INTERVISTA ALL’ARTISTA JOSEPHINE SASSU: FARE DISFARE FABBRICARE

nella foto Josephine Sassu


di Stefano Serusi

Nell’intervistare l’artista Josephine Sassu, inizia in me una riflessione sul concetto stesso di “domanda”. Molte sue opere, sin dal principio del suo percorso espositivo, sembrano proprio originate dall’idea del chiedersi – e quindi del chiederci – come elemento che apparentemente differenzia l’uomo dagli altri animali. Quei punti interrogativi minacciosi, da cui ci difendiamo come da virus influenzali, si contrappongono all’istintività che per l’artista è la base formativa del carattere. Un’istintività spesso sottovalutata o rin-negata dalle persone (il termine stesso fa pensare subito a disordine, casualità, aggressività), che nelle varie specie animali propone invece una serie vasta di archetipi e quindi di possibilità sempre interessanti.

Pensi che abbia introdotto bene la tua ricerca? Che cosa pensi di avere imparato, e vorresti insegnarci, dalla tua frequentazione con gli animali? Leggere riflessioni sul mio percorso mi incuriosisce sempre: il lavoro gode di vita propria e, malgrado le mie intenzioni, quello che genera in chi lo guarda ha sempre un po’ di esotismo non previsto. Certo nel mio percorso artistico non mancano le domande ma forse, agli esordi, le domande e le risposte erano più concentrate sull’osservazione del mondo esterno, ora hanno un forte accento esistenzialista. Il mio soggetto preferito rimangono da sempre gli animali; mi immagino spesso, pensando al mondo dell’arte, come una sorta di Emilio di Rousseau, e ora che, anche in questa strana arcadia insulare, la modernità liquida ci ha inondato, mi sento autorizzata a credere di avere dimestichezza con i leoni tanta quanta ne ho con i gatti, di poter sussurrare alle zebre come mi capita di fare con i miei asini… (sarà colpa di sky?)… Gli animali, nei miei ultimi lavori diventano allegorie della mia esistenza, ma non credo di voler insegnare nulla, faccio solo in modo che il lavoro possa vivere il più possibile di vita propria.

Hai nominato gli asini… svelo, per chi non ti conosce, che hai la fortuna di vivere in una fattoria. Questo dettaglio, che dettaglio non è, qualche volta mi ha fatto pensare che una certa tattilità a cui l’ambiente naturale sicuramente ti predispone abbia arricchito il tuo lavoro. Mi piacerebbe che mi raccontassi il tuo percorso anche attraverso i materiali via via “scoperti”. Se per fattoria non si immagina esattamente quella di nonna papera sì, vivo in un ambiente circondato dalla natura: un paesino della Sardegna a circa 30 km a sud di Sassari, con poco più di 500 abitanti… io sto in “estrema” periferia, al limite del bosco… detto così è pittoresco, e per me che non so dipingere… Il mio background è agropastorale, da parte sarda, così come da quella umbra, vengo da una famiglia di piccoli possidenti dediti alla cura della terra; ricordo che la mia nonna paterna, le rare volte che faceva il pane a casa, e più frequentemente i dolci per le feste, era solita dedicare a me e mio fratello dei piccoli manufatti in pasta… all’epoca mi sembrava una normalissima, preziosa magia – io che potevo giocare per strada, che disponevo di plastilina, lego e tv dei ragazzi -, oggi ritrovo le stesse forme nei libri che raccontano di quest’arte culinaria e affondano nella mitica notte dei tempi la creazione di queste sculture commestibili. La stessa nonna era un’instancabile tricottista, credo abbia fatto anni luce di pizzo all’uncinetto, ma che sia rimasta forse una delle ultime nonne a chilometro zero, contrariamente a mio nonno che veniva spesso a trovarci quando ancora stavamo all’estero; tra le sue eredità, mi ritrovo una tenda con sei rose di cui una disposta contrariamente allo schema delle altre e mi sono sempre chiesta perché non abbia disfatto e rifatto… Anche mia madre, umbra, ha notevolmente arricchito il mio immaginario, la ricordo come una specie di supereroe tuttofare. Oltre agli studi artistici, molto ortodossi, alla mia formazione estetica credo abbia molto contribuito l’ambiente familiare. E a questo punto credo di poter teorizzare una sorta di “decrescita felice” nella mia attività artistica….

