ALTRA TAPPA IN SARDEGNA PER LA NOSTRA “TRAVEL BLOGGER”. IPOTESI DI VIAGGIO: SU TEMPIESU

 
di Claudia Zedda

Fa strano pensare ora a quel viaggio lontano di qualche mese. C’era caldo, ma nemmeno troppo, comunque abbiamo viaggiato da Bono fino ad Orune con l’aria condizionata in funzione e la radio accesa, che poi è servita a poco perché ho parlato per tutto il viaggio. Superando Lollove e imboccando lo svincolo per Orune ho pensato a Grazia Deledda e mi sono chiesta in quale dei suoi libri parlava di Lollove. In Cenere forse? O in La Madre? Mi domando se il paesaggio sia ancora simile a quello visto dalla piccola donnina nuorese. Archivio presto le ipotesi: le indicazioni per Orune ci catturano.

La strada ci costringe ad una arrampicata sulla montagna. Odio le curve a strapiombo nel nulla. Mio marito ride del mio silenzio. Penso se lo stia godendo. Per smorzare la leggera ansia che mi prende mi concentro su Orune, sola in mezzo al verde, arroccata e silenziosa, spolverata di sole e nuvole rade. E’ come un fiore spuntato nel bel mezzo del nulla, colorata di cento colori e di nessuna forma. C’è anche una pietra, una strana pietra in equilibrio precario. Immagino quali leggende l’abbiano resa famosa: sembra un aquila, un dito, un profilo di donna. Mi dico che al mio rientro cercherò di saperne qualcosa di più.

Dopo una salita non attesa ci cimentiamo in una discesa altrettanto inaspettata. Raggiunto il paese le indicazioni per “Su Tempiesu” ci portano ancora una volta nel cuore del niente più silenzioso. Il sole è caldo. Daniele inizia a guardarmi storto come ogni volta. Lo so che sta pensando “Ma dove diavolo mi hai portato”, e io taglio corto ricordandogli che “Su Tempiesu” è un unicum. Lui ride. “Sono tutti unicum per te”, e io faccio spallucce. Scendiamo ancora. Non so se e quando arriveremo poi d’improvviso compare un caseggiato. Ci siamo.

Su Tempiesu è un unicum davvero. Ci regala l’idea di come dovevano essere un tempo i pozzi sacri, dei veri e propri tempietti. Si è salvato dal tempo e dall’incuria umana grazie a mamma terra: gli è franata addosso, proteggendolo. Quando lo hanno trovato, il tempio dell’acqua aveva il tetto in parte distrutto, ma ancora risplendeva di bellezza, con le sue spade infisse nel vertice in cui gli spioventi del tetto si incontrano e con il liquido miracoloso che ancora gorgheggiava, da sempre, per sempre. Tutto questo lo leggo in un opuscolo che la guida ci da fin da subito. E’ una ragazza simpatica e dalle forme morbide. E’ di Nuoro e ogni giorno raggiunge quel posticino immerso nel silenzio: la strada lei la fa praticamente ad occhi chiusi. Non c’è niente come l’abitudine, penso io. Ci informa dei tempi di discesa, e di risalita. No, non ci accompagnerà, ma il posto si trova da solo.

Quindici minuti per scendere, venti per risalire, due percorsi diversi e un panorama di quelli che ti urlano dentro. Guardo la mia pancetta e insieme decidiamo che ce la possiamo fare. Il percorso è favolosamente naturalistico. Cartelli che ci invogliano a lasciar di noi solo i ricordi e le nostre orme, segnali che parlano della ricchezza faunistica del luogo: fiore di carota, ferula, rubia pellegrina. Fotografo tutto. Superati di poco i quindici minuti Daniele, avanti a me di pochi passi mi informa “Ci siamo”.

Sento le vespe canterine.

C’è dell’acqua.

C’è un tempio sacro, c’è il tempio sacro.

Lo guardo, mi guarda. “Ti credevo più grande”, penso io, “pensavo non saresti mai venuta a trovarmi”, pensa lui.

Abbiamo rotto il ghiaccio.

Cerco l’acqua con rispetto, le poche vespe che abitano il posto mi fanno spazio e io ascolto la nenia della linfa che scorre. Lo faccio in silenzio mentre Daniele esplora gli angoli più remoti del sito.

Io non mi posso spostare. L’acqua mi trattiene.

Chiudo gli occhi.

Respiro.

Non c’è, nel dintorno, niente che somigli ad essere umano, eccezion fatta per noi due. Ci siamo noi, l’acqua, il cielo, il verde.

Immergo la mano. L’acqua è fredda e canta per me. Resterei lì ancora a lungo ma dobbiamo andare.

La ringrazio, le porgo il mio dono e lei ancora canta, per ringraziarmi.

Quella piccola conchiglia di mare deve essere ancora lì, immersa nell’acqua dolce del pozzo sacro, nel buio della notte e nel canto degli animali. La invidio.

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