PENSIERI DI LIBERTA' E RISCATTO: NON PIU' POCOS LOCOS Y MAL UNIDOS, MA MEDAS SABIOS E UNIDOS (TRIBUTO AI CADUTI DELLA BRIGATA SASSARI NELL'ALTOPIANO DI ASIAGO)

nella foto di Simone Serra, l'onorevole Mauro Pili autore della riflessione


di Mauro Pili

La prima volta che salii sul Monte Zebio correva il terzo anno dopo l’ultimo Giubileo. Luglio inoltrato. Schieramento ufficiale, con bandiere e stendardi, trombettieri e cori, generali e fasce tricolori. Si inaugurava solennemente il cimitero della Brigata Sassari. A due passi dall’Austria, in mezzo alle montagne. Terra veneta, grazie ai sardi. Monte Zebio, trincea assoluta tra la vita e la Patria. Tutto in un lembo di terra che i Comuni sardi e la Regione Sardegna vollero acquistare per ricordare i caduti della prima grande guerra. Una distesa simmetrica di centinaia di croci, piantumate come un vitigno di vite umane. Radici e rami, nomi e paesi. Una sequenza capace di immobilizzare il respiro, di annodare la voce, di far sobbalzare la frenesia del cuore. Allora i ritmi della cerimonia imposero orari e riti. Oggi tutto è diverso. […]

Una freccia conficcata in un crocevia di montagna indica: Cimitero Brg. Sassari 0.01. […] La prendo alla larga. Mi avventuro fuori tracciato per scorgere dall’alto quel luogo sacro. Anche i pensieri si fermano, quando scorgo quella distesa di croci. Non le avevo mai viste una dietro l’altra, in fila indiana, senza che qualcuno ne ostacolasse la visione d’insieme. A vederle da uno scorcio laterale sembra che le braccia si incrocino, come in un tentativo terreno ed estremo di tenersi per mano. E in effetti qui è nato il Popolo Sardo. Qui, per la prima volta le genti del Meilogu si univano a quelle della Gallura, del Campidano, della Barbagia, del Sulcis. Quella miscellanea di lingue, di connotati, si sarebbero qui, sul Monte Zebio, ritrovati sotto l’unica brigata segnata da un’unica ed esclusiva genia: quella sarda. Il mio personale accerchiamento di quel monumentale simbolo del sacrificio sardo mi porta ai piedi del cimitero. Lo sguardo dal basso verso l’alto amplia la pendenza di quel vitigno tutto sardo. Le targhette appuntate sulle croci parlano una sola lingua: il sardo. Ogni paese la sua croce e un suo figlio. Quanto vorrei stare in silenzio, dinnanzi a questa immane tragedia che molti di noi ignorano nelle dimensioni e soprattutto nel suo profondo valore umano e civile. Mi rimbalza come un martello sull’incudine la convinzione che non riuscirò a proferire parola.

NESSUNO SI È TIRATO INDIETRO

So, però, che in questa giornata, segnata in rosso nel calendario della Brigata Sassari e della Sardegna, non mi è permesso stare a guardare. A nessuno è permesso. Nessuno di quei giovani è restato a guardare. Nessuno si è nascosto. Nessuno è restato nelle retrovie. Nessuno è stato egoista. Nessuno ha scelto di essere lì per un interesse personale. Nessuno si è rifiutato di combattere per la propria Patria e per il proprio popolo. Nessuno si è sottratto dall’elevare in alto l’onore, il coraggio e la fierezza del Popolo Sardo. Tutti, nessuno escluso, erano qui. Consapevoli della loro vita, protagonisti del loro futuro, anche quello più atroce.

