A PARTIRE DAL 1964 IN SARDEGNA UNA LUNGA FEDELTA’ ALLE OPERE DI UMBERTO ECO (ALESSANDRIA, 5 GENNAIO 1932 – MILANO, 19 FEBBRAIO 2016)

Umberto Eco intervistato da Paolo Pulina, foto di Giovanni Giovannetti, Pavia, 25 novembre 1987


di Paolo Pulina

Anni  Sessanta-Settanta

In una classe del Liceo classico “Azuni” di Sassari, nella prima metà degli anni Sessanta, leggevamo le gustose, “atipiche” (per usare un aggettivo a lui caro) cronache sportive di Gianni Brera su “Il Guerino  Sportivo” ma, attenti ai testi  che introducevano anche in Italia gli studi di sociologia applicati alla cultura di massa, non ci poteva lasciare indifferenti l’uscita nel 1964 della raccolta di scritti “Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa” dell’astro nascente Umberto Eco (già da noi conosciuto e apprezzato per gli articoli sul settimanale “L’Espresso”, allora in formato lenzuolo), libro sicuramente più abbordabile da parte di un liceale rispetto alle impervie  pagine dei saggi pubblicati nel 1962 in “Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee”, che, come è stato  scritto,  «suonarono come una provocazione e sconvolsero le acque della critica italiana».

In una noticina del volume Eco faceva un riferimento non propriamente lusinghiero a Brera: «Un esempio deteriore di impiego gratuito di stilemi ex-colti è dato dalla prosa del cronista sportivo Gianni Brera, che rappresenta un esempio di “gaddismo spiegato al popolo”, là dove il “popolo” avrebbe bisogno solo di un linguaggio appropriato alla materia  trattata».

Gran discussione in classe, alimentata dal nostro prof. di Italiano, Manlio Brigaglia, anche alla luce della risposta piccata di Brera: provi Eco a riempire dieci cartelle in un’oretta battendo convulsamente sui tasti della macchina per scrivere o a dettare a braccio, via telefono, al giornale che deve chiudere, un commento sensato ed esauriente.

Personalmente, per non far torto a nessuno dei due (che in qualche modo, credo, poi si siano “spiegati”), dato che lèggere la loro prosa intelligente e divertente “stuzzicava” fortemente il mio “appetito” di cultura, da quegli anni ho cominciato a collezionare le opere sia dell’uno che dell’altro.

Iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università Statale di Milano, interessato ai nuovi metodi della critica letteraria di matrice semiologica e strutturalistica, non mancai di andare ad ascoltare, al Circolo Filologico Milanese (un po’ in imbarazzo, per la verità, perché gli altri uditori avevano un’età diciamo molto più avanzata di me non ancora ventenne), una lezione  dal vivo  di Eco, il quale, dopo aver deposto sul tavolo una decina di libri (da ciascuno  dei quali  lesse qualche citazione)   svolse un discorso coinvolgente sulle tematiche che erano oggetto del suo appena uscito “La struttura assente” (1968)  il cui sottotitolo  esplicativo era “la ricerca semiotica e  il metodo strutturale”.

Grazie alla “mallevadoria” del prof. Michele Pacifico, ebbi poi l’onore di poter seguire i lavori, presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica, nei giorni 14 – 17 ottobre 1968, del convegno internazionale “Linguaggi nella società e nella tecnica” promosso dalla Ing. C. Olivetti & C., S.p.A. per il centenario della nascita di Camillo Olivetti.

Questi i prestigiosi relatori: Bruno Visentini, Yehoshua Bar-Hillel, Émile Benveniste, Alfonso Caracciolo, L. Jonathan Cohen, Ole-Johan Dahl, Donald Davidson, Tullio De Mauro, Giacomo Devoto,  Umberto Eco,  Carl Engelman, Lucien Goldmann, Roman Jakobson, William A. Martin, Marvin Minsky, Richard Montague, René Moreau, Joel Moses, Arne Naess, Mauro M. Pacelli, Seymour A. Papert, Ferruccio Rossi-Landi, Sebastian K. Saumjan, Helmut Schnelle, Dana Scott, Thomas A. Sebeok, Ivan E. Sutherland, Adriaan van Wjngaarden.  

