NEI RITI DEL CARNEVALE SARDO LA STORIA DI LUOGHI E PERSONE: IL REGISTA GIANLORENZO ATTENE AL CIRCOLO SARDO DI MILANO CON IL SUO DOCUMENTARIO

ph: Giovanni Cervo e Gianlorenzo Attene

di Sergio Portas

In virtù del loro celebre vescovo i milanesi celebrano il carnevale ambrosiano allungandolo di quattro giorni rispetto a quello dell’Italia tutta, romana per definizione, addirittura schiava per inno nazionale, “carnevalone” si chiamava una volta,  in tempi di controriforma il cardinal Borromeo, uomo di grande frugalità e naturalmente portato alla penitenza, cercò invano di riformare la diocesi ( una delle più grandi del mondo) al resto del paese, i suoi fedeli non ne vollero sapere. Così che già da ora anche nei circoli sardi lombardi si programmano iniziative volte a richiamare una tradizione da sempre fortemente sentita in Sardegna. Il circolo di Milano ha invitato il regista Gianlorenzo Attene a presentare un suo documentario, “La resurrezione della Madre”, incentrato su due modi differenti di vivere il carnevale in Sardegna, quello più celebre di Oristano con la sua Sartiglia, e quello che si celebra ad Ovodda, paesino della Barbaga di Ollolai di poco più di milleseicento anime. Il regista è recidivo, che già un paio d’anni fa si cimentò in un analogo progetto, quella volta con un paio di suoi giovani amici (lui stesso è oggi ventottenne) muniti di telecamere, erano stati a Bosa, ne venne fuori un “corto” titolato: “L’urlo del Carnevale” (su You Tube il “trailer”). Dice candidamente Attene, con un accento romano che neanche Alberto Sordi: “Che nunc’iaveveno capito gniente”. Nonostante un babbo di Cuglieri Gianlorenzo è romano de Roma, i suoi amici pure, catapultatisi in quel di Bosa si sono trovati nel mezzo di una folla nerovestita, le facce dei presenti tinte col sughero bruciato, le Attittadoras che piangono la morte di Gioldzi (il re Giorgio simbolo del Carnevale, di solito un fantoccio di stracci) portando in braccio o su una carriola un bambolotto, spesso smembrato, e chiedendo alle donne del pubblico “unu tikkirigheddu de latte” (un goccio di latte) per il neonato, cercando di palparne il seno. Lanciando contemporaneamente alti lai, i più sguaiati possibile, sì che tutto il paese risuona di questi lamenti. Il tutto ovviamente condito da un fiume di Girò che viene offerto con fave bollite, nell’inutile tentativo di abbassare il tasso alcolico che tocca subito valori importanti, anche perché a Bosa, per il carnevale, un calice di Malvasia non lo si nega davvero a nessuno. Questo durante il giorno. Al calar del sole, sparite le Attittadoras nere, compaiono solo maschere vestite di bianco, in testa un candido cappuccio, ovvero le anime del Carnevale che sta finendo: “Ahò sembreveno quelli der Klu Klus Klan”, tengono in mano un cestino di vimini contenete una candela, corrono per le vie del paese in cerca di Gioldzi e, quando lo trovano, gli danno fuoco. Per tentare di capirci di più, Gianlorenzo ci dice che prima di girare il nuovo documentario ha avuto la buona idea di contattare un qualche esperto, un professore, un antropologo, a cui  confessare la sua ignoranza, e questo suo candore ha impietosito l’animo di un intellettuale che purtroppo ci ha lasciato giusto un anno fa, era il dodici di gennaio 2017 che Giulio Angioni se ne è andato a 78 anni per una malattia fulminante. “ Voce, la sua, scrive Costantino Cossu sul “Manifesto”del 4 febbraio 2017, inconfondibile come quella di qualsiasi scrittore vero. Quel suo italiano che avvolgeva luoghi e persone in lunghe spirali di parole mosse sempre da un «ma», da un «forse»: dal dubbio. Leggevi e capivi subito che era la sua lingua, solo la sua lingua. Esattamente il contrario di quanto avviene con le legioni di scrittori falsi in circolazione, uniformati ai codici espressivi standard, quelli che piacciono agli editor, i codici che ti fanno vendere. Con A fuoco dentro, pubblicato nel 1978 da una piccola casa editrice sassarese, la Edes, nel 1978, Angioni è stato, insieme con Salvatore Satta e con Salvatore Mannuzzu, tra i primi di una lunga teoria di scrittori sardi (da Sergio Atzeni a Giorgio Todde, da Marcello Fois a Michela Murgia, da Flavio Soriga ad Alberto Capitta) che hanno spezzato le catene del folklore. Tra i primi, cioè, a raccontare l’isola non come dall’esterno ci si aspettava che venisse raccontata (spesso, come si sa, è esattamente questo ciò che accade a chi è stato ridotto ai margini della Storia), ma come effettivamente la Sardegna era ed è. L’oro di Fraus (Editori Riuniti), Il sale sulla ferita (Marsilio), Una ignota compagnia (Feltrinelli), Il mare intorno (Sellerio), Assandìra (Sellerio), Le fiamme di Toledo (Sellerio), Gabbiani sul carso (Sellerio) sono alcune delle tappe di un percorso in cui il trauma del passaggio da una società tradizionale alla contemporaneità viene declinato secondo uno schema, quello della crisi del soggetto, che gli esiti estremi della modernità (pigramente ci ostiniamo a chiamarli postmodernità) non hanno potuto, alla fine, che riproporre”. A lui Gianlorenzo Attene ha dedicato questo suo lavoro: “I riti, ci dice, nascono nel neolitico, l’inverno avrebbe potuto non finire mai, da qui il tentativo per l’uomo pre-istorico di rivolgere un appello a quella natura che percepiva folle, sessuale, esagerata. I riti degli altri paesi non sono così diversi, vedi gli scritti di Renè Girard, celebre antropologo francese. Il “Don Conte” di Ovodda vale ogni traduzione. Va visto con occhio poetico. Aiuta a porsi delle domande, accende la fiamma delle curiosità”. Scorrono sullo schermo le figure dei tre ragazzi romani, poi è Tharros che si affaccia sul mare del Sinis, ricca di vestigia antiche, e quante sono le sue pietre servite a costruire la città nuova: Oristano, dice la leggenda fondata sullo “stagno d’oro”. Il suo Carnevale è tra i più celebri di Sardegna: la Sartiglia. E’ corsa di cavalli bardati a rosette di mille colori, i cavalieri sontuosamente abbigliati. Si corre “alla stella” con una spada sguainata che la infilzi nel minuscolo foro centrale. Poi saranno le Pariglie di tre cavalieri a esibirsi in un galoppo sfrenato in cui i fantini si lanciano in acrobazie temerarie. Chiedono i ragazzi ai cavalieri vestiti di velluto nero: “Paura?”. “Un minimo di paura c’è sempre…tensione”. E la mamma di un ragazzo che si esibirà nelle Pariglie pomeridiane: “Quando mio figlio corre io non lo guardo, non voglio vederlo, aspetto che mi telefonino i fratelli che tutto è andato bene. Eppure sono orgogliosa di lui, so che si è preparato tutta la vita a questo cimento, come pure i suoi fratelli”. Sullo schermo la vestizione dei cavalieri, il grano beneaugurante contenuto in un piatto   che gli si butta dietro quando il cavallo parte per il cimento, ed allora il piatto si scaglia in terra e che si rompa, ne va della fortuna. Cavalieri da tutta la Sardegna con costumi diversi. Ogni stella centrata è segnale di resurrezione, ogni mancata è morte, recita la voce narrante. E poi le pariglie, tre cavalli in cinque passi, acrobazie su destrieri al galoppo, in piedi sulle selle. Oggi pioviggina, ombrelli aperti, la strada ancora più scivolosa.

