IL GENERALE PECORI GIRALDI, COMANDANTE DELLA PRIMA ARMATA SUGLI ALTIPIANI, PASSA IN  RIVISTA LA BRIGATA SASSARI DOPO LA VITTORIOSA AZIONE NELLA BATTAGLIA DEI TRE MONTI

di DARIO DESSI’

 

Con la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, l’attesa di un offensiva austriaca diventava sempre più trepida ed era incerta solo nei riguardi del fronte dove si sarebbe svolta: gli altipiani oppure la linea  Grappa – Piave?

La raccolta delle forze austro-ungariche da impegnare nell’offensiva era incominciata alla fine del mese di febbraio con l’arrivo di quattro  divisioni provenienti dallo scacchiere orientale. Lungo le strade fangose della pianura friulana, in pessime condizioni a causa del traffico intenso, si assisteva a un continuo passaggio di reggimenti e di batterie. Negli anni antecedenti allo scoppio della conflagrazione, la mortalità nelle terre che sarebbero state invase era pari al 18 per mille, nel 1918 era ascesa con un rapido crescendo sinistro al 65 per mille.

Nell’imminenza di uno sforzo grandioso contro le truppe italiane, le 60 divisioni austro magiare schierate tra lo Stelvio e l’Adriatico erano divise in due formidabili masse di manovra: il gruppo agli ordini del Feldmaresciallo Conrad e quello comandato da Boroevic von Bojna.

Il Gruppo Conrad, forte di 37 divisioni, contava: l’Armata del generale Crobatin (1°) con 8 divisioni in linea e due di riserva, trincerata tra lo Stelvio e l’Astico, l’Armata del generale Scheucheusteul (11°) con 15 divisioni in linea e 8 di riserva, trincerata dall’Astico a Fener e una riserva di gruppo formata da 4 divisioni.

Il Gruppo Boroevic, forte di 23 divisioni, contava: l’armata dell’arciduca Giuseppe (6°) con quattro  divisioni in linea e due di riserva, trincerata da Fener ai ponti della Priula, l’Armata del generale Wurm (5°) con undici divisioni in linea e quattro di riserva, trincerata dai ponti della  Priula alla foce del Piave e una riserva di gruppo formata da due divisioni, una delle quali nelle retrovie della 6° Armata.

Da quando l’Italia aveva cercato di inserirsi da protagonista nella storia del mondo, non si era mai presentato a minacciarla un esercito così forte e agguerrito.

Tutta la fame, tutta l’ansia di pace, tutto il tormento di un grande impero europeo stavano per esercitare la loro pressione tra l’Astico e il mare. Un popolo immenso di gente in armi, acceso d’odio mortale, trepido di speranze cupide, bramoso di bottino e certo di vittoria, stava per rovesciarsi, orrenda marea apportatrice di rovina, di morte e di lutti sulla ferma vigilanza dei fanti italiani, i quali, sugli altipiani e lungo la riva destra del Piave, si preparavano con fervore non meno intenso alla strenua difesa della patria.

Intanto con la circolare N. 6288 del 17 dicembre 1917 il Governo e lo Stato Maggiore italiani avevano riconosciuto la necessità di una più abbondante alimentazione per i soldati: la razione giornaliera di carne era stata aumentata di cento grammi, la pasta di 50 grammi, il  caffè tostato di cinque grammi, lo zucchero di venti grammi, la distribuzione di vino, nella quantità di 25 centilitri,  da tre a sette volte la settimana. Per assicurare una certa varietà, la razione di carne poteva inoltre essere sostituita da 200 grammi di baccalà o da 266 grammi di salame.

Il soldo giornaliero era stato elevato a 90 centesimi, mentre era stata autorizzata la pubblicazione di periodici, chiamati giornali di trincea, fra i quali i più noti furono la Tradotta, la Trincea, la Ghirba, il Razzo, l’Astico, la Giberna ed era stato assicurato un certo benessere al personale militare con l’organizzazione di spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche. Furono agevolati certi spacci a carattere di cooperativa, dove si potevano acquistare viveri di conforto a costi contenuti, fu istituita una polizza gratuita di assicurazione per tutti i soldati combattenti e con delibera del governo e circolare del comando supremo N. 170 del 4 maggio del 1918 furono concessi sussidi straordinari, erogabili direttamente dai comandi di corpo per le famiglie di ufficiali e soldati in particolari strettezze finanziarie, e ci fu il riconoscimento da parte del governo del diritto dei contadini e dei braccianti al possesso della terra, cosa che avrebbe potuto risolvere il problema dell’emigrazione.