MI SONO DIMENTICATO DI DIRVI

Nel 2003 quando andai via da quell’inaugurazione […] sentivo di non aver detto tutto ciò che avrei voluto, sentivo di aver taciuto su ciò che più mi toccava. […]Provo a scalettare mentalmente le mie riflessioni. Ma sento arduo il mio compito. L’emozione incombe come una barriera di massi su un corso d’acqua che vorrebbe finire in mare. Intorno a me ci sono amici di ieri e di oggi. C’è il generale Pino che con me e il sindaco di Armungia volle allora la creazione di questo cimitero. C’è Elisa Sodde brillante presidente dell’Associazione Un ponte tra Sardegna e Veneto, c’è Maurizio Solinas storica guida degli emigrati sardi di Verona, la giovane Adelasia Divona da sempre animatrice culturale dei Sardi in Friuli. Ci sono veneti e sardi. Ex militari, pronti ad emozionarsi ad ogni ricordo più vivo di quegli scontri del lontano luglio del 1916. Non ho molte parole per loro, se pure le meriterebbero tutte, per quel che fanno e per la dedizione al loro popolo e alla loro terra. […] Devo andare al dunque delle tre cose che mi sono dimenticato di dire dieci anni fa. Devo farlo prima che l’emozione mi freghi di nuovo. E allora ci provo.

GRAZIE

Prima di tutto grazie. Grazie a Voi figli di Sardegna che qui riposate in eterno. Non solo per le vostre giovani vite che avete consegnato a queste montagne ma per il grande insegnamento di altruismo che ci avete voluto donare. La vostra fierezza, il vostro orgoglio, il coraggio forte e duro come il granito di Sardegna. Non eravate felici di essere qui, a vivere e subire un massacro quotidiano, ma lo avete fatto consapevoli di cedere la vostra vita per la Patria. Vi ha animato lo spirito quel vostro motto: Sa Vida pro sa Patria. Grazie per aver lasciato indelebile il ricordo di quel vostro sacrificio, quell’ardore e quell’ardire che hanno fatto di voi i Diavoli Rossi. Siete stati uomini che più di altri, e come nessuno, avete gettato il cuore oltre la trincea. Grazie per aver messo da parte le divisioni e aver fatto sentire per la prima volta, seppur in trincea, la forza e l’unità del Popolo Sardo. Grazie figli di Sardegna, per la vostra eterna lezione di vita.

