isola. Sorprende come Sigismondo, si sia lasciato andare a considerazioni personali riguardo il clero e gli inquisitori, giudicati ignoranti e senza scrupoli, più interessati a fare figli che ad istruirsi in materia di fede.

L’opera, pubblicata nel marzo del 1550, ebbe inoltre il merito di immettere la conoscenza dell’isola nel grande circuito internazionale, venendo a costituire, per diversi secoli, la base imprescindibile di tutte le trattazioni riguardanti la Sardegna.

Dal 1534 al 1549, anno della sua morte, alla guida del papato c’era Alessandro Farnese, alias papa Paolo III che, già avanti con gli anni, si trovava impegnato a contrastare la Riforma Protestante.

Fu lui a commissionare a Michelangelo il celebre Giudizio Universale nella Cappella Sistina e avviare la riforma della curia. Ma non solo: nel 1542 emanò la bolla “Licet ab initio” con la quale ufficializzava la “Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione” – più semplicemente detta Inquisizione Romana – e, sempre nello stesso anno, convocò il Concilio di Trento, che avviò ufficialmente i lavori nel Dicembre 1545.

Il Concilio, il diciannovesimo nella storia della Chiesa, nasceva per contrastare le idee anticlericali diffuse in tutto il continente a partire dalla Riforma Protestante avviata da Martin Lutero con l’affissione delle famose 95 tesi al portale della cattedrale di Wittemberg. L’obiettivo era quello di ristabilire l’unità della Chiesa e ripristinarne i principali capisaldi teologici e dottrinali diventati il fulcro dell’ordinamento cattolico a partire dal Concilio di Nicea del 325.

La prima fase dell’assemblea fu affidata in gran parte ad un collegio di cardinali, tra cui sei ricoprivano già il ruolo di “Commissarios et inquisitores generales”, essendo responsabili, cioè, dell’operato del Tribunale del Sant’Uffizio. Tra questi, il cardinale Gian Pietro Carafa, che successe al soglio pontificio con il nome di papa Paolo IV.

Fu quest’ultimo a riaprire i lavori del Concilio, temporaneamente sospesi a causa della morte di Paolo III e della convocazione del Conclave, imprimendo un indirizzo ancora più duro alla Controriforma Cattolica.

Tra le azioni repressive imposte dai nuovi dettami, ci fu la creazione dell’ “Index Librorum Prohibitorum” – l’Indice dei libri proibiti – già pensato dal suo predecessore. L’ “Index” consisteva in un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa poiché contenenti proposizioni eretiche o teorie che contraddicevano i dettami ufficiali.  L’elenco veniva aggiornato periodicamente da un’apposita commissione – la “Congregazione dell’Indice” – che fu creata nel 1559 e soppressa soltanto nel 1966.

Secondo i principi del Diritto Canonico, le forme di controllo sulle opere a stampa erano sostanzialmente di due tipi: l’imprimatur – con la quale si approvava la pubblicazione – e il reprimatur – che condannava il contenuto dell’opera poiché responsabile di diffondere idee erronee: quest’ultima prevedeva l’inserimento di tali opere nell’elenco dei libri proibiti.

Nella prima versione dell’Indice, detta “Indice paolino”, erano contenuti, tra gli altri, il “De Monarchia” di Dante Alighieri e il “Decameron” di Boccaccio, assieme ai quali risulta proibita anche la “Cosmographia Universalis” di Münster contenente la “Sardiniae brevis historiae et descriptio”.

In un momento in cui, da tempo, la consorteria feudale sarda tentava di eliminare l’Arquer, considerato un avversario scomodo e pericoloso, l’opera fu strumentalizzata per rivolgergli l’accusa di “luteranesimo”. Ma non fu certamente un motivo sufficiente per provocarne la condanna a morte. La frequentazione di ambienti protestanti, comprovata dalla presenza degli scritti nell’opera di Munster, fu avvalorata anche dalla corrispondenza epistolare con Gaspare Centellas, anch’egli accusato di eresia luterana e condannato al rogo a Valenza nel 1564.

Dopo aver tentato più volte di discolparsi, costretto alla prigionia nelle carceri del Sant’Uffizio, Sigismondo fu processato e condannato al rogo a Toledo, dove morì il il 4 Giugno del 1471 tra le fiamme di Plaza de Zocodover.  

La sua fine è descritta nel volume di Marcello Cocco “Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafè”. Dopo aver udito la sentenza, egli cominciò a protestare al punto tale che gli si mise la mordacchia (un cerchio di ferro che bloccava la lingua) e con quella fu trascinato al “brasero”, il patibolo dove avvenivano le esecuzioni inquisitoriali. Come atto di clemenza, l’ufficiale civile voleva farlo strangolare prima del rogo, ma poiché la folla si oppose, dato il mancato pentimento del condannato, fu ferito da alcuni colpi di alabarda per poi essere bruciato vivo.

Una fine ingiusta, che ancora oggi lascia aperti numerosi interrogativi.

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Un commento

  1. Marco Piras-Keller

    Forse da citare che la figura e la vicenda di Sigismondo Asquer ha avuto una preziosa espressione letteraria nel romanzo di Giulio Angioni “Le fiamme di Toledo”, edito da Sellerio (2006).

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