Nel frattempo si era dato corso al completamento di innumerevoli sistemazioni difensive sulla linea arretrata  che da Valdagno arrivava al mare sotto Venezia, passando per Vicenza e Padova, e si era proceduto all’armamento  e all’addestramento dei reparti rinforzati da ben 150.000 uomini che erano stati precedentemente  riformati.

Fin dalla fine del mese di maggio il Comando Supremo italiano era stato messo a conoscenza di un prossimo attacco austro – ungarico fra gli Altipiani ed il mare. Tutto lo schieramento difensivo era stato organizzato in modo da consentire un’accurata ed efficace azione di fuoco dell’ artiglieria, arrivando a schierare fino a tre batterie  ogni chilometro di fronte, mentre le unità di fanteria erano state dislocate in modo tale da consentire la  costituzione di forti riserve, da impiegare rapidamente ovunque fosse stato necessario.L’esercito dei mandolinisti, come il defunto imperatore d’Austria aveva avuto la cortesia di definire le forze armate italiane, era riuscito ad accumulare strumenti di ricambio, in misura più che sufficiente, dal momento ché  se si voleva suonare a lungo, occorreva premunirsi in tempo. E pertanto una consistente teoria di cannoni di riserva era pronta, nelle immediate retrovie, a testimonianza degli sforzi magnifici compiuti dall’industria nazionale e dal contribuente italiano.

Si era provveduto inoltre a un’ indispensabile  opera di  rinnovamento degli  uomini, dei materiali e dei concetti tattici.

Formidabile era stata  la mobilitazione industriale del paese, dove  ben 3700 stabilimenti  avevano a disposizione ben 900.000 operai che lavoravano a pieno ritmo per assicurare  le forniture militari.

A partire dal  mese di febbraio del 1918 l‘artiglieria poteva disporre di 5282 nuovi cannoni, mentre la produzione di autoveicoli militari si aggirava intorno alle 1700 unità al mese. Le dimensioni dell’industria italiana, la vera vincitrice dopo Caporetto, erano  cresciute  a vista d’occhio.

Nella primavera del 1918 erano in piena attività 70 fabbriche militari, 20 mila stabilimenti ausiliari, 2 mila stabilimenti minori, dove lavoravano 333 mila operai, esonerati dagli obblighi militari, 350 mila senza obblighi, 200 mila donne, 9 mila prigionieri di guerra e 6 mila coloniali.

L’Ilva aveva intanto esteso i suoi impianti dove  lavoravano 50.000 dipendenti.

Il numero dei lavoratori dell’Ansaldo aveva superato i 100.000.

Da entrambi quelle fonderie, in brevissimo tempo,  uscirono  2.000 cannoni da impiegare  al posto di quelli perduti a Caporetto.

La produzione spaziava dalle 1.200 mitragliatrici al mese e dai 380 aeroplani, con i quali l’Italia era entrata in guerra nel 1915, l’aviazione arrivò ad avere ben 6.000 velivoli.

Non bisogna però dimenticare che nelle fabbriche l’operaio, addetto  alla produzione degli armamenti, dei munizionamenti e di tutto il materiale strategico essenziale per la guerra, guadagnava  sette lire al giorno.

Il soldato contadino,  che utilizzava, invece, tutto ciò che veniva prodotto da quello stesso operaio, rischiava la propria vita, 24 ore al giorno, e percepiva una diaria di appena 90 centesimi.

Sin dall’inizio del 1918, dopo il crollo del fronte russo, l’Austria e  l‘Ungheria avevano a disposizione  dalle 52 alle 54 divisioni, che comprendevano 533 battaglioni 890 batterie, 71 squadroni di cavalleria appiedati, 28 squadroni a cavallo e 5000 mitragliatrici. L’esercito a.u. era  pertanto in possesso di una superiorità relativa sia sul fronte montano lungo il fiume Brenta tra l’Astico e il Piave, ché nel fronte medio del Piave in direzione di Treviso.