I tre ragazzi continuano il viaggio, arrivano ad Ovodda il giorno prima del Carnevale che qui, eccezionalmente si festeggia il mercoledì delle Ceneri. Bene accolti dai ragazzi del paese che si dicono poco amanti delle regole scritte. I bicchieri di (orrida) plastica sempre mezzo pieni. Si canta in “su tzilleri”, e ogni casa è aperta e offre dolci, salsiccia…e vino. E dappertutto è obbligo bere. In questo carnevale non ci sono regole, prima “uscivano” solo gli uomini, ora ci sono tutti: il viso interamente coperto da uno strato di nerofumo che lascia scoperti solo gli occhi, ognuno si veste come vuole. Secondo la vulgata Ovodda è stato l’ultimo paese a convertirsi al cristianesimo. Nelle stanze dei pastori girano i caproni e le pecore, un ragazzo si mette a ragliare come un asino, inquietante. Ci si arma di campanacci e si salta, unica verità certa: il Caos. Dice il parroco del paese: “Vorrebbero che partecipassi anche io, dipinto di nero, ma non ci penso proprio”. Il sindaco , anzi la sindaca, sarà in strada come tutti, anzi lei sospetta che è proprio al Carnevale che i suoi concittadini scelgono il prossimo sindaco. Non ci sono ordinanze, né vigili e polizia per strada. L’ultimo ladro sorpreso a rubacchiare nelle macchine in sosta è stato accompagnato alle porte del paese con un calcio nel sedere…e gli hanno bruciato la macchina. Sono sicuri che non si farà più vedere. Si sparla di Don Conte, il pupazzo di cartapesta re del Carnevale, si sentono i cori degli avvinazzati: “Oh Don Conte brucia con noi!”. “Oggi deve morire e pagherà per i crimini di tutti”. C’è un cartello che indica la sede di un “Movimento 5 Stalle”, che tanto i politici non sanno fare niente…dice un ubriaco perso.

Fino a sera si balla e si beve, si canta e si suonano ogni tipo di strumento musicale, un tizio balla con una pecora più grossa di lui: “Vorrei la pelle nera!”. E per una notte l’abbiamo veramente. A notte si dà fuoco a Don Conte, e poi lo butta bruciante da una scarpata, fuori paese, facendolo seguire da ogni cosa la fantasia della gente possa immaginare. Il tutto condito da urla e corpi in agitazione alcolica. L’indomani mattina la ramazza di uno spazzino raccoglie bicchieri di plastica e spazzatura varia in una strada bagnata dalla pioggia, il puzzo di bruciato accresce una sensazione di vuoto che si riverbera sui visi dei tre ragazzi romani. E’ ora di tornare a casa. Che dire di questi sardi? Ha scritto Luciano Marroccu, storico e collega di Giulio Angioni all’università di Cagliari: “…ci ha insegnato, che l’essere sardi è certo un’emozione, ma è un’emozione le cui ragioni vanno comprese a fondo se vogliamo viverla in modo non conflittuale e inconcludente. Ma tutto questo non potrebbe essere detto meglio di come l’ha detto Giulio: “Noi sardi abbiamo il problema del nostro posto al mondo, come molti altri, certo, ma l’abbiamo. A me pare che l’abbiamo di più. Io comunque di essere sardo continuo sia a vergognarmi che a essere orgoglioso, sia a sentirmene fortunato che a sentirmene diminuito. Forse, in quanto sardo, riesco anche a sentirmi senza troppe difficoltà, oggi, parte del mondo che diciamo occidentale, e questo è già un bel problema identitario nel mondo di oggi visto come un tutto, qui a due passi dall’Africa simbolo europeo moderno di ogni arretratezza”.

 

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