UN PAESE DI GIOVANI POVERI CHE SOPRAVVIVONO COI SOLDI DEGLI ANZIANI: I DATI DI EUROSTAT SEGNALANO LA GRAVE SITUAZIONE ECONOMICA DELL’ITALIA

Che l’Italia fosse tra i Paesi in cui secondo i dati Eurostat vi sono più persone a rischio povertà ed esclusione sociale lo si sapeva. Il 30% dei cittadini, in crescita nonostante la ripresa. Contro il 23,1% dell’area euro e il 19,7% della Germania. Quello che appare però realmente problematico è il fatto che in Italia la povertà o il rischio di caderci non è cosa da pochi emarginati, disoccupati, immigrati appena arrivati. È molto più diffuso di quanto si possa pensare, anche in segmenti della società che si sentono al sicuro. Innanzitutto non è solo una questione di redditi bassi, come accade altrove e come apparirebbe logico. Essendo considerato come la condizione di chi si ritrova non solo con un reddito inferiore del 60% a quello mediano, ma anche di chi è in un nucleo familiare con pochissimo o nessun lavoro, affligge in Italia incredibilmente anche una persona su 20 tra quelle che sono nella porzione più ricca della popolazione.  E questo accade più nostro Paese che altrove in Europa. Anzi, se l’Italia risulta tra i primi in questa classifica sul rischio povertà ed esclusione è proprio per questo. Se considerassimo infatti solo chi ha un reddito basso, per esempio quanti sono a rischio tra chi è nel secondo minore quintile di reddito saremmo sì al di sopra della media UE, ma con il 23,5% solo al nono posto, e messi meno peggio anche della Spagna oltre che della Grecia e di diversi Paesi dell’Est. Nel primo quintile, quello con il reddito minore, quasi per ogni Paese la percentuale è del 100% naturalmente, tutti a rischio povertà. Ma man mano che si prendono in considerazione i redditi più alti, risultiamo sempre più ai primi posti. Tra chi è nel 20% più ricco ben il 5,5% è comunque a rischio povertà ed esclusione sociale, più di chiunque altro in Europa tranne che in Bulgaria. Contro il 2,1% medio della UE, o l’1% della Germania. Sono forse numeri di nicchia ma significativi. Vuol dire per esempio che ci sono in Italia più che altrove famiglie in cui magari non lavora nessuno ma che vanno avanti grazie a qualche rendita o all’ingente pensione di qualcuno sopra i 65 anni. Cosa succederà quando mancherà? Eurostat considera giustamente a rischio chi è in questa situazione.

Che vi sia una maggiore disconnessione tra il rischio povertà ed il reddito è evidente anche dalla relazione con la situazione occupazionale. Se altrove il povero è colui che non ha un lavoro, e basta imbastire efficienti politiche occupazionali per risolvere il problema, in Italia non è così semplice. Se in Germania chi è disoccupato ha il 320,7% di probabilità in più di un cittadino medio di essere a rischio povertà ed esclusione, ovvero più del quadruplo, e in Francia il 262% in più, in Italia è solo il 132,4% in più. Lo stesso si può dire per gli inattivi, vi è solo il 50,5% del rischio di divenire poveri o esclusi nel nostro Paese, contro un +105,6% in Germania. Una maggiore spalmatura delle situazioni di disagio si nota anche considerando il parametro istruzione. Chi ha licenza elementare e media in Italia ha solo il 27,3% di rischio in più di essere povero, in Germania il 101,5%. Al contrario avere anche solo un diploma garantisce molto più nel nostro Paese che altrove. Anche l’istruzione influisce meno che altrove, dunque. Anzi, vi è un paradosso. È meno a rischio di povertà un figlio di genitori con istruzione minima in Italia che in Germania e in Francia. Mentre è doppio se parliamo dei laureati. Anche da questi dati si può comprendere il minor incentivo a migliorare la propria istruzione nel nostro Paese. Rispetto a quanto accade altrove non vi sono neanche enormi differenze tra il rischio povertà di chi ha una cittadinanza italiana e gli stranieri. Per questi ultimi nel nostro Paese è doppio rispetto agli autoctoni, ma in Svezia è del 303% in più, in Francia del 247,7% maggiore, in Spagna, Germania, nella UE in media è sempre più grande la sproporzione tra le due categorie. Siamo nella atipica posizione di un Paese in fondo meno diseguale di altri, in cui i poveri sono tanti e diffusi in modo piuttosto omogeneo, almeno a livello sociale se non geografico, visto l’enorme gap tra Nord e Sud.
Non è però una buona notizia. Che non vi siano nelle città veri ghetti separati dal resto in cui vivono, raggruppati, immigrati a bassa istruzione e senza lavoro può rendere felici ma significa che non basta dare sussidi, ma che si deve agire su più fronti. Dal lato del lavoro, se in fondo moltissimi dei tanti inattivi e disoccupati in Italia hanno di che vivere, magari perchè dipendenti da altri familiari, è anche più complesso impostare un eventuale welfare. Basarsi solo su sussidi mirati per chi non ha un lavoro una potrebbe essere un buco nell’acqua, nel momento in cui capita più in Italia che altrove, che un disoccupato o un attivo si ritrovi spesso con redditi familiari migliori di chi ha un’occupazione magari molto mal pagata. È indispensabile, ancora una volta, accrescere la produttività, perchè il lavoro che esiste e che può crearsi possa pagare salari più alti, generare contratti meno precari, non solo per portare fuori dalla povertà molti “working poors”, ma anche per incentivare ad occuparsi, e a studiare per ottenere un lavoro remunerativo. Per spezzare quel legame di dipendenza, dal padre e dal nonno pensionato, dal marito unico percettore di reddito, che rappresenta un elemento di rischio nel momento in cui questo viene meno.
Solo con tassi di occupazione molto alti, di livello europeo, meno lavoretti precari e più di qualità, il rischio di povertà può non solo diminuire, ma divenire qualitativamente più facilmente aggredibile. C’è bisogno di investimenti, più ricerca, le solite cose, troppo spesso ripetute, che nell’attuale dibattito politico però vengono surclassate dall’invocazione di soldi a pioggia, che in altri luoghi forse possono anche funzionare, ma non da noi, dove il campo da irrigare è troppo vasto e disperso.

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