Fiducioso di tale superiorità, l’ultimo rampollo degli Asburgo, l’imperatore Carlo aveva voluto affidare quell’offensiva di giugno ai due comandanti in capo dell’esercito austro ungarico sul fronte italiano: Conrad con la 11° armata tra l’Astico e il Piave e Boroevic con la VI armata e l’armata dell’Isonzo lungo tutto il corso del fiume Piave sino al mare.

Tutto era pronto per quell’offensiva che agli italiani sarà nota come “Battaglia del Solstizio”.

Per  gli austro ungarici, era invece la “Battaglia di Giugno”, denominata anche “Operazione Albrecht” limitatamente al Settore del Basso Piave ed anche Operazione fame.

Tra le due  operazioni denominate Radetzky la prima e Albrecht la seconda  non esisteva, però, la benché minima  traccia di coordinamento.

Addirittura  i comandanti dei due gruppi, approfittando della completa apatia e dell’incredibile  disinteresse da parte del Comando Supremo, avrebbero fatto a gara su chi avrebbe gestito lo sfondamento principale.

A Baden regnava un atmosfera di pacifica condiscendenza nei confronti dei due comandanti, al punto da concedere loro carta bianca nel condurre la propria offensiva, una volta che i loro  piani erano stati  elaborati ed approvati a suon di continue trattative, di assicurazioni reciproche e di compromessi, senza  badare minimamente  al conseguente dispendio di sforzi e di energie.

Inconcepibile fu anche il modo di  programmare e di preparare quella che fu l’ultima offensiva dell’impero asburgico.

In parte fu definita a Bolzano, dove  Conrad aveva il suo Quartiere Generale  e  per il resto a Baden, sede del Comando Supremo Austro Ungarico.

Nel 1918, in un momento veramente critico per le sorti della monarchia danubiana,  il Comando Supremo austro ungarico non sembrò agire con  autorevolezza e indipendenza nel concedere  l’autorizzazione a un’ offensiva di tale importanza. Gli austriaci, consapevoli  del recente  tracollo delle difese italiane nel Carso Isontino, non avevano il minimo dubbio sull’esito di quell’offensiva:  per loro sarebbe stato estremamente facile travolgere qualsiasi sistema difensivo per poi dilagare subito dopo nella pianura veneta, dove avrebbero trovato ad attenderli pingui  bottini e facili prede. Anche nell’opinione pubblica, ricordando i successi ottenuti nell’autunno del 1917, esisteva la convinzione di una nuova grande vittoria.

Per tre anni l’Austria era riuscita a contenere i ripetuti attacchi del Regio Esercito con forze decisamente inferiori, per poi batterlo sull’Isonzo.

Adesso lanciandogli contro le truppe a. u. in tutte le sue forze, finalmente sarebbe stato sconfitto una volta per sempre il nemico secolare dell’Austria Ungheria.

Ma quel sogno non si sarebbe mai avverato e nonostante l’impegno di tutte le forze materiali e morali, quella sfortunata offensiva  si sarebbe conclusa con ingenti perdite  e con  ripercussioni di natura deprimente sui soldati e sulla popolazione civile.

Più che alla sfortuna, l’insuccesso doveva essere attribuito all’insipienza di certi  alti ufficiali austriaci che non erano stati in grado di vedere al di là del loro naso, accecati come erano da sentimenti di odio e di rivalsa nei confronti del popolo italiano.  A nessuno a Baden o negli alti comandi era venuto, per qualche momento,  in mente di prendere nella dovuta considerazione le condizioni critiche in cui, ormai da mesi, versava l’ imperiale regio esercito.

In quell’impero che si apprestava a sferrare un offensiva di tale portata tutto era deficitario e scadente: dal cibo al vestiario, dai mezzi di trasporto, ai pezzi di ricambio, dai combustibili, agli armamenti e alle munizioni.

In Austria si mangiavano poltiglie per niente nutrienti di cortecce di piante sminuzzate e miscelate con  della paglia tritata. Una pietanza  disgustosa al palato che predisponeva a certe malattie dello stomaco compromettendo lo stato di salute della popolazione civile e dei soldati.

La carne e il latte erano inesistenti anche per i feriti, per gli infermi e i bambini.

Nelle corsie degli ospedali  le garze e i bendaggi, in genere, erano sostituiti dalla carta. Solo coloro che possedevano una certa ricchezza potevano permettersi il lusso di calzare  scarpe di cuoio.

