I “VISIONARI SARDI” GRAZIA DELEDDA, FRANCESCO MASALA E VINCENZO MANCA RICORDATI AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO DA UGO COLLU, GIOVANNI MANCA E ANNALENA MANCA

Torino, Salone del Libro, 14 maggio 2016. Foto di Francesco Sanna. Da sin. Salvatore Tola, Giovanni Manca, Ugo Collu, Paolo Pulina, Annalena Manca


introduzione di Paolo Pulina
contributi di Ugo Collu, Giovanni Manca e Annalena Manca

Al XXIX Salone Internazionale del Libro di Torino, presso lo stand della Regione Autonoma della Sardegna, che ha presentato il tema “Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Francesco Masala. Visionari sardi. Omaggio al futuro”, nella mattinata di sabato 14 maggio, alla presenza dell’Assessore regionale alla Cultura, Claudia Firino, e dei rappresentanti di alcuni Circoli FASI (Federazione delle 70 Associazioni Sarde nell’Italia continentale) – quelli di Rivoli, Nichelino e Bareggio-Cornaredo – si è svolto un dibattito su “Migrazioni e contaminazioni” a cura dell’Associazione  Editori Sardi.

L’assessore Firino ha ricordato che il tema scelto dalla Regione Sarda, “Visionari sardi, omaggio al futuro”,  per caratterizzare quest’anno la partecipazione dell’Isola al Salone di Torino, oltre a inserirsi nel filone generale della manifestazione – dedicata appunto agli intellettuali che hanno avuto uno sguardo “rivolto al futuro”  – ha voluto essere la prosecuzione naturale, trasposta sul piano nazionale, del progetto che si sta portando avanti in Sardegna con l’istituzione dell’anno gramsciano e deleddiano. «L’omaggio a Grazia Deledda al Salone del Lingotto fiere, per il 90esimo anniversario dal Premio Nobel – ha affermato l’assessore Firino – ha coinciso anche con l’importantissimo lavoro di Edizione nazionale dell’opera omnia, riconosciuto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e portato avanti dagli studiosi degli Atenei sardi. Come Regione ci impegneremo per diffondere e valorizzare quanto più possibile le opere della scrittrice nuorese nelle scuole e tra i giovani».

Moderati da Salvatore Tola, sono intervenuti Ugo Collu (su Grazia Deledda), Giovanni Manca (su Francesco Masala, del quale ricorre nel 2016 il centenario della nascita), Annalena Manca (sul padre Vincenzo Manca, nato anche lui 100 anni fa) e Paolo Pulina (su Antonio Gramsci e Francesco Masala).

I relatori hanno ripercorso una parte delle opere più significative dei tre autori Deledda, Gramsci e Masala i quali, con singolare lungimiranza, hanno anticipato, nella loro produzione, i  caratteri di quello che sarebbe poi diventato il “nostro” tempo. Nel corso del dibattito Annalena Manca ha messo in evidenza la stretta relazione tra Francesco Masala e suo padre, il pittore di Pattada Vincenzo Manca Luridiana, che può essere annoverato, a buon diritto, fra il gruppo di visionari che in quella prolifica stagione hanno saputo interpretare, e in certo modo prefigurare, molti dei temi che negli anni successivi sarebbero stati al centro del dibattito politico e culturale. (Paolo Pulina) 

Qui di seguito un estratto  dall’ampia  relazione tenuta da Ugo Collu su Grazia Deledda.

Grazia Deledda a 90 anni  dal Premio Nobel per la letteratura (1926) e a 80 anni  dalla morte (1936)

 

Spostando lo sguardo verso Nuoro e le sue immediate vicinanze, mi riferisco come sfondo a quel grappolo di intellettuali (artisti, scrittori, giuristi…) dei primi decenni del Novecento, che ancora oggi ammiriamo come quasi inspiegabile fioritura. Un vero miracolo.

A Nuoro città, Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Francesco Ciusa, Benedetto Ballero … e poi Salvatore Satta, Vindice Satta (la poesia di padre in figlio)… E ancora a pochi chilometri: Costantino Nivola (Orani), Salvatore Fancello (Dorgali), Salvatore Cambosu (Orotelli) …

E mi limito a nominarne alcuni soltanto.

Tutti eccellenti. Riconosciuti sognatori e insieme acuti interpreti del proprio tempo. Tutti capaci di senso critico e di slancio innovativo. 

Ci soffermiamo sulla Deledda – di cui ricorre l’80° dalla morte (1936) e il 90° dal Nobel (1926).

