IL CANTO DELLA TERRA, LA NOSTALGIA DI VOCI ANTICHE: “FIZA DE PASTORE”, IL LIBRO DI POESIE DI GIUSEPPINA NIEDDU


di Lucia Becchere

È in “sardu-nugoresu” l’ultima raccolta in versi di Pipina Frantzisca Nieddu intitolata Fiza de pastore edizione Papiros – Nuoro, che raccoglie 61 poesie tradotte anche in italiano.

Giuseppina Nieddu nasce a Nuoro da un’antica famiglia benestante d’estrazione agropastorale, dopo il liceo si trasferisce a Pisa, consegue la laurea in Lingue e Letterature straniere e insegna materie letterarie in diverse scuole. Attualmente risiede a San Giuliano Terme in Toscana ma si sente cittadina del mondo. Impegnata nel sociale ama viaggiare e scrivere, da diversi anni conduce il Laboratorio di poesia “La Porta Aperta” a Frascati, Marino e Vermicino.

La raccolta Fiza de pastore dedicata «A sos de domo mea e a sos mannos nostros», lascia trasparire una rinnovata maturità interiore dell’autrice nel rivisitare i ricordi (“sos ammentos”) che evocano emozioni e nostalgie, lutti e sofferenze ma anche gioie e speranze perché ogni alba offre un nuovo giorno e «su sole beneitu» illumina e riscalda la terra.

Il filo conduttore delle sue poesie è l’amore che muove ogni cosa e genera vita, bandisce l’invidia e il rancore, il tormento e l’odio. L’amore per la sua terra e la sua gente, per gli ultimi e i sofferenti, per gli invisibili e i bisognosi, sorretto dalla fede permea il suo verso, anima i suoi pensieri e i suoi progetti sempre condivisi con la persona speciale che le sta accanto, il suo sposo Fabrizio.

La natura fa da sfondo alla sua poesia sprigionando immagini, sogni e contatti d’amore. La campagna si fa tempio popolato da simboli dentro cui si muove il pastore, dove le pietre simboleggiano la pace perché vivono nei muri dei tancati scongiurando “disamistades”, i silenzi si animano e insegnano, le acque delle sorgenti sanno di fatica e vanno gustate fino all’ultima goccia. Il vento assurge a voce interiore che risveglia le coscienze, alimenta e nutre la fantasia.

Simboli che affollano luoghi e persone evocando storie: lo scialle nero, simbolo di lutto e di dolore, riscalda le spalle e si spiega come un velo da sposa.

La figura del padre che custodisce il gregge penetrando i misteri della notte rivive sublimata, fonte di sapere nel silenzio dei gesti. «Pastore e babbu», potenza evocativa di ricordi e di affetti. Ieri bambino maturato col sudore della fatica nella tanca di “Fenole”, oggi custode del gregge e della famiglia.

Anche la figura materna si fa simbolo e s’identifica con la terra che accoglie e nutre, tenera e struggente, talvolta avara ma pur sempre madre. Sono versi di grande risonanza emotiva che riportano a modelli d’interazione fra genitori e figli, fra nonni e nipoti e non solo, il cui rapporto si fortifica con la lontananza per evolvere in un attaccamento affettivo armonico permeato di nostalgia e di bellezza quando l’anima grata nobilita ogni cosa. Riaffiora tenero il ricordo del suo primo innamoramento fra i banchi di scuola «…in secretu innamorada / de unu companzu

 de iscola…» ( Istafeta).

Poesia dunque individuale, familiare e collettiva di chi guarda alla vita con amore e con fede ma anche con l’incanto e la fantasia di bambina che si stupisce dinanzi a lucertole e scarabei, ad un battito d’ali, al sorriso di un fiore per perdersi rapita fra danze e canti innocenti.

È la voce della mamma che la riporta alla sua infanzia, il dolore del giovane fratello perduto anzitempo accompagna il suo sguardo affettuoso e la sua cristiana accettazione della volontà del divino perché nulla avviene per caso. È il dolore degli affetti perduti che si porta dentro sublimandone il ricordo e di cui ora ne coglie il soffio, il respiro e le parole che si permeano d’intimo significato.

Lei figlia, ora mamma e sposa riempie gli affetti d’infinita tenerezza, di cristiana armonia e tutto diventa canto e poesia. Poesia serena e matura che s’inchina al creatore che dispensa doni agli uomini sprigionando preghiere e lodi. I suoi versi sono carezze a chi soffre, a chi subisce la devastazione della guerra, a chi patisce la fame e l’abbandono.

Come tutti i poeti sardi Pipina Frantzisca Nieddu non si sottrae al forte richiamo della sua isola, al sole e al mare, al vento che sussurra, ai frutti che colorano, ai rumori che cullano, ai campi che parlano di fatiche e di speranze, agli echi lontani, alle solitudini delle montagne, alle voci antiche di «pastores e babbos» che richiamano le greggi, voci care e familiari che si porta dentro perché «Fiza de pastore».

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