PERDONATECI

A Voi, fanti della Brigata Sassari, che ancora presidiate queste montagne, con le radici piantate in questa zolla di terra sarda, vorrei rivolgere un’accorata richiesta di perdono. Voi, qui, avete lasciato le vostre ambizioni di vita, avete sacrificato ciò che un uomo ha di più caro. Noi tutti avevamo il dovere di onorare questo vostro eterno riposo ereditando quel vostro coraggio e quel vostro testamento. Non lo abbiamo fatto, e di certo non lo abbiamo perseguito con la stessa determinazione e forza dei vostri insegnamenti. A Voi sento di dover rivolgere le mie, le nostre scuse, per non aver onorato sino in fondo il vostro sacrificio. Per aver adagiato la nostra vita in un cantuccio, per aver ammainato la bandiera del coraggio, della fierezza, dell’altruismo. Per non aver tenuto alto quel vessillo del Popolo Sardo. Per non aver saputo onorare quel debito che lo Stato ha contratto con tutti voi. Il Presidente del Consiglio di allora, Orlando, rivolgendosi a Voi disse: “Quando vidi quei valorosi della Brigata Sassari, sentii l’impulso d’inginocchiarmi dinanzi a loro, perché vidi in essi riassunte tutte le virtù dell’esercito. L’Italia ha contratto un grande debito verso la Sardegna e questo debito lo pagherà”. Amati fanti figli della nostra terra, lo Stato non ha mai pagato quel debito che aveva contratto con voi! Debito che noi avremmo dovuto esigere con forza e determinazione, proprio in virtù del vostro sacrificio più grave. La nostra terra resta un landa isolata, senza nessun ponte che la sappia collegare al resto d’Italia e d’Europa. Viaggiare alla pari dei cittadini italiani ed europei è, per la vostra e nostra Sardegna, ancor oggi e più di prima, un miraggio. L’energia è ancora limitata e i suoi costi tagliano fuori la Sardegna da ogni minima ambizione di sviluppo. Lo Stato ci nega strade e ferrovie, l’Europa ci vieta il riequilibrio e ci impone ogni limite alla crescita. Centinaia di migliaia le giovani donne e i giovani uomini che non hanno una speranza di vita, senza lavoro e senza futuro. Non abbiamo saputo difendere sino in fondo quel debito che l’Italia ha contratto con voi tutti, con il nostro Popolo. Per questo sento di invocare il vostro perdono. Non voglio, però, che nessuno di voi possa pensare che questa richiesta sia un salvacondotto per le nostre coscienze. Vorrei che qui, ora e per il futuro, fosse forte e chiaro, solenne e fiero, coraggioso e determinato l’impegno a resistere. L’impegno a rimboccarci le maniche, a dismettere un senso dello Stato che non è con la Sardegna e i Sardi né equo, né giusto. Impegno a rinunciare alle facili enunciazioni per intraprendere una nuova resistenza, tutta sarda, tutta nostra, per onorare sino in fondo le vostre vite e il vostro più profondo senso di libertà. Permettetemi fanti della Brigata Sassari di leggervi qui, nel silenzio di queste montagne, le parole del più forte dei vostri uomini, il capitano Emilio Lussu. A raccontarle è Camillo Bellieni che di ritorno sullo Zebio dopo la prima ferita, trovò Lussu stremato dall’angoscia, ridotto quasi ad un vecchio. “Mi abbracciò – ricorda Bellieni – e gli spuntarono le lacrime. Poi mi disse piano, perché nessuno sentisse: “Sono stanco, sai, di fare il macellaio. Fino adesso avevo fatto l’ufficiale. Ora, invece, bisogna portare gli uomini al massacro senza scopo”[1]. E’ qui, dinanzi alla stoltezza di chi pianificava l’olocausto di centinaia di soldati sardi, che la coscienza di Lussu si ribellò all’ennesimo ordine di ricominciare alle 10 del mattino l’assalto quotidiano. Chiamato dal Comandante la Divisione, ascoltò in silenzio, fermo sull’attenti, le disposizioni, sempre le stesse da quasi venti giorni. I comandanti del 3° battaglione, uccisi, feriti, ammalati, si avvicendavano vertiginosamente, e solo l’aiutante maggiore restava miracolosamente a custodire la continuità del servizio. Generale: “Ha inteso, tenente? Mi dia assicurazioni per un’immediata esecuzione”.

SIGNORNÒ

Lussu: “Signornò”. Il Generale lo guardò con gli occhi sbarrati. Il tenente Lussu, fermo sull’attenti, fissava il superiore parimenti in viso, senza alcuna arroganza. Il Generale: “Come Signornò! Non intende eseguire l’ordine?” Lussu: “Signornò”. “Io la faccio fucilare immediatamente”- rispose il Generale. “Signorsì”- replicò Lussu. Ecco, qui, c’è tutta la lezione morale e civile, rivoluzionaria e responsabile di Emilio Lussu. Uomo legato ai valori nazionali ma capace di ribellarsi quando lo Stato venne meno ai suoi doveri, compreso quello di rispettare i figli di Sardegna e la loro vita.

RIVOLUZIONE SARDA

Oggi, qui e davanti a Voi, sento forte e chiaro il significato più profondo di quel “Signornò”. Noi, guardando questo immane sacrificio del popolo sardo, dobbiamo avere il coraggio e la lungimiranza di un’imponente rivoluzione sarda. Rivoluzione delle nostre coscienze, prima di tutto. Senza bandiere, senza colori, con lo stesso spirito di chi ha anteposto l’interesse primario del proprio popolo a quello personale e di parte. Dobbiamo saper essere rivoluzionari, moderni e innovativi, concreti e costruttivi. Dobbiamo saper rispettare e pronunciare quel “Signornò”. Un Signornò forte e chiaro, libero e coraggioso, rivolto senza arroganza ma con fermezza a chi non salda i debiti con la storia, a chi non misura e compensa i limiti e i divari della condizione insulare della nostra terra, a chi non riconosce il sacrosanto diritto della nostra isola e del nostro popolo di essere alla pari di tutti gli altri popoli d’Italia e d’Europa.