Dobbiamo riconoscere che ci troviamo davanti ad un caso forse unico al mondo. (Il mondo lo sa. Me ne sono accorto con soddisfatta meraviglia ad Hong Kong. Forse solo la Sardegna non vuole ancora prenderne atto fin in fondo)

Primo Nobel femminile per la Letteratura. E caso raro per quei tempi, emblematico e profetico di femminismo (ribelle per i propri diritti) ante litteram. Una ragazza minuta e modesta che si rivolta alla discriminazione della donna nella società barbaricina.

Figlia di Nuoro, appollaiata come «un nido di corvi» (direbbe Salvatore Satta) proprio al centro della Barbàgia. Barbagia da Barbària.

Barbària è la stizzosa denominazione geografica attribuita dai Romani a quel territorio per differenziarlo nettamente dalla Romània (il territorio conquistato), perché, nonostante i vari e feroci tentativi, mai i Romani riuscirono a sottometterla completamente. Chi non risiedeva sotto il loro dominio era barbaro: “balbuziente”, secondo la radice etimologica greca, non solo nella lingua ufficiale latina, ma balbuziente in tutto, antropologicamente e socialmente, cioè incivile, selvaggio. 

L’isolamento rendeva diffidente la società barbaricina alla brezza della modernità, sempre più insistente negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Un tale ambiente era troppo stretto per contenere i sogni di quelli, soprattutto giovani, che avevano bisogno di confrontarsi, studiare, uscire e realizzarsi secondo il dettato interiore. Grazia ne prese coscienza presto. Una forza irresistibile la spingeva a scrivere, a “raccontare”. E scriveva senza sosta, attingendo dal serbatoio inesauribile dei “Contos de fochile” e a descrivere le meraviglie della natura misteriosa e selvaggia in cui era immersa.

Ma di nascosto. Perché l’ambiente intero le si rivoltava contro. Scrivere infatti non era ritenuto un affare per donne. L’affronto era intollerabile.

Il destino della donna, scolpito nella sua carne da secoli e secoli, era solo uno: stare in casa, fare pane e figli.

Invito a rileggere la sua “quasi autobiografia” pubblicata postuma (“Cosima, quasi Grazia”) per capire quanto le costò quella cultura e soprattutto quali ostacoli ha dovuto affrontare per mantenersi se stessa, realizzarsi e poter assecondare il suo sogno di scrittrice.

Solo il fratello Andrea la aiuta. Così ne scrive in terza persona nella quasi autobiografia (“Cosima”, appunto).

«…Quando Andrea venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di 14 anni,  che ne dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una cerbiatta bambina, era invece una specie ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e anzi della razza, poiché s’era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea prese a proteggerla e tentò, in modo invero molto intelligente ed efficace, ad aiutarla».

Grazia si ribella, comunque, e compie lo strappo.

Ha dovuto lottare in un lungo corpo-a-corpo per dare forma al suo sogno, per aprirsi la via della propria realizzazione, secondo quella forza autentica che le urgeva dentro.

Lottare contro la famiglia, ma soprattutto contro la piccola e compatta società di Nuoro che non le perdonava la scrittura, potere sempre gestito dai maschi e da tutti non ritenuto un affare per femmine.

Scrivere novelle sentimentali (per riviste di moda, poi) o addirittura romanzi, per una ragazza, era considerato strumento di perdizione. Se scrivi certe cose, o le fai o sei capace di farle! E infatti la minuta adolescente era trattata alla stregua di una pubblica peccatrice fino al punto di essere richiamata apertamente in chiesa, dal pulpito, durante le omelie. Senza dimenticare che proprio lo zio sacerdote Sebastiano Cambosu (fratello della madre, persona colta e aperta) la incoraggiava a leggere, nella propria ricca e selezionata biblioteca, la Bibbia, Chateubriand, i russi Tolstoj e Dostoevskij.

Aria irrespirabile nella sua città che le negava il diritto di essere se stessa.

A 15 anni  giurò che avrebbe varcato il mare alla ricerca di un’aria meno asfittica e opprimente. A 21 anni le sue confidenze epistolari ad Epaminonda Provaglio – l’intraprendente editore delle Riviste femminili che le pubblicava le novelle – registrano segnali di preoccupante drammaticità.

«Figùrati, dunque tu  gli scrive una fanciulla che rimane mesi interi senza uscire di casa… settimane e settimane senza parlare con un’anima che non sia la famiglia … una fanciulla che non soffre, non ha pensieri… non sogni, non innamorato, nulla infine, nulla…. la solitudine grava così tediosa sul mio spirito … che provo l’acre desiderio di una notte eterna senza aurora» (lettera del 28 dicembre  1892).  

