LA PROCESSIONE DEGLI UOMINI DI CABRAS: CORRONO SCALZI DA 500 ANNI


di Nicola Pinna

A tutti fai la stessa domanda e ognuno dà una risposta diversa. Dice Giovanni Meloni: «Corro perché me l’ha chiesto mio padre poco prima di morire. Mi ha detto “non tradire San Salvatore” e io mantengo la promessa da quasi trent’anni». Alessandro, 35 anni, sognava di indossare la tunica bianca e correre già quando era piccolo: «Osservavo incuriosito il lungo corteo che attraversava le strade polverose del Sinis e immaginavo che prima o poi sarei stato tra quegli uomini scalzi». Mario, invece, racconta di uno strano sogno: «Sì, una notte ho incontrato San Salvatore e mi ha chiesto di venire a correre dietro a lui e ora eccomi qui, nonostante questa processione sia davvero una fatica disumana». Luca, 18 anni appena compiuti, la fa molto più semplice: «Chi è di questo paese non può mancare. Gli uomini ci sono tutti e io non volevo tirarmi indietro». Corrono scalzi da almeno cinquecento anni, gli uomini di Cabras. Nei libri di storia non c’è un capitolo dedicato alle vicende di San Salvatore e dei suoi “curridoris”: questa è una tradizione che si è portata avanti di generazione in generazione, con qualche parentesi che ha le caratteristiche della leggenda. Tutti la chiamano “Corsa degli scalzi” e qualcuno la scambia per una gara podistica: in realtà è una processione, un’usanza esclusivamente religiosa. Tutto inizia ai tempi delle incursioni piratesche nella costa occidentale della Sardegna: navi misteriose, si racconta da queste parti, arrivavano dal Nord Africa e i saraceni che invadevano le campagne e i paesi facevano razzia di tutto. Catturavano gli uomini, sceglievano le donne più belle e si portavano via le ricchezze. Non lontano della spiagge di quarzo, sulle rive dello stagno di Cabras, tra l’antica città di Tharros e la fortezza nuragica di Mont’e Prama, c’era (e c’è ancora) il piccolo villaggio di San Salvatore di Sinis. Al centro, scavato nella roccia, c’è un antichissimo ipogeo: fin dal Neolitico, intorno al pozzo sacro, si praticava il culto delle acque e sulle pareti sono rimaste le tracce scritte lasciate da punici, greci, romani, cristiani e anche quelle degli arabi, con alcuni versetti del Corano. Sopra è stata costruita una chiesetta e tutt’intorno sono sorte piccole casette.  I contadini ci vivevano nel periodo delle messi e proprio in quei giorni, chissà però in quale anno, si trovarono a fronteggiare un nemico inaspettato: i pirati saraceni, sbarcati all’alba per mettere a segno l’ennesima razzia. Gli uomini del posto, agricoltori e pescatori, erano in pochi e senza perdere tempo si misero in fuga per salvare almeno il simulacro di San Salvatore, custodito nella chiesa del villaggio. Corsero via scalzi e per spaventare i predoni si legarono alle caviglie un mazzo di frasche secche. Sollevarono un gran polverone e quelli, spaventati, decisero subito di indietreggiare. Il protettore del Sinis, chissà come, venne presto portato al riparo.  Questa sembra davvero una storia al contrario: un santo salvato dalla gente. Comunque sia, la tradizione della Corsa degli scalzi è iniziata così. Le fotografie in bianco e nero raccontano che neppure durante la guerra gli uomini di Cabras hanno interrotto il vecchio rito. Non erano in molti, certo, ma non sono mancati. Ora sono mille o pochi di meno. All’alba, il primo sabato di ogni settembre, partono da Cabras e vanno verso il borgo, disabitato e silenzioso per tutto l’anno, strapieno di gente e addobbato nel periodo della festa. Indossano un abito bianco e lungo: se lo legano ai fianchi e partono di corsa. Tutti scalzi, portando in spalla la statua del loro protettore per quasi otto chilometri: un tratto lungo di strada asfaltata e malconcia e poi una stradina polverosa, piena di spine e sassi.  La domenica sera, poco prima del tramonto, fanno il percorso al contrario. Tra due ali di folla, accolti da applausi, canti sardi e fuochi d’artificio. Circondati da migliaia di persone che piangono e pregano. Sì ci sono anche i turisti, quasi tutti capitati qui soltanto per caso. «Per noi è una questione di cuore, non ci viene spontaneo immaginare che questa tradizione possa essere un’attrazione turistica e quindi un’occasione economica – dice Alessandro Manca, il presidente del comitato che quest’anno organizza la festa – Certo, ci vuole poco a capire che è una storia affascinante e che potrebbe attirare tantissime persone. Ma in noi prevale sempre la fede, una fede che quasi vogliamo vivere privatamente».  Passando in mezzo alla marea umana vestita di bianco, tra centinaia di uomini sudati che si abbracciano e si asciugano le lacrime a vicenda, si sentono storie tanto diverse da rendere ancor più inspiegabile questa tradizione. «La fede verso San Salvatore è l’unica cosa che ci unisce, l’unico momento di vera fratellanza – confessa Renzo Dessì, il presidente dell’associazione che riunisce tutti is curridoris – Ognuno di noi ha un motivo diverso per essere qui: c’è chi deve ringraziare e chi deve chiedere scusa, c’è chi invoca una grazia e anche chi vuole semplicemente dare un contributo a una tradizione. La forza di questi uomini ci garantisce che la nostra corsa non si fermerà mai». 

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Un commento

  1. E’ una grande tradizione

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