LE CORDE DI LINO PER ARCHI FRA ETNOGRAFIA E SPERIMENTAZIONE ARCHEOLOGICA IN SARDEGNA

Avvolgimento della fibra di lino

di CINZIA LOI

Introduzione – Il patrimonio archeologico sardo è ricco di testimonianze relative all’uso dell’arco fin dall’antichità. Oltre alle innumerevoli punte di freccia in selce e ossidiana, numerosi sono i bronzetti nuragici raffiguranti arcieri rinvenuti in tutta l’isola. Purtroppo però nessuna prova diretta, nessun reperto riferibile all’arco, è giunto fino a noi. Svariate le ipotesi proposte finora, alcune davvero fantasiose, sugli archi rappresentati in alcuni bronzetti e sui materiali utilizzati per fabbricarli. Il percorso speculativo prescelto da chi scrive è, invece, di tipo “funzionale” ed ha previsto uno studio approfondito delle risorse naturali presenti nell’isola e dei sistemi di lavorazione ad esse riferibili, conservatisi pressoché identici fino all’epoca pre-industriale.

Il lino e la storia del suo utilizzo – Il lino è un’erba che appartiene alla famiglia delle linacee, ramificata nella parte estrema ad unica fioritura, ha foglie lisce e fiori generalmente azzurri, talvolta bianchi o violacei alle estremità. Ogni fiore produce una capsula che contiene vari semi oleosi, detti semi di lino, di forma ovale e piatta, di colore marrone-rosso e brillanti. Da questi si estrae un olio conosciuto con lo stesso nome del seme. Le fibre parallele che formano la corteccia dello stelo sono quelle che costituiscono la stoppa. La varietà di lino da olio (Linum usitatissimum var. humile) ha fusti generalmente più brevi e semi più grandi rispetto a quella da fibra (Linum usitatissimum var. usitatissimum). La fibra tratta dal lino domestico (Linum usitatissimum) è la più diffusa durante la Preistoria; i più antichi frammenti di tessuto in lino risalgono al Neolitico Antico (VIII-VII millennio a.C.) e vengono dal Vicino Oriente (Grotta di NahalHamar in Plestina e più tardi nel villaggio di Catal Huyuk in Anatolia). In Europa le testimonianze relative ai primi tessuti provengono dall’insediamento tedesco di Kuckhoven (Colonia– cultura della Bandkeramik, VI-V millennio a.C.), conservati in un antico pozzo grazie alla presenza di un ambiente umido. In Italia i tessuti in lino divennero diffusi a partire dall’Età del Bronzo, soprattutto nei villaggi palafitticoli di Ledro e Fiavè in Trentino, da dove provengono molti resti di intreccio. Semi di lino sono stati rinvenuti in Italia per la prima volta nel villaggio del Neolitico Antico della Marmotta, sul lago di Bracciano.

Fibra di lino e conocchia di canna (sa cannuga)

Dalla ricerca etnografica alla sperimentazione – La ricerca etnografica condotta dalla scrivente in un’area centrale dell’isola, nella regione storica del Barigadu, ha dimostrato come molte tecnologie e oggetti connessi alla lavorazione del lino, siano rimasti praticamente immutati dall’antichità fino quasi ai giorni nostri. In questo territorio la semina, praticata ovunque in piccole quantità per sopperire agli usi domestici, avveniva in Ottobre o in Novembre. Particolarmente rinomato era il lino di Busachi (OR). All’inizio della stagione secca, nel mese di Maggio, quando la pianta diventa gialla, veniva estirpata e raccolta in piccoli fasci, successivamente stesi sul campo a seccare con la radice rivolta verso l’esterno. Dopo qualche tempo i fasci venivano battuti con un maglio di legno, in modo da estrarre il seme dalla capsula. Gli steli liberati dai semi, raccolti per la semina dell’anno successivo, venivano immersi in un rio, in modo che l’acqua e i microrganismi potessero indurre la decomposizione dei fusti, che facilita la successiva separazione delle fibre dalla parte legnosa. Dopo un periodo di 10-15 giorni gli steli venivano posti nuovamente ad essiccare, questa volta in posizione eretta e, successivamente, sfibrati attraverso la gramolatura effettuata qui con due differenti tipologie di gramole (s’àrgana e sa takkula). Fra le due fasi della gramolatura, il lino veniva posto ad seccare all’interno del forno del pane accuratamente pulito, operazione che agevolava ancor di più il distacco della fibra. Le fibre venivano poi scapecchiate mediante uno scapecchiatoio, una sorta di grande pettine di legno con i denti metallici (su pettene).