Roma: il sogno ricorrente. Nelle chilometriche lettere a Provaglio, lo ribadisce più volte.

«Guardo verso orizzonti più lontani e vivo con la fantasia in paesi ben diversi da quelli che mi circondano… Ho la speranza di venire un giorno a Roma, se il fato non mi condannerà a restare quaggiù, come Prometeo incatenato suo malgrado alla rupe…» (lettera del 7 febbraio 1892). Lettere pubblicate da Mondadori nel 1968 a cura di Eurialo De Michelis.

Immagini da tragedia. Ma insieme una forza caparbia e una tempra orgogliosa e indomabile.  Nessuno deve impedirle di essere padrona di se stessa.

Ancora a 20 anni, in una delle lettere al famoso editore Emilio Treves rivela il suo piano. «Avrò tra poco 20 anni, a 30 devo aver raggiunto il mio sogno radioso, qual è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda».

E ancora: «Sono giovane e ho tanti sogni: anzi ho un sogno solo, grande ed è di illustrare un paese sconosciuto che amo immensamente, la mia Sardegna».

Non si trattava, come si vede chiaramente, del desiderio di una bambina, ma di veri e propri progetti.

L’11 gennaio del 1900, a 29 anni appena iniziati (era nata a settembre del 1871), sposa Palmiro Madesani. Non nuorese, non sardo. Giovane impiegato dell’Intendenza di Finanza a Cagliari. E prende corpo anche l’intento affatto nascosto di andarsene a Roma, dove avrebbe vissuto in «più spirabil aere».

Solo pochi mesi e il marito viene trasferito a Roma.

La ribellione è compiuta.

Cosima-Grazia reagisce, fiera, trasgredendo le antiche leggi. Rivelando così da protagonista il travaglio della crisi epocale del mondo patriarcale barbaricino (contadino e pastorale), incapace ormai di contenere e di promuovere le istanze affioranti nelle nuove generazioni. Il bisogno di realizzarsi in spazi sociali aperti e vasti, la progressiva coscienza delle proprie capacità e il confronto con modelli comportamentali diversi da quelli imposti la poteva indurre ad assumere altre identità. Ma questo rischio era lontano dai suoi intendimenti. Se l’identità da un lato non può pensarsi stagnante, immobile e senza relazioni nutritive, dall’altro assumere l’identità di un altro significa perdere la propria, dare l’identità ad un altro significa sottrargli la sua. Cosima-Grazia ha seguito una strada esemplare: ha fatto esplodere le contraddizioni di una società ormai in declino, ma senza tradirne la radice identitaria profonda che la distingue da tutte le altre. I nuoresi non le hanno mai perdonato di essere andata via. La sua ribellione è stata interpretata come un “tradimento”.
Invece, tutta la sua opera testimonia l’opposto.

«Quelli che se ne vanno non sono necessariamente quelli che si trasferiscono all’estero (o altrove), ma quelli che pur restando voltano le spalle all’ambiente che li circonda e se ne vanno con la fantasia …» (Nivola,   “Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa).

A Roma, quindi. Per Nuoro un altro tradimento. Sebastiano Satta non l’avrebbe approvata. Bisognava restare, lottare nella propria terra contro una Patria matrigna. Ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene. Queste le motivazioni. Ma non sempre ciò risulta vero e veramente producente.

Sebastiano Satta anche lui però ha avuto la sua crisi. Evidentemente c’è anche la parte notturna dell’Atene sarda. Quella faccia “spartana” che l’ha fatta definire al suo pronipote Salvatore Satta «un nido di corvi».

In una famosa lettera a Salvator Ruju, Sebastiano pensa se pure anche lui «non debba abbandonare questo ermo asilo selvaggio, al quale non mi tiene avvinto che la cura materna, e andarmene lontano, ben lontano, portando a spasso, lacerando anche l’anima, il mio male e il mio bene» (lettera del 5 marzo 1901).

Ecco chi sono spesso i migranti. Più presenti di quelli che restano e capaci di riconoscere i paesi ospitali che li hanno accolti. Nivola dirà di New York: «Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa e centinaia di porte, finestre e cuori si sono aperti. Il doganiere era sconcertato dal mio bagaglio composto di ingenuità, gioventù, talento ed accento straniero… ».

Grazia se ne andò non in disprezzo verso la città, ma per non dover disprezzare se stessa.

