LE NOSTRE STORIE CI GUARDANO: IL REGISTA SERGIO NAITZA AL CENTRO SOCIALE CULTURALE SARDO DI MILANO

Sergio Naitza e Giovanni Cervo


di Sergio Portas

L’età media degli iscritti ai circoli sardi sparsi nel mondo ricalca il trend demografico che inesorabilmente si è instaurato nell’isola: sempre più anziani che vanno scalando le vette che li iscriveranno al club dei centenari, pure in aumento di numeri, sempre meno giovani nei paesi dell’interno e non solo. Cosicché il film-documentario che Sergio Naitza ha presentato al circolo sardo di Milano sabato 16 settembre: Le nostre storie ci riguardano, ha creato nel pubblico presente una particolare atmosfera di struggimento, ché quasi tutti i presenti hanno visto, nelle immagini in scarno bianco e nero che scorrevano sullo schermo, nient’altro che scorci della loro vita passata. Mentre i presidente del circolo Giovanni Cervo faceva serrati tentativi perché il video-registratore abbandonasse una comoda posizione di stand-bay, Naitza ci ha raccontato come fosse nata l’idea di scartabellare i materiali filmici della sede Rai di Cagliari, c’è ne è per 120 ore, per arrivare a questi 90 minuti di filmato. Una sorta di  ultimo lascito di Romano Cannas che ha diretto Rai Sardegna dal 2003 al 2013, un impegno che Sergio dice di aver incautamente accettato e che lo ha impegnato per due mesi e mezzo di superlavoro, perché i tempi previsti venissero rispettati. Naitza è grande professionista, giornalista all’Unione Sarda da più di quarant’anni (in pensione, mi dice, da questo gennaio) nasce a Nuoro nel ’56, per l’Unione è il critico cinematografico per antonomasia, ha ideato e curato le collane Sardegna cinema e registi di Sardegna che ha visto uscire la bellezza di 25 Vhs e 12 DvD. Per Rai Sardegna ha ideato e condotto sessanta puntate di trasmissione a titolo: Schermi sardi. Va nelle scuole a tenere corsi di alfabetizzazione cinematografica, da sei anni è direttore artistico del festival Lagunamovies di Grado. Suo il lavoro di restauro del film La Grazia (1929) di Aldo De Benedetti tratto da una novella della sua celebre compaesana Grazia Deledda. E poi numerose monografie su attori famosi e la regia di film nei quali la Sardegna è spesso protagonista, ma non solo, su Rai 5, proprio nei giorni 16 e 17 settembre viene trasmesso il suo “ L’isola di Medea”, Callas e Pasolini, un incontro di anime fragili. Un intellettuale a tutto tondo , di quelli in grado di avere uno sguardo attento e critico alle cose di Sardegna, prezioso per chi volesse districarsi tra la travagliata storia dell’isola, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. Lì, a suo parere, si è determinata la cesura che ha portato nella modernità un paese che, sostanzialmente, era rimasto immobile, in uno stato di povertà inimmaginabile per gli standard di vita odierni, per centinaia di anni. Il documentario si ferma agli anni ’70, quando i gol di Gigi Riva riuscirono miracolosamente ad occupare le prime pagine dei giornali nazionali, usi normalmente a dare spazio alle cose di Sardegna esclusivamente per rapine e sequestri di persone. Lo scudetto del Cagliari, tutta l’isola si tinge di rosso-blu. Naitza si inventa di un nipote che ritrova la corrispondenza di due suoi zii nel cassetto tarlato di una vecchia casa, Antonia che rimane nel paese natio e Gonario che va a Cagliari a cercare lavoro, sono le loro voci che intercalano il filmato, le musiche di Romeo Scaccia gli conferiscono una compattezza narrativa particolare, mutano di sonorità al mutare delle situazioni filmiche, a questo proposito il regista ha risposto a Salvatore Pinna che l’intervistava per “cinemecum”: “…La musica era necessaria per sottolineare che in fondo si stava raccontando un’epopea, una saga, quindi servivano un carattere e una matrice classici. Romeo Scaccia, che appunto una formazione classica, ha trovato le sonorità ora gloriose con dispiegamento di orchestra ora delicate e cupe con l’uso del piano solo, mentre altri passaggi con suoni e musiche d’atmosfera sono state curate da Davide Melis che oltre al montaggio firma il “sound disegn” del documentario.”