NON ELEMOSINE E FAVORI, MA DIRITTI E RIEQUILIBRI

Un Signornò rivolto a chi, dopo aver ricevuto altruismo e sacrificio, persino di giovani vite umane, non è stato in grado, o non ha voluto, riconoscere a questo fiero popolo di Sardegna non favori ed elemosine, ma diritti e riequilibri. C’è un momento in cui il senso di appartenenza statuale viene meno se prevalgono soprusi, ritardi, ataviche discriminazioni, negligenze e disinteresse. Quelle vostre vite devono essere il segno della nostra eterna resistenza, del nostro fiero coraggio proteso alla difesa ad oltranza di quei diritti e di quella libertà per la quale voi avete sacrificato la vostra miglior gioventù.

REAGIAMO PER LORO

A Voi figli di Sardegna, emigrati in queste terre, l’ambizioso e intimo compito di salvaguardare e proteggere questi luoghi di memoria e di fierezza del Popolo Sardo. A noi che questa sera rientriamo nella nostra isola l’arduo e impegnativo compito di mantenere accesa e di far ardere alta quella fiammella di speranza e di coraggio che i Diavoli Rossi ci hanno consegnato per sempre. Ci attende una missione che ai più può apparire impossibile, quella di abbattere il muro dell’ignavia, dell’indifferenza e della rassegnazione. Ai figli, ai nipoti e pronipoti di questi nostri gloriosi caduti in queste montagne oso dire: onoriamo sino in fondo questi nostri bisnonni, nonni e padri. Non solo con una mesta parola di preghiera. Ma con l’ardore e la passione di chi vuole risollevare alto il vessillo di giustizia e libertà del popolo sardo.

REAGIAMO PER LA LIBERTA’

Non state a guardare, non sentitevi rassegnati e impotenti. Non stiamo a guardare, non rassegniamoci. Reagite, fatelo con il buon senso e con lo studio. Reagiamo. Fatelo con azioni forti e coraggiose per difendere diritti e conquistare libertà. Facciamolo, con fierezza e orgoglio. Perseguiamo la libertà di movimento, libertà di studio, libertà di crescita economica e sociale. Facciamolo anche a costo di qualche Signornò. Dismettiamo quella apatica contrapposizione del niente, abbattiamo gli steccati dei poteri forti che negano alla Sardegna diritti e riequilibri. Ribelliamoci con la stessa abnegazione di chi ha ceduto la vita per la libertà del nostro popolo. Troviamo il coraggio di azioni forti, capaci di illuminare le discriminazioni e le negazioni verso la Sardegna e i Sardi. Dobbiamo essere un popolo coraggioso e determinato. Facciamolo per la memoria di quei tanti figli di Sardegna caduti per questa terra e per il suo popolo. Facciamolo per i nostri figli. Fatelo, facciamolo, per la Sardegna e per il Popolo Sardo. Non più pocos locos y mal unidos, ma Medas Sabios e Unidos. Fortza Paris.


[1] Giuseppe Fiori, Il Cavaliere dei Rosso Mori.

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3 commenti

  1. Grazie di cuore a Tottus in Pari, voce libera e forte degli emigrati sardi nel mondo, per avermi onorato con la pubblicazione integrale di Medas Sabios Unidos.

  2. Uccio Marengo (Cagliari)

    Spero che queste iniziative si concretizzino in un movimento politico e che i Sardi (quelli che amano la Sardegna) diano voce al movimento aderendo in massa. Unidos….più che mai