Le condizioni fisiche  delle truppe allineate lungo il fiume Piave  in attesa di iniziare l’offensiva, lasciavano alquanto a desiderare  per la penuria cronica del  nutrimento e dei capi di  vestiario necessari per la loro sopravvivenza .

In pratica,  quelle truppe non  erano, assolutamente idonee ad affrontare una  offensiva di qualsiasi portata.

I soldati dell’Impero austro ungarico  si sentivano ormai  stufi e stanchi di quella guerra ed erano, inoltre,  alquanto  preoccupati per la  mancanza di mezzi necessari alla sopravvivenza  che affliggeva i loro familiari, in patria.

Quanto alla qualità delle poche munizioni disponibili,  le granate, una volta raggiunto l’obbiettivo,  facevano cilecca, gli shrapnel, in mancanza delle regolamentari schegge di piombo,  erano imbottiti di chiodi e di altri frammenti ferrosi, e i proiettili speciali venivano impiegati con  gas  del tutto   inefficaci.

Una delle lacune più evidenti da parte degli alti comandi  fu quella di non aver voluto prendere provvedimenti atti a migliorare lo stato fisico delle truppe.

Il nutrimento era assolutamente insufficiente. Il vestiario era in condizioni pietose; i soldati indossavano  uniformi lacere e ai piedi avevano  scarpe ridotte a brandelli. Le condizioni igieniche delle truppe erano decisamente deplorevoli;  o non era possibile trovare il tempo sufficiente da dedicare alla pulizia personale e allo spidocchiarsi o forse era  venuta a mancare    la minima volontà  di farlo.

Se tali  erano le condizioni fisiche di quei soldati, era immaginabile quali fossero  quelle morali,  quando furono  mandati, anzi spinti, all’attacco.

Grande,  indubbiamente, sarebbe stato lo smacco per l’esercito e il popolo italiano se quei raggruppamenti di pezzenti in uniforme “feldgrau”  fossero riusciti, come era nelle loro intenzioni, a raggiungere le città della pianura veneta quali Treviso, Venezia, Padova e Vicenza.

Dal punto di vista della situazione meteorologica, per di più, il periodo prescelto per l’offensiva non sarebbe  stato dei più felici.

Nel mese di giugno erano previste abbondanti piogge, le quali  avrebbero accresciuto il livello delle acque del Piave, in modo da rendere estremamente difficoltosi  gli attraversamenti  e i guadi, la costruzione dei ponti e la navigazione delle barche e dei pontoni, e da ostacolare l’avanzata delle truppe imperiali regie, oltre al trasporto di tutto il materiale occorrente per la conduzione vittoriosa  di una simile  offensiva.

Gli alti comandi austriaci avevano dimenticato, inoltre, di valutare la consistenza dell’artiglieria e la ormai consolidata superiorità aerea del Regio Esercito.  I cannoni italiani, ogni chilometro di fronte era guarnito da due o tre batterie d’artiglieria, avrebbero iniziato il fuoco poco dopo le 03.00, rafforzandolo gradualmente e mantenendolo della stessa intensità per l’intero primo giorno di battaglia..

Ma, a Baden, gli alti comandi austriaci, oltre all’azione devastante dell’artiglieria italiana, avrebbero  dovuto prendere in considerazione anche l’impiego dei velivoli da caccia e da bombardamento Nieuport, Caproni e Ansaldo. Quei velivoli con il concorso degli aerei da ricognizione, avrebbero dato un sicuro contributo alla demolizione di tutto ciò che il genio austriaco avrebbe costruito tra una sponda e l’altra del fiume Piave.

E così, tanto per citare un esempio,  il ponte di San Donà, terminato alle ore 5,30 del giorno 15, alle ore 9,45 era stato già distrutto con la conseguenza che i trasporti dovettero essere effettuati, come all’inizio dell’offensiva, per mezzo di barche che furono, a loro volta,  attaccate a più riprese dagli aerei e dal continuo fuoco dell’artiglieria italiana. Il comando austriaco aveva inoltre commesso un fondamentale primo errore di valutazione, tralasciando di pianificare i tempi e i metodi delle operazioni che avrebbero fatto seguito al primo  attraversamento  del Piave.