Quando la fibra era pulita iniziava la filatura. Strumenti principali di questo procedimento erano il fuso (su fusu), la fusaiola (s’urtieddu) e la conocchia (sa cannuga). Il fuso non è altro che un’asta di legno che presentava qui, nell’estremità superiore, una capocchia emisferica sempre di legno, dotata esternamente di una scanalatura nel mezzo – utile a ricevere il filo – e di un gancio in cima al quale veniva fissato il filo. La fusaiola è una piccola massa forata in legno o pietra, di forma per lo più discoidale, che serviva a zavorrare la base del fuso e che creava un “effetto volano”  necessario ad ottenere una migliore torcitura  delle fibre per formare il filo. La conocchia o rocca è uno strumento di canna forato nella parte mediana; in esso si avvolgeva una determinata quantità di fibra ancora grezza (su curizone).

Per formare il filo si tirava una piccola massa di fibra dalla conocchia, la si arrotolava con le dita e la si fissava al fuso; con il pollice e l’indice le si imprimeva un rapido movimento rotatorio e, mentre si tendeva man mano dell’altra fibra dalla rocca, la si faceva scorrere rapidamente con il palmo della mano dall’anca al ginocchio. Ottenuta una certa quantità di filo, si passava a realizzare la matassa mediante l’utilizzo dell’aspo (su sorbidorzu), un bastone di legno con due pioli trasversali alle estremità, orientati in direzione opposta attorno ai quali si avvolgeva, incrociandolo abilmente, il filo. Terminata questa operazione, la matassa così ottenuta veniva sistemata nell’arcaiolo (su sorbu ’e trama), attrezzo di legno che, girando su un perno, agevolava l’operazione manuale di svolgimento della matassa e di riavvolgimento del filo in gomitoli.

Movimento rotatorio del fuso tra l’anca e il ginocchio

Nell’ambito del progetto sperimentale di fabbricazione delle corde, tutte le fasi sopra descritte sono state verificate più volte. Fra di esse quelle più critiche sono risultate quelle relative alla macerazione e alla filatura. Infatti, una macerazione sbagliata incide negativamente sulla qualità della fibra così come una non perfetta filatura limita la robustezza ed uniformità del filato e, di conseguenza, del prodotto corda.

Il metodo utilizzato per la produzione della corda è quello classico della torcitura ed il numero dei fili è stato calcolato sulla base di considerazioni e indicazioni che, per mancanza di spazio, verranno affrontate prossimamente in questa stessa rivista.

Bibliografia

Max Leopold Wagner, La vita rustica, Ilisso 1996

L’uomo e le piante nella Preistoria Dipartimento di Scienze Archeologiche, Dipartimento di Scienze Botaniche, Sistema Museale di Ateneo Cupra Marittima 19 Aprile – 13 Luglio 2008

Trasferimento del filo dal fuso all’aspo (su sorbidorzu)

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2 commenti

  1. tonino arcadu

    Notizie interessanti, normalmente fuori dal comune sentire. Ancora complimenti alla ricercatroce Cinzia Loi.

  2. Francesco Sala

    Sapete dove posso acquistare del lino per fare corde per archi storici?
    Grazie
    Mauro

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