UNA PAGINA DI STORIA DELLA SARDEGNA: GLI AIMERICH E LA RIBELLIONE DEI VASSALLI DI VILLAMAR

stemma aimerich


di Ennio Porceddu

Chi ha sempre creduto che il 1500 la Sardegna sia stata un’isola tranquilla e ordinata, divisioni e competenze riconosciute e rispettate, ha sbagliato di grosso.  Ruberie, soprusi e sconfinamenti da parte dei proprietari terrieri (feudatarie) sono sempre stati all’ordine del giorno.

” La verità – scrive Marcello Lostia – è che niente  e di definito esisteva, neppure Dio né il re, l’uno troppo spesso ignorato, il secondo contestato. Tutto era fluido e alla mercè di tutti”.

La Sardegna veniva fuori da due secoli di lotte e pestilenze, per cui era stata inevitabile la trasmutazione e lo sconquasso che faceva dell’isola, una volta, granaio molto amato da Giacomo II, ora assomigliava sempre più a una pianura incolta. Papa Eugenio IV, sulle condizioni dell’isola verso la metà del XV secolo, rivelava che ” la gente di quell’isola, afflitta da cento anni di vortici di guerra e da altre calamità, ha volto a reprobi sensi la salute sia corporale sia ecclesiastica, la fede cattolica e il culto divino declinano, furti, rapine, incendi, omicidi e altri flagelli mettono a repentaglio l’animo e il prestigio del sovrano, divenendo un detestabile esempio per i più”.

In questa Sardegna voglio inquadrare la famiglia Aimerich che,  ai tempi delle crociate di Spagna, si crede giunti in Sardegna al seguito dei Carroz, che secondo gli storici, non risponda a verità, perchè sarebbero giunti nell’isola nel XIV secolo, che da oltre settant’anni Don Salvatore, era feudatario di Villamar, un paese agricolo  ai confini della Trexenta.  

Il villaggio di Villamar in passato si chiamò Mara Arbarei o Mara Barbaraghesa, che significano entrambi “Mara del giudicato di Arborea” ed era circondato da vaste piane verdeggianti in primavera, bionde d’estate, e scure di terra grassa in autunno Nelle campagne primeggiavano i vigneti, le piante di fichi, da mandorli, da ulivi e abbondanza di grano che dava origine a un feudo molto appettibile.

Don Salvatore Aimerich, a Villamar aveva casa e servi e usava la sua autorità con severità e rigore. Egli era preposto a far rispettare le leggi e da attento amministratore della giustizia, e all’esenzione dei tributi per mezzo di un’intendente e un ufficiale di alto grado. Circa un migliaio di contadini lavoravano la campagna, versando al feudatario le rendite dovute. Il lavoro di queste persone era duro, principalmente, in mancanza dell’acqua necessaria per irrigare i campi. Nonostante tutto, quella terra tanto generosa riusciva a ripagare le fatiche.

I contrasti nacquero nel momento in cui Don Salvatore Aimerich pretendeva, perché dovuti, i diritti di viaggio e di Roadia, il diritto feudale che obbligava, a lavorare per conto del feudatario gratuitamente alla preparazione dei suoi terreni per il seminato o altro, spesso la coltivazione gratuita consisteva nel coltivare vaste estensioni di terreni in uno o più Comuni, mentre di vassalli, con energia, rifiutavano.

Illusi di avere il pieno appoggio del Re Filippo II per la sua nuova politica fosse a favore dei poveri, e aizzati da un certo Antioco Podda, nel 1562, gridarono ai quattro venti di non essere più obbligati a tale Roadia, incrociando le braccia davanti alle pretese del feudatario. Era una ribellione preoccupante anche per la momentanea assenza del Vicerè, che assieme a diversi presuli, si era imbarcato su due galee dirette in Spagna. Quell’assenza fu inadeguata per Don Salvatore Aimerich, perché gli veniva a mancare quell’appoggio che aveva sperato, questo incoraggiò gli abitanti di Villamar a farsi più minacciosi.

In assenza del Vicerè e di una nuova magistratura, la presidenza del regno passò a don Gerolamo d’Aragall, già governatore del Capo di Cagliari e di Gallura, ormai poco energico per la sua età avanzata. Don Salvatore, il 24 novembre 1562, si rivolse a lui per cercare di dipanare questa controversia a suo favore e il governatore emanò un decreto obbligando i vassalli di Villamar a corrispondere i diritti di roadia al signore di Villamar. Solo 170 agricoltori obbedirono temendo rappresaglie dei miliziani. altri sessanta, sempre spalleggiati da Antioco Podda, rifiutarono e si rivolsero a sei giudici per dirimere la vertenza.

Tale controversia andò per le lunghe per circa un anno senza ottenere un risultato. A quel punto don Salvatore inviò Giacomo, su figlio, per cercare un accordo con i giudici, ma in segno di sfacciataggine lo rincorsero, con catture intenzioni fino all’uscio di casa. Il clima era quindi, rovente, per cui don Giacomo dovette chiedere l’appoggio di quattro miliziani a Cavallo per la sua incolumità.

La ribellione dei vassalli, in un paese che aveva sempre contribuito al bene del feudo e a un sicuro rifugio del signore nei momenti di pericolo, si sgretolò. A contribuire al disfacimento del feudo, contribuirono anche la malattia e l’immobilità di don Salvatore.

Il 1563, fu un anno molto difficile. Dopo un inverno mite e asciutto, con l’arrivo delle piogge torrenziali s’ingrossarono i torrenti che allagarono le campagne mettendo in difficoltà gli abitanti di tutto il Campidano e le fragili case di fango. In tal contesto, ci fu una moria di agnelli appena nati e la carestia dilagava.

 Don Salvatore Aimerich, nella sua casa di Castello, con i suoi settant’anni, non poteva fare altro che ascoltare il vento che imperversava impetuoso tra le strade e avvertire un brivido di dolore dopo quella sconfitta subita a Villamar..

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