GIGI RIVA, UN CALCIO AL PALLONE E AL DESTINO. IL RAPPORTO CON L’ISOLA CHE NON E’ MAI FINITO: CAGLIARI E’ CASA SUA

La foto è tratta dal libro “RIVA un’Isola nel pallone” per gentile concessione di Giovanni Gelsomino


di Laura Fois

Una sera passeggiavo lungo via Dante con mio padre. Ad un certo punto si è fermato di colpo, ho alzato il sopracciglio e l’ho visto sorridere, immobile. Ha detto  «buonasera» a Gigi Riva e gli ha stretto la mano, facendogli quasi un inchino. Riconoscente, contento. Riva lo ha ricambiato salutandolo, composto, con un altro sorriso. Lo fa quasi tutte le sere con chiunque lo ferma per un saluto o una foto. Molte volte l’ho visto abbozzare lui stesso un mezzo inchino, perché è lui stesso a sentirsi in debito nei confronti dei sardi che lo hanno accolto, coccolato, amato. A Cagliari tutti conoscono le sue abitudini. Sai dove puoi trovarlo a cena, la mattina lo puoi incrociare in edicola mentre compra il giornale. Occhiali scuri, cappotto lungo, cammina introverso con un’aria indisturbata ma allo stesso tempo pacata ed elegante. Spesso è solo e assorto passeggia con le braccia dietro la schiena. Lo guardano intensamente e pieni di ammirazione sia i piccoli sia i più grandi. Alcuni non lo fermano per riverenza o timidezza, altri semplicemente hanno paura di scocciarlo, ma chiunque appena lo vede gli sorride. Riva è come la luce di Cagliari che illumina volti e lunghi anche quando non c’è il sole. Il rispetto e la quasi venerazione nei confronti di Gigirrivva, così come lo chiamano affettuosamente i suoi concittadini, saranno eterni. Perché Gigi Riva è Cagliari e Cagliari è Gigi Riva e per sempre lo sarà. Nel capoluogo isolano ci arrivò per la prima volta diciottenne per il campionato 1963-64 e da allora non indossò nessun’altra maglia, se non quella della Nazionale, di cui ancora è capocannoniere.

Nonostante si giocasse di meno e con un pallone di cuoio, nonostante i calci e le menate che prendeva senza squalifiche né moviole. Altro calcio, altri tempi, altri giocatori e forse, altri uomini. L’ala sinistra arrivata da Leggiuno, sulle rive del Lago Maggiore al confine con la Svizzera, ha subito incantato l’Amsicora (dove accorreva sugli spalti il 26% delle donne, rispetto a un misero 11% nei campi italiani) e poi il Sant’Elia (“il nostro Olimpico”, ha sempre detto). Con lui il Cagliari e la Sardegna hanno conquistato il primo e tuttora unico scudetto del calcio. Era il 1970, l’anno delle stragi di stato. Nel dicembre del 1969 c’era stata quella di Piazza Fontana, poi il deragliamento del treno a Gioia Tauro e il Golpe Borghese. Nel 1970 erano comparse anche le regioni a statuto ordinario, si istituiva la scuola media obbligatoria con l’obbligo portato a 14 anni e si varava lo Statuto dei Lavoratori. La Sardegna in quegli anni inizia a subire i primi effetti del Piano di Rinascita, istituito nel 1960, che aveva finanziato la nascita dei poli petrolchimici di Porto Torres e Sarroch, e di quello industriale a Ottana a seguito delle indicazioni della Commissione d’inchiesta parlamentare sul banditismo in Sardegna. Si pensava che l’industrializzazione avesse potuto sconfiggere il banditismo. Riva è sempre stato dalla parte dei pastori, dei pescatori, degli agricoltori. I suoi amici provengono da quel mondo. Non è mai stato in Costa Smeralda, che in quei tempi iniziava i suoi fasti e le sue passerelle. È stato, spontaneamente e senza volerlo, portavoce di una resistenza comune a molti sardi. <<Più ci urlavano pastori, banditi, pecorai, più mi sentivo sardo fino al midollo>>, ha rilasciato più volte questa dichiarazione. L’hanno intervistato ripetutamente, ha avuto tante donne (belle, anche famose), è stato osannato e premiato. Ha vinto l’argento ai Mondiali del Messico 1970 e l’oro agli Europei di Italia 1968 e ripetutamente capocannoniere. Negli ultimi anni girano voci che sia stanco, che non abbia più niente da dire, che è malato. Abbiamo provato a contattarlo tramite amici e conoscenti, non ci siamo riusciti ma non abbiamo neanche insistito. Di lui si è scritto tanto, si è detto molto. Non ha neanche mai voluto essere al centro dell’attenzione. Gli son stati offerti incarichi politici, ruoli nei film. Non ha mai voluto che si facesse marketing con la sua persona. In giro non c’è la sua maglietta, eppure la indosserebbero tutti, anche fuori dalla Sardegna. È stato l’icona di un’isola e di più generazioni senza mai mettersi in mostra, tirando calci a un pallone e rialzandosi sempre, scegliendo Cagliari come posto in cui vivere, facendo una vita semplice, con qualche vezzo (il fumo). Nei suoi occhi, che puoi incrociare quasi ogni sera in via Dante, puoi scorgere un pizzico di rammarico misto a nostalgia quasi depressiva. Non ha superato i suoi drammi famigliari, dicono i più informati. L’ha ammesso anche lui in qualche intervista. Speriamo che tutto l’amore e l’affetto che ti hanno dato i sardi abbia a volte affievolito il tuo rimpianto e il tuo dolore, Rombo di Tuono. Si vede quando qualcuno porta un peso. Si nota quando riunisci le mani in tasca o dietro la schiena, e a volte abbassi lo sguardo. Non ti abbiamo mai fatto il terzo grado, ti abbiamo tifato e ci inchiniamo a te ogni volta che ti incontriamo. Perché ti vogliamo bene Giggi Rivva, e adoriamo il calciatore che sei stato e l’uomo che non smette di ispirarci e di farci sentire un po’ più sardi. Un po’ più forti.

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