IMMAGINI PER VIAGGIARE CON LA FANTASIA: INCONTRO A MILANO CON LA FOTOGRAFA DANIELA ZEDDA

Daniela Zedda


di Sergio Portas

L’articolo in cui dicevo della mostra di Daniela Zedda “Aldilàdelmare”, le foto in grande formato erano esposte allo “spazio Marras” di Milano, finito anche sulle onde del Web di “Tottus in Pari”, era stato uno dei più cliccati (perdonate l’orrido neologismo) del periodo, in grazia sicuramente della foto che serviva ad attirare la curiosità dei lettori (i cliccanti che vi dicevo): una Geppi Cucciari sdraiata su di un immenso tappeto a losanghe bianche e nere, uno sguardo che neanche Mata Hari ai bei dì. E’ che la Zedda è proprio brava a fotografare le persone, lo fa professionalmente dall’83, lei che è nata a Cagliari e che ha girato il mondo per cercare i soggetti da mettere nel mirino della sua macchina, e ha girato il mondo con le mostre di quei ritratti fissati in relativa eternità. Ritratti che finiscono spesso in libri preziosi e, com’è costume dei tempi che viviamo, nel magma fluido di internet. Mi aveva quindi incuriosito l’esposizione di quelli che, a prima vista, mi erano parsi suoi quadri astratti, alla “AD” Gallery di Anna Deplano della milanese via Petrella. Anche Anna è di Cagliari, qui a Milano di professione sarebbe designer e anche di successo visto che alcuni dei suoi lavori sono ospitati sino in musei tedeschi, da circa un anno lo spazio in cui “creava” oggetti che l’industria avrebbe replicato in numero limitato per clienti curiosi di forme non usuali, funziona anche da galleria d’arte e questa è la già sesta mostra, titolo: oggetti astratti. La Deplano era finita (insieme ad altri 87 sardi) anche essa nella mostra al di là del mare, ritratta sulla grande scala elicoidale del museo del ‘900 di Milano, un tripudio di spazi ricurvi cilestrini, nella tomba sottostante statue poco vestite, Anna che sorride all’obbiettivo in alto con l’aria sbarazzina di una monella di Sergio Atzeni. Oggi è lei la padrona di casa e in attesa che arrivi Daniela ( tra le sue molte virtù la puntualità, mi dicono, non è ai primi posti) ho agio di soffermarmi sugli 11 lavori esposti. Spiccano sulle pareti bianche illuminate sapientemente da faretti che si pascono di lampade dai prezzi poco proletari (140 euro l’una). Sono fotografie di parti d’oggetti opportunamente ingrandite , ripresi da angolazioni che vanno ad inseguire la luce nei suoi giochi di scomposizione infinita, stampate su carta fotografica con un supporto di plastica bianca. Inevitabile il gioco dei rimandi alla matrice originaria, mi riesce solamente per quelli che riesco ad individuare come bicchieri di plastica policromi impilati uno sull’altro su di un piano viola cardinale, sfondo nero come notte senza luna né stelle, riflessi gialli ad ingannare come fata morgana nel deserto la fantasia di chi guarda. Mi dirà Daniela che questo è l’undicesimo quadro della mostra, e ci ha messo del bello e del buono per trovarlo, lei che scaramanticamente si fissa sui numeri doppi, 88 e 44 e così via, fino a settimana scorsa ne aveva pronti dieci, finché si è imbattuta in questo bar di venditori di birre e l’occhio si è posato sulla pila dei bicchieri. “Scompongo i significati e divago. E’ una specie di gioco, gli oggetti sono volutamente stravolti. E se anche alla fine sembra che nulla abbia un significato ben definito, che il racconto delle opere sia un po’ dissociato, in realtà è uno stimolo in più per andarlo a ricercare. Le foto non andrebbero mai descritte. Persino la stampa è un elemento che aggiunge significato. Non ci credereste ma è il colore nero il più difficile da ottenere nella sua pienezza. E se nei neri delle mie foto c’è percettibile anche la riga più fine, s’ha da rifare il tutto.” Quelle per me due lune di Giove che si specchiano l’una nell’altra con toni di giallo cromo e lapislazzulo sono in realtà due ciotole poste l’una accanto all’altra, e quel mare di polistirolo espanso e grigio che avevo indubitabilmente individuato, è parte  d’una delle pietre che Pinuccio Sciola fa cantare