In effetti disponevi di esempi non comuni, e sicuramente non comune è la tua capacità di interpretarli. Uscita dalle “mura”, seppure metaforicamente, hai trovato in qualche lettura o conoscenza un supporto teorico adatto al tuo lavoro? Senti necessario accostare alla costruzione fisica dell’opera un costante approfondimento filosofico-critico, in merito anche alla didattica a cui spesso ti sei dedicata? Posso dire che sono stata molto fortunata nel frequentare l’Istituto d’Arte Filippo Figari di Sassari, le lezioni di Storia dell’arte di Giuliana Altea sono state determinanti e preziose anche in seguito, per gli anni dell’Accademia (e qui varrebbe la pena di stendere un luttuoso velo sulla diminuzione delle ore di insegnamento di questa disciplina nelle scuole pubbliche Italiane). La mia docente di decorazione delle superiori, Agostina Corda, usava spesso l’esempio dell’opera di Bruno Munari… sicuramente è allora che ho contratto il germe della ludicità. Anche alcune letture sono state folgoranti: sino a qualche tempo fa ho sempre pensato che la Trilogia degli Antenati di Italo Calvino fosse l’esempio pilota per me – quasi uno spirito guida, pensando al Cavaliere Inesistente – ora, senza pur rinnegare nulla, sono più concentrata su La Coscienza di Zeno di Svevo e Uno nessuno centomila di Pirandello… sarà per l’età che avanza? Credo che per me sarebbe impossibile costruire qualcosa senza un’opportuna struttura, concettuale e teorica, portante; tutti i miei lavori nascono prima nella loro dimensione concettuale, per poi materializzarsi in una forma, certamente fisica, ma spesso molto eterea e provvisoria. (… mi viene in mente che una mia docente dell’Accademia mi diceva sempre che pensavo troppo… !)

A proposito di provvisorietà, hai realizzato una serie di opere in spazi pubblici a dimensione ambientale, con materiali delicati come grafite e velina, ed altre in esterno ugualmente destinate ad una vita breve, crepuscolare. Ti volevo chiedere non tanto il perché della temporaneità, tema che hai sicuramente raccontato in tante occasioni, ma quale urgenza sia dietro l’occupazione di spazi e retine oltre la tradizionale misura della cornice. Pensi che l’arte possa ancora incidere nella società proponendo o sottolineando consapevolmente dei valori? Che dire… francamente non ho proprio la sensazione che l’arte abbia in Italia il rispetto necessario, la normalità e quotidianità che, in un Paese come il nostro – che si bea del suo patrimonio artistico e storico – dovrebbe avere. Se poi parliamo di arte contemporanea, credo proprio che la situazione sia altrettanto franosa che quella di Pompei. Il vivere in una regione marginale, nel campo dell’economia e del sistema dell’arte, è una postazione privilegiata nell’osservazione: l’analfabetismo culturale dovrebbe suscitare lo stesso sdegno che solleverebbe l’analfabetismo tout court. Ogni volta che mi capita di parlare con persone e, soprattutto, giovani di buona cultura, l’artista più “contemporaneo” che si riesce a nominare è Picasso… Quasi normalmente accade di rilevare che, abbastanza trasversalmente, si confonde il gusto personale con la conoscenza. Ovviamente non parlo della nicchia, delle persone che in vario modo si occupano d’arte. Non parliamo solo di antropologia ma, più specificatamente, di politica. Basterebbe leggere l’articolo 9 della Costituzione Italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Sì, credo che l’arte possa incidere, segnare, costruire la società, lo ha sempre fatto… a partire dalla preistoria… Per quanto riguarda il “gigantismo” (relativo) di alcune mie installazioni, a parte tutte le letture che potrei sciorinare, credo che la più opportuna, in questo caso, sia che “l’occasione fa la donna ladra”: in diverse circostanze ho avuto l’opportunità di misurarmi con lo spazio e con me stessa – penso all’esperienza fatta al Museo Fesch ad Ajaccio, al Man Di Nuoro, alla Facoltà di Lettere di Sassari -, di spingere il mio lavoro in una direzione che il lavoro in studio non mi avrebbe permesso…