E questo perché non era stata tenuta in considerazione la vitale importanza di un valido supporto logistico, in termini di  artiglierie, di servizi e di tutto il materiale occorrente per permettere l’allargamento della zona territoriale appena conquistata e per garantire una vigorosa prosecuzione della lotta contro una resistenza, che sarebbe stato  saggio e prudente prevedere tenace ed attiva.

Già! Secondo le  previsioni, indubbiamente  ottimistiche, del comando supremo A.U., le truppe dell’armata dell’Isonzo, avrebbero dovuto raggiungere Treviso nel primo pomeriggio  del giorno 15, non immaginando, minimamente invece, chealla sera di quello stesso giorno l’imperatore Carlo avrebbe telegrafato a Boroevic per comunicargli che l’avanzata della 11° armata di Conrad era fallita e che per tanto occorreva concentrare tutti gli sforzi sulle posizioni raggiunte per facilitare, in tal modo, all’armata dell’Isonzo l’attraversamento del Piave.

Il primo passaggio delle truppe sarebbe stato effettuato con barche e pontoni, ma subito a seguire questi primi contingenti di assalitori, alcune passerelle stabili avrebbero dovuto permettere il transito della maggior parte delle truppe di rinforzo, dei rifornimenti, necessari ad alimentare lo sforzo bellico degli attaccanti, e delle colonne dei prigionieri italiani.

Naturalmente sarebbe stato consigliabile consegnare ai soldati delle prime ondate una quantità di cartucce e di bombe a mano notevolmente superiore alla dotazione normale, oltre a un’adeguata scorta di viveri.

Quanto ai criteri di scelta dei settori d’irruzione, la configurazione del corso del Piave con le sue numerose e profonde anse era stata studiata a fondo per una scelta oculata dei settori  sulla sponda destra ritenuti  più favorevoli all’irruzione.

E cioè: dove le fanterie attaccanti avrebbero potuto portarsi quanto più vicino possibile alle posizioni  da attaccare e dove, sulla sponda sinistra, la folta vegetazione avrebbe reso difficile la vista degli apprestamenti per l’attacco e quindi l’efficacia dei tiri della  contro preparazione italiana.

Gli orari  per gli imbarchi ed i tempi dei traghettamenti erano stati studiati  con una perfetta sincronia dei movimenti della fanteria, dell’artiglieria e dei genieri, in un’alternanza di attacchi frontali, di manovre di aggiramento e di azioni a tenaglia. Secondo le aspettative degli austriaci, che avevano fatto del loro meglio per  studiare quell’offensiva nei minimi particolari, il successo avrebbe arriso alle loro bandiere.Il Capo di Stato Maggiore dell’ imperiale regio esercito Arthur Albert von Straussenburg aveva comunicato al maresciallo Paul Ludwig Hindenburg, capo di S.M. dell’ esercito imperiale tedesco, la sua intenzione di annientare militarmente l’Italia. Aveva, però,  commesso  un’enorme sbaglio   nel sottovalutare la formidabile

organizzazione logistica del Regio Esercito e la sua reazione  che, in poco tempo, avrebbe impedito alle sue truppe scelte di tenere il fronte, costringendole, dopo averle sottoposte a continua pressione con ripetuti contrattacchi, a  indietreggiare sino al punto  di convincere,  alle 19.08 di giovedì 20 giugno, l’imperatore Carlo a inviare  al comando del gruppo di armate di Boroevic l’ordine tanto atteso:

 

Le truppe del Gruppo vengano ritirate e portate sulla sponda sinistra del Piave”.

 

Carlo d’Asburgo, a titolo di presente  per la vittoria dei suoi eserciti avrebbe dovuto  ricevere il bastone da Maresciallo.

Alcuni anni dopo la fine della guerra, nel suo esilio a Madera, colui che fu l’ultimo imperatore asburgico, avrà forse rimuginato a lungo sulle proprie gravissime colpe, tra le quali quella di essersi  lasciato convincere a concedere  la sua approvazione  a quell’ ultimo   scellerato dispendio di vite umane e di risorse economiche.

Quel consenso così inutile e irresponsabile avrebbe contribuito ad aggravare ancor di più le già  critiche condizioni socio economiche della stessa Austria, dell’Italia e dell’intera Europa.