Va ricordato che, nonostante l’ostilità di gran parte dell’ambiente nuorese, vi tornò nel 1909. Il motivo fu veramente eccezionale. Da altro primato civile. Per la candidatura alle Politiche nazionali nel Collegio di Nuoro. Lei, la prima donna candidata al Parlamento. La notizia fece scalpore. Un atto dimostrativo in tempi di lotta per il suffragio elettorale alle donne, ma quando esse non avevano ancora né quello attivo né quello passivo.

Era stato Sebastiano Satta e la sua cerchia socialista, dopo la defezione di Francesco Dore (medico di Olzai, esponente di punta del radicalismo sardo),  a proporla inizialmente all’insaputa della stessa Grazia, soprattutto per ostacolare,  l’avanzata dell’avv. Are (che poi vinse le elezioni),  antifemminista dichiarato, già parlamentare e accanito oppositore di diritto delle donne di partecipare alla politica.

La Deledda, allora sulla cresta del successo – aveva già pubblicato “Elias Portolu” a puntate nella “Nuova Antologia” e poi nel 1903 in volume; già pubblicato “Cenere” (1903 nella “Nuova Antologia” e 1904 in volume unico) e poi ancora “L’edera” nel 1904 –, accettò solo come testimonianza dei diritti della donna, ma si tenne al riparo dalla campagna elettorale, schiva di carattere, ma anche per non sentirsi usata dall’ambiente politico di Nuoro.

L’ “Unione Sarda”, annunciando, il 7 marzo del 1909, lo scandalo della sua candidatura commentava: «Vedremo la fortuna che arriderà a questa candidata femminista isolana!».

Ebbe 34 voti, di cui 31 annullati a seguito dei commenti entusiastici in scheda («Grazia Deledda, gloria di Nuoro», «Grazia Deledda la più grande scrittrice del mondo», «Vogliamo in Parlamento Grazia Deledda per protesta»…) e di qualche sberleffo.

Ne parlò anche la stampa nazionale piuttosto ironicamente. La “Tribuna di Roma” scrisse che in Parlamento non avrebbe saputo leggere un bilancio, pur essendo madre di ottimi figli e scrittrice di buoni romanzi.

È una curiosità, non insignificante, su cui si potrebbe anche continuare l’esplorazione.

Lei in una intervista semiseria si difese dicendo che in Parlamento sarebbe andata volentieri se avesse trovato materia per un nuovo romanzo.

Ciò che importa è riconoscere che, accettando quella candidatura obtorto collo, in partenza perdente, ancora una volta mise in discussione il ruolo di subordinazione della donna; e non solo sarda. La prima donna italiana candidata in Parlamento.

Forse in pochi sono a conoscenza di un’altra notizia “scandalosa” anche questa, ma che ci dà la ulteriore concretezza e autonomia del suo giudizio. Nel 1911, in una intervista alla “Tribuna di Roma”, disse senza circonlocuzioni di ammettere il divorzio in casi di incompatibilità provata, promettendo di scriverne un romanzo (che poi non ci fu).

Una grande lezione di emancipazione personale in risposta alla pressione dell’ambiente per lei asfissiante della Nuoro della fine Ottocento e primo Novecento.

Visionaria, sognatrice? Sì. Ma anche realista! Concreta. Da donna che non voleva più dipendere dai pregiudizi atavici del suo ambiente e vivere sottomessa a convenzioni anacronistiche. La ribellione ha corpo e sviluppo.

Sottolineo, “da donna”. Perché si tratta di una emancipazione femminile ante litteram (voi sapete bene ad esempio che il suffragio femminile effettivo – attivo e passivo – da noi risale al Decreto del 10 marzo 1946, e la Deledda non poté vederlo).

Grande donna, quindi, unica nel suo genere e nel suo tempo; e non solo per la Sardegna, non solo per l’Italia.

Ecco come Giovanni Manca ha commemorato Francesco (Frantziscu-Cicitu) Masala. 

Giovanni Manca ha ricordato di essere stato colpito a suo tempo dalle poesie di Francesco Masala, “Poesias in duas limbas / Poesie bilingui”, pubblicate (prima edizione nel 1981; seconda nel 1993)  da un editore nazionale importante come Vanni Scheiwiller, e di aver poi avuto una lunga frequentazione con Cicitu:  non a caso a lui il ruvido  scrittore concesse,  nel settembre 2003,  una lunga video-intervista.