Cibo, legna per il fuoco, lana da filare, è quanto basta e occorre per vivere, sopravvivere, nei paesi sardi dei primi anni cinquanta. Aratri tirati da buoi su terreni pieni di sassi, donne vestite di nero, “su muccadori in conca”, che diventano regine ricche di spille e bottoni d’argento, in occasione delle feste scandite dal calendario della chiesa cattolica, cavalli in corsa incontrollata per santu Antine e la Sartiglia, bimbi scalzi coi vestiti rattoppati che sciamano per vicoli non asfaltati, i più piccoli a culo nudo, l’eterna fila per riempire le brocche dell’acqua alla fontanella della piazza. Niente acqua corrente nelle povere case, niente servizi igienici, si va a scuola e contemporaneamente si curano le pecore al pascolo. “Lei è pastore? No, sono servo, le pecore non sono mie. E quanto guadagna? Poco, undici pecore all’anno”. Questi sono quelli che rimangono al paese. Gonario se ne va a Cagliari che cinque anni dopo i bombardamenti che l’hanno semidistrutta è in pieno boom edilizio. C’è lavoro per tutti, si prende uno stipendio che ti permette di sognare i negozi di via Roma, dove, Antonia cara, c’è proprio di tutto, il cibo arriva dalle navi al porto a cassette intere, pomodori e patate, qui non coltiva nessuno, vendono solamente, e fanno un sacco di soldi. Per guadagnare di più c’è chi va  a Carbonia, la Carbosulcis occupa 7.000 persone a tirare fuori il carbone dalle miniere, e ti danno la casa e l’assistenza medica, una roba mai vista. E dove spicca il volo il primo razzo-missile che lascia il suolo italiano? Ma a Perdasdefogu naturalmente, e che schieramento di uomini in armi e cannoni per le esercitazioni Nato! Si parla di un piano di rinascita, un sardo, Antonio Segni, è presidente della Repubblica, chissà cosa non farà per favorire la sua terra. Sul Flumendosa si sta costruendo una diga portentosa, finalmente ci sarà acqua per tutto il territorio circostante. E questo ragazzino, Aga Khan si chiama, è venuto su una barca di dodici metri a veder un suo terreno che aveva acquistato senza neppure sapere bene dove fosse ubicato, si è innamorato di tutta la costa e ha intenzione di comprarsela per attrezzarla a turismo di lusso. Il mare qui sembra davvero di smeraldo. I primi vendono a quattrocentomilalire pezzi di spiagge che nessuno ha mai sentito nominare, Cala di Volpe, Romazzino, Liscia Ruja, tutto terreno che di solito andava in eredità delle figlie femmine: non era coltivabile. Ma chi arriva a prendere 90 milioni si compra anche quattro vestiti, e va a vivere in albergo, riverito e servito di tutto. E pensa di comprarsi un’automobile. Peccato che gli alberghi venuti su in Costa Smeralda in autunno e inverno siano pressoché deserti, qui non nasce e non muore nessuno. A Cabras finalmente tutti, o quasi, possono pescare in laguna, sui “fassonis” di canne intrecciate naturalmente. Tale Rovelli dice di voler portare la chimica nella piana di Ottana. E anche a Porto Torres. Nel Sulcis purtroppo l’apertura alla Ceca (Comunità per il carbone e l’acciaio) ha messo il carbone sardo in concorrenza con quello meno inquinato da zolfo degli altri paesi che vi aderiscono. Da un giorno all’altro sono più di tremila che perdono il posto di lavoro. E molti di loro emigrano nelle miniere del Belgio e della Francia, i più fortunati trovano lavoro nelle fabbriche tedesche, in quelle milanesi e torinesi. Nessuno di loro ha visto i benefici del piano di rinascita. Nei paesi comunque arrivano lavatrici e televisioni, e persino il gas nelle cucine, difficile da usare per le nonnine con i fazzoletti in testa, qualche ragazza, spudorata, mette gonne al ginocchio sotto il costume regolamentare. E qualcuna, accompagnata naturalmente, va anche a ballare. Balli scatenati che si chiamano “twist” o roba del genere. Ci sono fin complessini di sardi che suonano e cantano, in italiano, tali Bertas. I pastori, che prima stavano via da casa per settimane, si comprano motociclette che permettono loro di tornare a casa la sera. Tanto i servi rimangono la notte a guardia del gregge. I servi non si possono comperare niente, ancora. Se non ci fossero tutti quei banditi che vanno sequestrando a destra e a manca magari i giornali italiani non sparlerebbero tutti i giorni della Sardegna. E quanti militari sul Supramonte. A Graziano Mesina però lo hanno acchiappato, nelle campagne di Orgosolo, dice ai latitanti che gli conviene cambiare mestiere. Poi c’è lo scudetto e tutta l’isola impazza. Ciliegina sulla torta di una acquisita modernità, dice Naitza che tutto il racconto è stato ricostruito al montaggio. Prima erano le immagini e poi è venuto il testo. Non ha intenzione di dare giudizi di valore su quello che è accaduto in Sardegna in quell’arco di vent’anni, cita a questo proposito una poesia di Philip Larkin, uno dei più importanti poeti inglesi del novecento: “Guarda indietro i tuoi anni caduti come fasce bianche, perché ogni tanto dobbiamo voltarci per sapere che orme lasciamo: se impronte di uomo o le precise palme piatte di una gallina”.

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