Gli atti (con testi in italiano, inglese e francese) furono pubblicati nel 1970 in un denso volume, ben 600 pagine, dalle Edizioni di Comunità. La relazione di Umberto Eco si intitola “Codici e ideologie”.

Nonostante la ricchezza della produzione in campo semiologico e i corsi sul tema tenuti nelle Facoltà di Architettura di Firenze e di Milano-Politecnico, nelle Università di São Paulo, in quelle argentine e nella New York University, solo nel 1971 Eco ebbe l’incarico di Semiotica presso l’Università  di Bologna, diventando Ordinario della disciplina nel 1975.

Questo perché, come ha dichiarato il suo  amico Renato Barilli (intervista a Silvia De Santis, su “L’Huffington Post” del 20 febbraio 2016), «Umberto Eco era un sole che quando splendeva oscurava le altre stelle. Piuttosto che assegnargli una cattedra, l’Università di Milano preferì abolire l’insegnamento di Estetica. Non lo vollero in cattedra neppure ad Architettura nell’Università di Firenze. Gli altri professori avevano capito che portarlo in casa avrebbe significato essere superati da lui e per questo lo allontanavano».

 

Anni Ottanta

Quando, il 25 novembre 1987, Umberto Eco venne a Pavia (dove dal 1977 avevo cominciato a lavorare come operatore culturale presso l’Ufficio Biblioteche e Pubblicazioni dell’Assessorato alla Cultura dell’Amministrazione provinciale), riuscii ad intervistarlo – si veda la foto scattata dall’amico Giovanni Giovannetti – per la radio locale “Radio Oggi” prima dell’inizio dei lavori del convegno su “ I narratori italiani d’oggi” tenuto nella Sala del Rivellino del Castello Visconteo.

Gli chiesi di Carolina Invernizio (di cui si era occupato nei suoi studi sulla cultura di massa e approfonditamente nel volume a più mani “Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala”, La Nuova Italia, 1979) anche in rapporto al convegno e allo spettacolo teatrale che proprio in quei giorni  la città natale di Voghera aveva promosso per il giorno seguente in “omaggio” alla sua illustre letterata (peraltro poco amata dagli accoliti della scuola super-raffinata dello scrittore vogherese d’élite Alberto Arbasino). Mi ricordò i suoi contributi di studio e mi confessò che c’era il sospetto di un legame di lontana parentela fra lui e l’Invernizio, in quanto egli aveva dei cugini di quarto grado di cognome  Quinterno, e il marito dell’Invernizio era il capitano Quinterno, direttore del panificio militare di Torino. Grazie alla collaborazione della redattrice Pierangela Fiorani, già il giorno dopo, sul quotidiano “La Provincia Pavese” potei dare notizia di questa curiosa, intrigante parentela, sia pure lontana.

Mi confessò di avere solo «un pallido ricordo» della sua partecipazione nel 1973 a Pavia a una manifestazione in difesa dell’Assessore provinciale alla Cultura, Claudio Bertoluzzi, accusato da taluno di «corrompere i sani principi educativi»  poiché aveva dotato le biblioteche dei doposcuola sperimentali di alcuni libretti che diffondevano messaggi anti-autoritari.

Mi disse di essere venuto per la prima volta a Pavia subito dopo la maturità per visitare i collegi perché aveva progettato di iscriversi in questa Università (poi, come sappiamo, aveva scelto Torino). Aggiunse di sentirsi quasi «di casa» a Pavia sia per gli assidui rapporti di lavoro con Maria Corti e Cesare Segre (aveva collaborato già dal 1970, con il saggio “La critica semiologica”,  al volume da essi  curato  “I metodi attuali della critica in Italia”, edizione ERI)  sia perché suo figlio vi frequentava i corsi universitari. Riguardo ai temi della tavola rotonda  mi anticipò che non avrebbe parlato di sé come narratore ma soltanto di questioni teoriche. In quanto conoscitore di tutti i suoi libri, mi permisi di dirgli che mi aspettavo di sapere il titolo del suo secondo romanzo  (dopo l’universalmente noto “Il nome della rosa”). Mi rispose divertito: «Aspetto anch’io!».