Questa video intervista, realizzata e condotta da Manca con la collaborazione di Bepi Vigna, e intitolata  “Francesco Masala si racconta” (durata 33’), è riprodotta nel sito Sardegna Digital Library:

http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=2436&s=17&v=9&c=4460&id=187859

Manca ha specificato che  «la  conversazione con Francesco Masala fu registrata in occasione dell’uscita del libro di Bustianu Murgia “S’arte e sos laribiancos, littera a Tziu Frantziscu”, edizioni Condaghes, a lui dedicato. L’omaggio a Murgia, che era  scomparso da pochi mesi,  si dilata in una amara riflessione a tutto campo nella quale Masala rievoca i problemi della Sardegna contemporanea e il suo percorso di uomo “contro” alternando momenti di forte passione politica e feroce polemica ad altri di lucida analisi sociale e culturale. Grande intellettuale e testimone privilegiato della Sardegna, dagli anni del fascismo sino alla controversa contemporaneità, Masala in questa conversazione esalta l’aspetto di beffardo contestatore tipica del suo carattere, con sarcasmo e amarezza evoca il pessimismo radicale che lo ha accompagnato negli ultimi anni sino alla sua scomparsa il 23 gennaio 2007».

Manca ha infine ricordato che, nel catalogo Condaghes, di Francesco Masala è presente “Sa limba est s´istoria de su mundu. Condaghe de Biddafraigada” (anno 2000).

Si tratta di due storie. La prima è la storia della lingua sarda, dai tempi dei nuraghi ai giorni nostri: come a dire, dalla lingua dei nuraghi di Tiscali, la lingua di Adamo, alla lingua telematica di Tiscali, clicca-clicca il mouse, in cerca di linguaggi globali. La seconda (il condaghe) è la storia di una cittadina del Logudoro, gente povera, massai e pastori, fino a quando nelle estese di lentischio e cisto sono fiorite le raffinerie.

Ed ecco come Annalena Manca ha ricordato il padre Vincenzo. 

Vincenzo Manca: la formazione fiorentina e il ritorno alla terra

Dopo aver concluso il liceo a Sassari, Vincenzo Manca vive a Firenze dal 1936 al 1952, con alcuni intervalli in Sardegna (nel 1946 è il primo sindaco dell’età repubblicana del suo paese, Pattada). L’esperienza fiorentina rappresenta per l’artista e l’intellettuale un’età di formazione a tutto tondo: durante gli studi in lettere e filosofia si sperimenta come pittore, mentre l’ambiente universitario e culturale favorisce la costruzione della scelta antifascista che alla fine della guerra lo vede tra le fila del PCI nel settore stampa, arte e cultura della Federazione del capoluogo toscano.

Ritornato in Sardegna, Manca milita nel partito fino alla fine degli anni Cinquanta. Contribuisce alla fondazione del periodico “Rinascita sarda” di cui diviene, nel tempo, direttore. Con il progressivo distacco dalla vita politica attiva e la scelta dell’insegnamento, riprende in modo costante a produrre disegni e dipinti, fino al 2013, anno della scomparsa.

Il tema principale che Manca rivolge al pubblico, così nella pittura come negli articoli per periodici e quotidiani sardi fino agli anni Ottanta, è la proposizione della Sardegna degli umili, delle loro difficili condizioni sociali ed esistenziali. I suoi soggetti sono rappresentati con dignità antifolklorica, accompagnati da solitari oggetti di lavoro e di vita quotidiana. Dai segni composti con cui fissa sulla tela e sulla carta pastori, contadini, operai, donne e uomini emigrati, nascerà negli ultimi anni di attività una ricerca sui segni arcaici della Sardegna e delle culture del Mediterraneo.

Lettore di Deledda, studioso e grande estimatore di Gramsci, da quest’ultimo Vincenzo Manca ha saputo mutuare anche l’atteggiamento del padre-pedagogo, che consiglia e propone letture fondanti. Tra queste “Canne al vento”e “Elias Portolu” della Deledda; “L’albero del riccio” di Gramsci;  “Quelli dalle labbra bianche” di Francesco Masala.

Francesco Masala e Vincenzo Manca sono nati nello stesso anno 1916; i loro paesi di origine, Pattada e Nughedu San Nicolò, sono assai vicini. Negli anni Cinquanta, Masala recensisce positivamente Manca sull’“Unione sarda”, in occasione di mostre personali e collettive. Manca, che parla fluentemente e legge con attento piacere il logudorese, segue la produzione letteraria di Masala. I due resteranno in contatto, seppure sporadicamente, sempre; anche nel periodo della vecchiaia che per entrambi è scelta di isolamento e distacco dall’agone politico e culturale dell’isola. Il loro tono, frequentemente amaro e polemico, mai risuonerà passivo o tantomeno indifferente. 

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