con l’aiuto del vento. Ognuna delle opere è volutamente senza titolo, lasciata alla fantasia di chi guarda nell’ambiguità delle sue forme diversamente colorate, prossimamente tutte si fregeranno del titolo d’una canzone. Che se c’è una cosa che Daniela non perdona a sua madre è di non averle fatto frequentare il conservatorio, innamorata com’è della musica. Si è rifatta naturalmente andando per teatri e spettacoli, a ritrarre suonatori di jazz che avrebbe messo in uno dei suoi numerosi libri. Anche quest’anno è in partenza per il festival di Gavoi (dal 2 al 5 di luglio) dove è di casa visto che sono dieci anni che espone le sue foto. Marcello Fois ( a proposito è uscito l’ultimo suo libro della trilogia che va scrivendo da anni: Luce perfetta) e gli altri soci della nuova letteratura sarda ( Soriga, Murgia, Abate, Todde, Angioni) hanno saputo fare dell’”Isola delle storie” un appuntamento imperdibile per chi ama la letteratura. E i suoi confini si sono oramai dilatati sino al di fuori d’Europa, sempre più prestigiosi gli ospiti, sempre di maggior qualità gli eventi culturali collaterali. Daniela Zedda per dieci anni ha fotografato gli ospiti nei “salotti bene” della gente del paese barbaricino. Mi dice che i soggetti erano spesso intimoriti dall’ospitalità di queste famiglie che aprivano loro la porta di casa facendoli entrare nell’intimità dei loro immacolati tinelli. L’anno scorso ha voluto ritrarli tutti seduti, facendo loro scegliere fra quaranta sedie diverse. Le foto ingrandite a grandezza naturale le ha esposte vicino alla porta delle case, come fossero lì a prendere il fresco, la sera. Quest’anno li fotograferà affacciati alle finestre, come fossero oramai diventati parte della famiglia che li ospita. Non più stranieri quindi , ma sardi anche loro, e di Barbagia. Si può leggere dal programma pieghevole: “Residenze temporanee per gli ospiti del festival. Progetto fotografico di Daniela Zedda. Presenze immobili integrate nel contesto urbano interagiscono con le persone in un muto colloquio di sguardi. Mischiandosi ironicamente e gioiosamente con gli abitanti di Gavoi, acquisiscono una cittadinanza simbolica, anzi una condizione sociale e culturale più vera: quella di paesani”. Oggi a Milano ci parla del suo lavoro e della ricerca della luce particolare che illumina i suoi soggetti con disarmante semplicità, quasi fosse un’ape che va posandosi di fiore in fiore in grazia dei colori non già dei sapori delle corolle che sfiora, divagando come lei dice. E divagando fra la Barbagia di Ollolai e l’Eritrea fa ritratti d’umani che restano nella mente, lei che teorizza i sardi d’oltremare, quelli che hanno lasciato la Sardegna per scelta e si trovano bene nelle nuove case, portatori di uno sguardo diverso, più trasparente, sull’isola che hanno perduto per scelte più o meno forzose. Detto da lei che in Sardegna ha invece scelto di restarci pare quasi un paradosso, ma se lo può permettere visto che dagli anni ’80 non ha fatto altro che girare il mondo insieme alle sue mostre dai titoli immaginifici, Stardust (polvere di stelle n.d.r.) a Parigi nel 2005, Mastros e Solitude a New York  nel 2008 e 2009, Rectractes a Budapest nel2006, Punti di vista a Praga nel 2009.Inutile dire che ha girato un po’ tutta la Sardegna:segnatamente con Istranzadura a Gavoi. E Cagliari ovviamente dove sono praticamente trent’anni (dall’83 alla Cittadella dei Musei) che ci si imbatte, volenti o nolenti, in una delle sue esposizioni fotografiche, dall’antico caffè Genovese, passando pei bastioni di S. Remy alla Manifattura tabacchi, dal Dipartimento di salute mentale al teatro Massimo, Aldilàdelmare era al Liceo Artistico nel 2013. L’accento cagliaritano, quello non l’ha perso, come il gusto della battuta arguta, le sue foto nei giornali di tutta Italia (dal “Corriere” a “Repubblica” e al “Manifesto”); è fotografa ufficiale del Teatro stabile della Sardegna ma anche, e qui la vedo sorridere col suo fare ammiccante, delle Cantine di Argiolas.

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