L’uomo artigiano di Richard Sennett riprende la suggestiva figura del demiurgo, “un composto che unisce l’idea di pubblico (demios: “appartenente al popolo”) e di produzione (ergon: “opera, lavoro”)”. Per Sennett l’abilità nel fare è un dato oggi più che mai fortemente distintivo e nobilitante, un via d’uscita da ciò che è ordinario e frenetico. Pensi che le mani aiutino a pensare (e stare) meglio? Leggevo tempo fa che la sopravvivenza dell’Homo Sapiens e la scomparsa del Neanderthal potrebbe essere dovuta alla capacità di comunicazione. I Sapiens hanno sicuramente creato un linguaggio complesso che gli ha permesso di poter affrontare meglio le avversità della selva selvaggia… penso a quanto sia diverso poter gridare “Attento al leone!” da “UhuuuUUhhh!!!!!!”: il Neanderthal non avrebbe neanche avuto il tempo di pensare “ma, UhuuuUUhhh, cosa???” che il leone se lo sarebbe mangiato! Altrettanto si può pensare delle capacità manuali. Certo nel campo dell’arte, le cose si complicano molto… Non immagino Damien Hirst incastonare diamanti su un teschio o catturare squali e farfalle, Christo e Jeanne-Claude impacchettare personalmente ponti e palazzi, Cattelan scolpire una grande mano di marmo con solo il dito medio… ma penso anche che già i grandi artisti del passato hanno avuto una bottega di maestranze a loro servizio e che, oltre la mano, ci mettessero sempre più la testa. Da parte mia, ho sempre cercato di metterci la testa e ci ho sempre messo le mani: mi piace credere sia un esempio di filiera corta, sperare che sia veramente distintivo e nobilitante… anche se, dico sempre, non scherzando, di non avere grandi abilità manuali.

P.S.: Da moltissimi anni uso lo spazzolino elettrico e, quando mi capita di essere fuori casa e non poterlo usare, mi rendo conto che la mia capacità di eseguire l’operazione manuale è fortemente compromessa… sarà che ho un po’ di dna Neanderthal?

Il Neanderthal – un po’ a fatica – mi ha sussurrato che hai un impegno a giugno. Ci puoi dare qualche anticipazione? Nell’incapacità di vedere la luce in fondo al tunnel, in questi ultimi due, tre anni, ho molto riflettuto sul mio percorso artistico. Già lo scorso anno ho prodotto una serie di lavori in cui, malgrado il soggetto animale, la componente autobiografica e la riflessione sull’arte erano dominanti. I titoli credo siano molto esplicativi,Nell’attesa di avere qualcosa da dire e Non mi ricordo più dove volessi andare. Mi sono concentrata sul fatto che è difficilissimo, nel mondo dell’arte, poter aggiungere qualcosa che sia veramente necessario: tutto è stato detto e fatto, prima e molto bene, da altri. Occuparsi d’arte, sebbene un privilegio, è anche una attività a forte rischio di fallimento ed è facile perdere la bussola… è anche per questo le sculture dell’installazione – realizzate in plastilina – erano accompagnate da un cielo stellato (sul soffitto e sul pavimento). Nella mostra al LEM a giugno continuo a riflettere sulla vita. Il titolo della mostra è Torno Subito!, che è anche il titolo di uno dei lavori. Ho voluto giocare sul fatto che è da qualche tempo che non espongo in una personale a Sassari; adesso, mostrandomi, ricorrerò ad una frase in cui, prima o poi, ci si imbatte, magari dal negoziante di fiducia sotto casa. Indica una momentanea assenza e invita all’ attesa. Il senso di sospensione, di smarrimento e di perdita sono una componente importante del lavoro ma, chiacchierando con Pastorello della mostra, ho avuto conferma che, anche questa volta, il binomio serio e faceto è stato riconfermato!

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