SUL CAVALLO VINCENTE: STORIA DI CATERINA MURONI, FANTINO PROFESSIONISTA

Caterina Muroni


di Martina Marras *

Caterina è sempre stata in sella. Da quando aveva nove anni, nella scuderia di famiglia. Suo padre, e suo nonno prima di lui, erano stati fantini e allenatori. Lei ne ha seguito le orme, ottenendo successi e gratificazioni, non ultimo il fatto di essere stata la prima e, sostanzialmente, unica donna fantino in Sardegna.

È il 1977 quando Caterina Muroni, oggi una bella signora di 54 anni, diventa allieva fantina. Aveva cominciato a correre qualche anno prima, dopo aver lasciato la scuola ed essersi trasferita a Chilivani insieme alla famiglia. A 17 anni arriva anche la patente di fantino e lei si lancia a capofitto nel mondo delle corse. Per più di dieci anni. A 28 anni decide di diventare mamma, mettendo fine alla sua carriera. Seguendo la sua grande passione, resta in sella e corre fino al sesto mese di gravidanza, salvo poi rassegnarsi al divieto categorico del medico: basta corse, almeno fino alla nascita di Gabriele.

Il figlio di Caterina oggi ha 26 anni e anche lui è un fantino professionista. Vive in Francia, a Marsiglia, e nell’ultimo anno ha portato a casa 20 vittorie, riempiendo di orgoglio la sua famiglia. «Credo che mio figlio sia stato il fantino più giovane della storia, avendo corso con me prima di essere nato. Forse è in quel momento che è nata la sua passione», scherza Caterina. In quell’ultima gara non riuscì ad arrivare prima di suo marito, con il quale ha gareggiato per un breve periodo. «Era lei che correva appresso a me, sempre», precisa Cosimo Congiu ex fantino e ora allenatore insieme a Caterina. Mandano avanti l’attività di famiglia, ormai arrivata alla quarta generazione.

E se Gabriele non avesse voluto fare il fantino? «Non so come l’avrei presa, ma immagino che ci sarei rimasta malissimo. Desideravo tanto un maschio perché temevo che una femmina potesse avere un carattere forte come il mio. Ma soprattutto desideravo che mio figlio seguisse la strada dei suo genitori e dei suoi nonni».

Al galoppo. Il mondo dei fantini è tutto al maschile. Le donne sono pochissime, non esiste categorizzazione. Le regole sono le stesse per entrambi i sessi e il brivido della corsa può essere sopportato solo dai caratteri più decisi. «Adesso le cose sono un po’ cambiate, ma ai miei tempi l’ambiente non era troppo a misura di donna. Il mondo dei cavalli è un mondo maschile, io ero l’unica in mezzo a un centinaio di uomini». È stato certamente faticoso muoversi in un ambiente cameratesco, ammette Caterina, mentre mostra orgogliosa le foto delle sue vittorie. «Qua avevo già tagliato i capelli – dice – odiavo quella lunga treccia che avevo portato per troppo tempo. Ero un maschiaccio, lo ammetto».

Inizialmente i colleghi fantini credevano che correre per Caterina fosse un capriccio, o nella migliore delle ipotesi, un divertimento. Pensavano che lo facesse solo perché suo padre e suo nonno erano allenatori. «Quando videro che me la cavavo iniziarono a considerarmi come un loro pari, senza più pensare che, in quanto donna fossi più debole». Come fantino Caterina ha avuto grandi soddisfazioni, facendo gare in tutta Italia. Montava cavalli anglo arabi, i cosiddetti mezzosangue, che al tempo erano particolarmente indomiti. «Correvo per vincere, come tutti», aggiunge. «Sono grintosa per natura, ma credo che in quelle situazioni ci fosse maggior bisogno di tirare fuori le unghie. Una donna soprattutto doveva farlo, per non farsi pestare i piedi dagli uomini».

I rapporti tra i fantini, assicura Caterina, ora sono ben più amichevoli di un tempo. Quando lei stessa correva, la competizione era molto più forte. Capitava quindi che un piccolo screzio in gara avesse come conseguenza mesi di litigi, o silenzi, fra i due contendenti. «Noi sardi poi, per natura, siamo abbastanza sanguigni». Caterina, che in gara non avrebbe ceduto la vittoria nemmeno a suo fratello, ammette che negli anni ’70, non era poi così infrequente disturbare gli avversari, ai limiti dell’irregolare. «Una frustata in corsa poteva pure scappare, suvvia. Qualche colpo l’ho dato, qualche altro l’ho preso. Naturalmente non era permesso, i commissari controllavano proprio queste cose. E infatti ho subito anche delle squalifiche».