Ma è probabile che certi tracotanti e ostinati strateghi del suo  esercito imperiale avessero, invece, come al solito, attribuito ancora una volta le colpe di quell’inutile macello all’Italia fedifraga.

Il nemico, l’austriaco, libero ormai da ogni altra preoccupazioni in altri fronti, aveva concentrato tutte le sue truppe contro l’Italia con intenzione di  attaccare contemporaneamente la fronte montana e quella del Piave.

Lungo il corso del Piave e più precisamente nel settore meridionale, le colonne austro ungariche, una volta superato il sacro fiume, avrebbero dovuto avanzare scavalcando agevolmente le linee difensive italiane sino a raggiungere le tanto agognate città di Treviso e di Venezia.

Ma ahi loro! Ancora non sapevano che ad arginare il loro pericoloso sfondamento, sarebbe intervenuta  la 33° divisione, della quale faceva parte la Brigata “Sassari”, la Brigata dalle mostrine bianche e rosse, dai colori della fede e della passione, la gloriosa Brigata che già per le sue eroiche gesta aveva guadagnato due  medaglie d’Oro al valore militare ed era comparsa per ben tre volte nei Bollettini di Guerra.

La Brigata Sassari dopo la vittoria conseguita nella battaglia dei Tre Monti era rimasta a Vicenza fino alla fine di marzo per poi trasferirsi nei dintorni di Padova dove aveva partecipato a numerose esercitazioni in attesa di ordini.

IL 23 marzo 1918,laBrigata si era spostata a San Giorgio in Bosco. Ventisette chilometri di marcia.

Il 27 marzo 1918,dopo altri venti chilometri di marcia con tappe a Busiago,Marsango, S. Andrea, Curtarolo, S. Maria di Non, Tavo e presso un ponte di barche sul Brenta, la brigata era arrivata ad Altichiero, tra Vigodarzere e Padova.

Il 5 aprile 1918,il 151° si trasferiva a Montà e il 152° a Chiesanuova, ad ovest  diPadova, dove parteciparono a numerose esercitazioni in attesa di ordini, mentre gli ufficiali si recavano in continuazione a visitare le linee sugli altipiani e lungo il Piave per sopralluoghi sui possibili terreni dove la Brigata avrebbe potuto essere coinvolta in futuri impegni operativi.A Tre Ponti e a Villa del Vescovo la Brigata era stata rimessa in efficienza, dopo l’arrivo dalla Sardegna di altri giovanissimi “ragazzi del 99”.

Per quasi tutti fu quella una buona occasione di ritrovare qualche parente o conoscente anziano. Ai più  erano ormai note le gloriose vicende della Brigata.

L’11 maggio 1918, la Brigatasi trovava a Monte Grande per manovre combinate con artiglierie e aeroplani che si svolsero alla presenza di S. M. il re.

Il 18 maggio 1918, il 151°  ritornava a Montà e il 152° a Chiesanuova.

Il 26 maggio 1918.  Gli austriaci effettuavano un intenso  bombardamento su Caposile, nel Basso Piave.

Il1 giugno 1918Alcuni ufficiali della Brigata Sassari compirono una missione di ricognizione a Pralungo tra Monastier e Fossalta nel Basso Piave. Il giorno dopo la Brigata fu trasferita a Vigonza da dove raggiunse Salzano e alcuni giorni dopo Carpenedo nei dintorni di Mestre.

Mercoledì 12 giugnoAlcune disposizioni per il bottino

Servizio di requisizione, di ricerca, d’accentramento:  Per quanto attiene le acquisizioni forzate di prede e bottino di qualsiasi natura da parte delle truppe austroungariche, nulla era stato affidato al caso.

“ I reparti di requisizione siano costituiti per il giorno 12 corrente ed assegnati ai comandi di battaglione”.

Alle ore 9 del 13 corrente tutti gli ufficiali di battaglione addetti alle requisizioni ed all’accentramento, come pure i sottoufficiali, si troveranno al comando dei reggimenti dove un ufficiale reggimentale addetto all’accentramento assieme all’ufficiale del vettovagliamento impartiranno disposizioni precise, in base alle quali verrà istruita la truppa. Si osservi il principio che la truppa beva e mangi abbondantemente, ma non devasti.