Era evidente il gioco delle parti implicito nello scambio di battute. Io facevo finta di chiedergli un’informazione di poco conto ed Eco faceva finta di rispondermi che non conosceva ancora quel titolo, dato che si era imposto di tenerlo segreto  fino all’imminenza  dell’apparizione del suo attesissimo secondo cimento letterario.

Un atteggiamento molto rispettabile, questo, secondo il mio punto di vista. Come ho detto, è dal 1964 che ho cominciato a leggere e ad apprezzare gli scritti di Eco, sia quelli più impegnativamente scientifici – soprattutto di argomento  semiotico – sia quelli gustosamente analitici o parodistici di fenomeni culturali: lessi in biblioteca a Sassari la prima edizione Mondadori della raccolta dei pezzi del “Diario minimo”, del 1963, con la famosa “Fenomenologia di Mike Bongiorno”; in una bancarella ho recuperato in epoca successiva anche la prima  edizione – Taylor, 1959 – della storia della filosofia in spiritosissimi versi che Eco pubblicò con il  titolo  di “Filosofi in libertà” e con lo pseudonimo di  Dedalus, usato anche più tardi per corsivi satirici sul quotidiano “Il manifesto” (“Filosofi in libertà” è poi confluito ne “Il secondo diario minimo”, 1992).

Quando uscì nel 1980 “Il nome della rosa”, sono stato tra i primi  acquirenti e quindi tra gli entusiastici suggeritori della lettura del romanzo, soprattutto perché l’autore aveva trasfuso genialmente nella sua prima, inaspettata opera narrativa tutti i temi di cui aveva brillantemente discusso nei suoi precedenti saggi.  In realtà, per mio conto, solo chi aveva dimestichezza con i nuclei problematici in essi sviluppati poteva apprezzare fino in fondo i sapori di quel divertimento intellettuale in forma di romanzo storico. Sono convinto che Eco fosse assolutamente sincero quando dichiarava di non aver mai pensato, nel corso dell’elaborazione dell’opera, alla costruzione di un best seller mondiale “a tavolino”, come qualche critico serio e qualche collega invidioso ebbe a sentenziare.

Per quanto riguarda l’anticipazione dei titoli, devo però ricordare che la casa editrice Bompiani non aspettò che il secondo romanzo stesse per apparire in libreria per annunciarne il titolo. Già da un mese prima tutti sapevamo che si sarebbe chiamato “Il pendolo di Foucault”. Non si riusciva a tenere il conto delle anticipazioni della trama, delle pagine di assaggio, delle recensioni “d’anticipo”  o in anteprima (degli onnipresenti Oreste del Buono e Furio Colombo, tanto per intenderci). A più di un mese dall’uscita in libreria il “Pendolo” oscillava, “si muoveva” che era  un piacere per chi aveva programmato un così movimentato lancio pubblicitario.

Quella volta diedi ragione a Gian Carlo Ferretti (su “l’Unità”) e a Michele Serra (su “Epoca”) che stigmatizzarono queste procedure ossessive di persuasione palese, queste forsennate promozioni editoriali tese a “piazzare”, cioè a  vendere,  un “capolavoro” a scatola chiusa e sulla fiducia, rivendicando il diritto dei lettori ad avere la possibilità di rendersi conto del valore di un nuovo libro sfogliandone concretamente le pagine.

D’altra parte, mi veniva di osservare, era stato lo stesso Eco ad insegnarci  che la pubblicità troppo insistita finisce per essere controproducente. Anche se mi costò fatica, decisi che il modo  migliore di accogliere il lanciatissimo “Pendolo” fosse quello di lasciarlo oscillare fuori di casa per alcuni mesi dopo l’arrivo nelle librerie. Casaubon poteva attendere…

 

Gennaio 1988 – Commento a un articolo di  Eco su Celentano a “Fantastico” pubblicato su “La Repubblica” del 29 dicembre 1987 e intitolato  “Madre Rai ci conduce il nuovo Lutero…”

http://www.archivio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=12237&IDOpera=177

 

Celentano e Eco uniti nel segno dell’Epifania

Il giorno della Befana Adriano Celentano ha distribuito i “fantastici” premi della lotteria Italia. I giornali e la televisione hanno giustamente posto in evidenza che nello  stesso giorno il carismatico  Adriano (nato a Milano il 6 gennaio 1938)  ha compiuto 50 anni ma si sono dimenticati di ricordare un altro compleanno importante:  quello di Umberto Eco, che il 5 gennaio ha festeggiato il 56mo genetliaco.