Questione di coraggio e determinazione. Per affrontare una corsa, di coraggio, ce ne vuole tanto. Le staffe sono piccole, la caduta è dietro l’angolo e «se sei debole di cuore, non puoi reggere». La tensione è alle stelle, si corre a distanza ravvicinata, bisogna sempre stare attenti anche a ciò che fanno gli altri, per evitare di essere travolti. «Ci vuole tanta forza e bisogna allenarsi parecchio».

Per essere adeguatamente preparato un fantino dovrebbe montare almeno tre cavalli al giorno. La maggior parte di loro, inoltre, sottostà a rigidi regimi alimentari, al fine di non superare il peso massimo consentito per la gara. «Io pesavo appena 40 chili, quindi non ho mai dovuto fare grossi sacrifici, ma per alcuni è davvero una fatica». Alla quale si aggiunge la fatica della competizione: in una giornata di corse si perde almeno un chilo, al traguardo si arriva stremati. «A fine gara il sorriso non era esattamente il mio forte», confessa Caterina. L’addio alla carriera non è stato facile. Caterina ha rinnovato la patente di fantino fino al 1988. Presa dal suo ruolo di madre, ha preferito accantonare le corse, pur frequentando quotidianamente la scuderia. «Qualche dolorino iniziava a farsi sentire e non appena mi sono resa conto di essere poco competitiva, ho preferito fare l’allenatore. Mi sono accontenta di quel mestiere, che pure mi ha dato tante soddisfazioni». Ma abbandonare le gare vissute in prima persona è stata una grande sofferenza, accompagnata da qualche pentimento. E ancora oggi, la voglia di correre guardando una sfida è tanta. Non è raro che durante gli allenamenti Caterina non resista al desiderio di montare un cavallo. «Ma non è più come prima. La poca costanza si paga, in termini di dimestichezza. E poi è impossibile non fare i conti con l’età e con il fatto, per esempio, che ho un braccio steccato di acciaio, spezzato da un cavallo che mi trascinò in pista». Da ragazza, invece, montava fino a tredici cavalli al giorno, seguita passo passo da suo padre che «era abbastanza rigido. Ma è stato bello così, aveva ragione. Non mi sono pentita di aver seguito i suoi consigli».

Mentre oggi si limita a fare da spettatrice, esultando per le vittorie di Gabriele, Caterina ricorda la sua gara più emozionante: la prima vittoria. In sella ad April Love, a diciassette anni. Ricorda i suoi cavalli come fossero fratelli. Eugenio era il suo compagno di giochi quando era bambina. «A quel cavallo mancava solo la parola». Sono tutti belli per lei, anche se ammette di avere una predilezione per gli elegantissimi grigi. I cavalli sono il grande amore di Caterina. «Arrivano prima del cioccolato e dei dolci», dice.

Una volta anche a lei è capitato di battezzare una puledra (è consuetudine non cambiare il nome al cavallo che lo abbia già, si crede che non sia di buon auspicio, ndr). Per quella cavallina indisciplinata aveva scelto il nome di Dollarina. «È stata domata, ma non ha mai fatto corse perché non girava, non voleva fare le curve». Non tutti nascono campioni. «E non tutte nascono madrine: è bene, forse, che io non battezzi più nessun cavallo».

Il cavallo vincente. Portare a casa successi in sella a un cavallo buono è troppo facile. Staccare di troppo gli avversari non è sinonimo di bravura: le qualità del fantino emergono quando si lotta per il primo posto. Fino all’ultimo. Con gli occhi velati di un pizzico di malinconia, misto a orgoglio, Caterina mostra le tappe della sua carriera. Un’istantanea con il padre e la sorella, una gara sudata fino all’ultimo: «Qua ero ancora dietro, ma poi ho vinto», dice. La postura da cavallerizza è rimasta e si vede, così come la grinta. Caterina sfoglia i ricordi e un po’ rimpiange quell’immagine di sé così lontana: «Vorrei davvero essere di nuovo così, ma il tempo passa per tutti».

* La Donna Sarda

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