Ricordiamo gli spettacoli ripugnanti dell’offensiva d’autunno: botti sfondate nelle cantine allagate, buoi e maiali sgozzati dei quali soltanto qualche parte era stata utilizzata, depositi e botteghe svaligiate; pensiamo anche alle nostre famiglie nel paese. Non si devastino le fabbriche e gli impianti. Non si calpestino a bella posta i campi e non si falcino per fare giacigli”.

Arnaldo Fraccaroli scrisse:

“ Il colonnello Volang, comandante del 56°  Reggimento Fanteria, si è fatto fare,  in previsione dell’offensiva, quattro grandi bauli per mettervi dentro tutte le deliziose cose che avrebbe trovato in Italia.

 Siccome, non pare poi un egoista, aveva consigliato ai suoi soldati di munirsi di un tascapane ampio e di tenerlo vuoto per poterlo abbondantemente riempire.

Gli ufficiali avevano indosso anche degli ordini  precisi come un orario ferroviario. Quello della 70° divisione Honwed sul Piave stabiliva:

Prima giornata ore 7.30 prima irruzione, ore 10.30 raggiungimento della linea Piave – Sella nord di Treviso. Ore 11 occupazione della linea Meolo – Casanova.

Ore 14 occupazione di sorpresa della linea di Pero.

E’ noto che la sera della prima giornata era  in programma di arrivare a Treviso.

Un ordine trasmesso dal comando della Isonzo Armee ricordava agli ufficiali: Dopo lo sfondamento delle prime linee nemiche è inopportuna  qualsiasi eccessiva cautela nell’avanzare”.

In un documento emanato dalla XIV divisione austroungarica venivano però impartite le seguenti istruzioni:

“Provviste di vino, di viveri ecc. che si rinvenissero nell’ulteriore corso dell’avanzata non siano distrutti senza scopo. Rimpinzarsi sì, ma non sciupare e non ubriacarsi. Appropriatevi, per uso personale, di uniformi, di biancheria ecc; quello che non vi abbisogna, raccoglierlo in depositi per essere spedito alle nostre famiglie che ne hanno tanto bisogno.  In base alle disposizioni del comando della “Isonzo Armee” ogni uomo riceverà viveri, tessuti, cuoio e sapone per se e per i suoi cari da portarsi a casa”.

In un altro documento trovato nelle tasche di un ufficiale prigioniero si leggeva:

“Non distruggete nulla, conservate tutto, raccogliete ogni cosa”.

Sono state prese tutte le misure affinché vi si riservasse una parte del bottino, in modo che siano alleviate ai vostri parenti le privazioni imposte dai tempi tristi che attraversiamo. Non sparate nelle botti di vino non sventrate i sacchi di farina e di riso e d’altre provviste.  Conservate specialmente tutti i generi, che sono scarsi nel nostro paese, siano essi derrate, articoli tecnici ed altro.

Chi non a cura di conservare la roba e di usarla con parsimonia danneggia la sua patria, la sua famiglia, se stesso”.

Quell’offensiva, però,  avrebbesuscitato incertezze  tra  gli stessi avversari.

 “Ormai l’offensiva è una cosa certa. 

Gigantesche quantità di munizioni sono trasportate in avanti dalle ferrovie e durante la notte risuona il fragore delle colonne di autocarri e di carriaggi. 

Montagne di proiettili s’innalzano all’aperto, mascherate soltanto con rami d’albero, poiché è impossibile costruire dei magazzini e dei depositi.

Ciò nonostante, siamo tristi e scoraggiati.

Un offensiva,  alla quale nessuno crede, su i cui piani il nostro comando discute ormai da mesi e nei cui riguardi le persone responsabili hanno perduto ogni speranza, prima ancora che venga sparato il primo colpo.

Un avvenimento d’importanza storica, senza anima,  se così si può dire, senza quella volontà di distruzione  che soltanto potrebbe giustificarlo. I risultati corrisponderanno ai pronostici?”.

Da  “La fine di un esercito Tappe della disfatta” di Weber Fritz.

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Un commento

  1. Ripudiamo la guerra ,quella conclusasi cent’anni fa con una terribile carneficina che costó la vita a 13 mila sardi tra i 18 e i 25 anni e quelle odierne in Iraq, Afghanistan e Libia altrimenti dette “missioni all’estero” ovvero “operazioni di polizia internazionale”.

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