Il legame che unisce i due personaggi non è solo quello di essere nati sotto lo stesso segno zodiacale e di essere divenuti, nei rispettivi campi, due star internazionali (per gli astrologi le due cose potrebbero  essere interdipendenti).

In verità, chi ha rivelato recentemente la natura di «novello Lutero»,  di Dio in terra, manifestata dal divo  Adriano nelle sue apparizioni televisive? Proprio Umberto Eco su  “Repubblica” del 29 dicembre scorso.

Se per l’Eco studioso della poetica di James Joyce l’epifania (con l’iniziale minuscola) è  «la rivelazione dell’essenza, della identità segreta di un oggetto tratto dalla banalità del quotidiano», per l’Eco studioso  dei fatti  del  “costume di  casa”,  l’Epifania (con l’iniziale maiuscola) appena passata è stata, come vuole l’etimologia, la rivelazione della natura divina del predicatore televisivo Adriano Celentano.

In verità, quindi, il nesso fra i due  protagonisti dell’universo dei mass-media è evidente, ormai  “epifanico”: se Celentano  è  un nuovo Dio, Eco è il suo profeta.

(Settimanale “L’avvenire di Voghera”, 21 gennaio 1988)

 

Settembre 1992 – Commento a una “Bustina di minerva”  di  Eco su “L’Espresso” del 19 luglio  1992

 

La crociata di Eco contro i senzacasa (editrice)

Anche Umberto Eco non ha risparmiato ultimamente le sue frecciate sarcastiche contro la categoria degli «scrittori a proprie spese» (cfr. la  “Bustina di minerva” su “L’Espresso” del 19 luglio  1992).

Ciò che irrita è il  generalizzato giudizio negativo. E allora proviamo  a ribaltare l’accusa,  utilizzando lo  stesso  criterio di valutazione indifferenziata.

Che ne direbbe Eco se lo includessimo nella categoria (alla quale indubbiamente  appartiene) degli «autori editi  da Bompiani»,  quindi a spese di un editore? E se poi facessimo  notare che in questa categoria figura una “scrittrice” come Carmen Llera Moravia  (a proposito, il povero Alberto non sapeva neanche cosa volesse dire pubblicare un libro a proprie spese…così almeno per cominciare …)  con un romanzo intitolato “Lola e gli altri”?

Ecco alcune preziosità stilistiche rilevate nel testo edito da Bompiani da Erberto Passoni sul n 4/92 di “Tribuna Stampa”: «Di colpo  si è  incorporata, e ha guardato l’orologio»; «Lei mangiucca anche di notte»; «Lola sorvolava da un uomo all’altro»;  «Più che seduta era sfondata in una poltrona».

Quando Eco avrà il coraggio di mettere  in evidenza le fesserie  stampate dalla sua casa editrice (per carità, non a spese dell’autore…), avrà il diritto di ridicolizzare le scempiaggini degli  autori a proprie spese, i  quali comunque non rappresentano una categoria indistintamente rozza e illetterata. Mi sembra peraltro che i libri messi all’indice sull’ “Espresso”  da Roberto Cotroneo (che  è concittadino, amico e biografo del  sommo  Eco) appartengano proprio alla categoria dei libri pubblicati da editori di livello  nazionale.

Quindi Eco è pregato prima di tutto di rivolgersi a Cotroneo. Dopo  che avrà controllato i piani alti, magari della casa editrice sua propria, potrà essere autorizzato a fare osservazioni sui piani bassi, dove abitano i poveri senzacasa (editrice).

(Settimanale vogherese “la Città”, 3 settembre 1992)

 

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