  3. Augusto Brigas

    Samben Sardu (ed. Pagani Oristano 1923)
    Rispondendo con una poesia alle parole di una lettera paterna, il poeta bosano Mastru Gavinu Ruggiu apre il suo cuore al lettore che può scorgervi l’emozione paurosa della guerra, il coraggio e l’ammirazione per il valore proprio e dei suoi conterranei nell’infuriare della battaglia. Il giovane figlio del fabbro, come tanti coetanei costretto dagli eventi ad imbracciare le armi, scopre in se e nei suoi compagni l’insospettabile coraggio estremo che sa affrontare il fuoco nemico. Scopre il senso del gruppo, l’appartenenza comune alla lontana terra di Sardegna cui un giorno vorrebbe tornare. Il desiderio del ritorno emerge con la speranza gli sia data la possibilità di attraversare ancora il mare in un viaggio inverso fra le braccia dei suoi cari. Allora potrà raccontare loro dell’orrore e del valore, delle cose estreme che gli è stato dato di vedere, dell’orgoglio di essere sardo come i sardi che hanno affrontato il nemico come leopardi.
    Samben Sardu
    M’han su teneru coro infiammadu
    Sas nobiles paraulas paternas,
    E ca s’anima m’han fortificadu
    In sa mente mi ten durar eternas;
    S’amor’e Cairoli han superadu
    In sas tragicas oras odiernas,
    po chi ponzende olvidu a dogni male
    S’unint totu in su proprio ideale.
    In su carsicu nostru altipianu
    Chi de sambene Sardu est cunsagradu.
    Contra de custu esercitu inumanu
    Totu po bois hamos supportadu
    Ca su bonu soldadu sardinianu
    Hat patria e famiglia sempre amadu
    Cun affettu sinzeru e uguale
    Po cale hat una fama universale.
    Ma tet tenner su die radiante
    Chi s’Italia bella finalmente
    Benid’in s’Adriaticu gigante
    In Tirolo e Trentino ugualmente;
    Ca s’esercitu sou trionfante
    L’hat fatta a dogni costu pius potente
    Libera dae barbaros, unida
    E de sas terra suas arricchida
    Tando m’est dadu e passare su mare
    Po torrare in sos brazzos adorados,
    Ch’in sa battaglia, in tantu lacrimare
    Ardentemente istesin’implorados,
    tando bos hap’a poder abbrazzare
    tando nos temus narrer fortunados:
    e torradu a su patriu caru lidu,
    bos conto sos prodigios ch’apo idu.
    Chi calchi cosa ‘e subranaturale
    Tenet su valorosu gruppu Sardu
    Po ch’in su fogu orribile infernale
    Sempre gherrat cun impetu gagliardu,
    e in s’ora pius micidiale,
    tot’han sas forzas d’unu leopardu
    e vomitende fogu sos cannones
    faghen’istrages e distruziones.
    Sun notos sos prodigios de valore
    S’ardimentu ‘e sa prima batteria,
    chi s’est avventurada cun furore
    a fiancu ‘e sa brava fanteria:
    in s’inimigu incutit su terrore
    cunfidada in sa grande maestria
    de su sou valente capitanu
    corazzadu ‘e coraggiu sovrumanu,
    Est sa seconda batteria ancora
    De meritada fama ornada e cinta,
    po chi meda terribile a dogn’ora
    in sos milli duellos s’est distinta;
    sa quarta non l’este inferiora:
    s’esseret tota de sambene tinta,
    tiat sempre resistere in gherrare
    fin’a cantu la tiana sbranare.
    Sa batteria mia veramente
    Est troppu digna d’ammmirazione;
    cando bumbardat, che vulcanu ardente
    totue ponet sa distruzione:
    sa terribile ucca e su cannone
    est su terrore e s’inimiga zente,
    ch’hat trasformadu in carnai umanu
    de Doberdò su duru altipianu.
    De sa brigada Sarda ogni meritu
    Sunt prodigiosos ch’esaltant dogni coro
    Ch’at gloriasas paginas iscrittu
    In su monte Cappucciu a versos d’oro
    Sardigna! Totu curtu han’a s’invitu
    Sos fizos tuos cun s’ardire insoro
    Esulta e canta su dolore biscazza
    Sarda risuscitada inclita razza.
    Scritta da Mastru Gavinu sul fronte del Carso, gennaio 1916
    Trasmette Augusto Brigas di Bosa, nipote del poeta-soldato Gavino Ruggiu

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