NEL RICORDO DI MAMMA PINUCCIA, STORIE DI EMIGRAZIONE E DI VITA FAMILIARE


di Sergio Portas

I Cherchi di mamma venivano da Dualchi. Nonno Domenico nel 1900 aveva venticinque anni e Raffaella Cadeddu la guspinese forse un paio di più,  era venuta in paese per fare la serva in casa del notaio, o avvocato che fosse. Dovete avere pazienza per queste incertezze sui particolari della storia, gli è che mamma ha smesso di respirare il 15 di febbraio scorso, a novantanni passati, e quindi mi manca clamorosamente la fonte primaria a cui attingevo tutta la sardità doc a cui fare riferimento senza tema di errare, che lei fino all’ultimo aveva serbato una chiarezza di ricordo davvero impressionante. Sia come sia zia Paolina e zio Michele sono nati a Dualchi. E tutti  e  quattro sono tornati a Guspini, nonno per lavorare in miniera, casa in vicolo Montevecchio, dove poi siamo nati tutti, zia Nera, zia Angelina, mamma, io e i miei due fratelli. Babbo non ho idea, che  fu il primo di otto di nonno Pasqualino Portas e nonna Antonicca Orrù ( senza contare il piccolo Dante che non sopravvisse): proprietari di casa non lo furono mai e poverissimi sempre, abitarono comunque in quella che babbo comperò al ritorno della guerra di Spagna, in via Santa Maria, a due passi dalla chiesa omonima. Nel ’36 Livio Portas (babbo) aveva 22 anni, nato il 14/4/1914, a suo dire contemporaneamente allo scampanio gioioso della giornata pasquale, ma era uno a cui piaceva inventare storie. Mai che gli sia scappato com’è che , lui comunista, fosse finito a sparare contro i suoi amici di fede politica, nei battaglioni che il Duce mandò a Francisco Franco perché potesse soffocare nel sangue la repubblica che gli spagnoli si erano democraticamente scelti. La vulgata narra che avesse finito il servizio militare col grado di sergente e finì per considerare l’esercito come l’istituzione che avrebbe consentito a lui di mangiare tre volte al giorno (scusate se è poco!), e anche alla sua famiglia dopo. Alla fine, diceva babbo: “sfilammo con il battaglione schierato di fronte sulle ramblas di Barcellona”. E anche allora pensavo ancora che fosse una delle sue storie finché non ci andai per davvero a vedere quanto ampia fosse la rambla. Lui comunque era nato poeta, come accadeva allora in Sardegna, veramente anche disegnava benissimo e pure lavorava la creta ( sue facce di Mussolini per tutte le scuole che frequentava). Il dottor Demontis (Dino) ogni volta che mi incontrava a Guspini soleva raccontarmi di quella volta:” quando venne quella grande nevicata in paese, mi ricordo del suo babbo che in piazza della chiesa aveva fatto quelle statue di ghiaccio con la neve”. Ma sopratutto scriveva poesie, fino nella guerra d’Africa, in Libia, sempre regnante Vittorio Emanuele di Savoia e il Ducione nostro. Babbo mentre combatteva con Rommel a El Alamein e Tobruk scriveva robe tipo: “La  primavera è passata silenziosa/vicino alla trincea ed ha lasciato/ fra l’unghie ladre del reticolato/ un picciol lembo del suo mantello rosa (La primavera in Marmarica, “Sulla frontiera del cuore,Cultura Duemila Editrice). Dopo la Spagna era tornato in paese e si era messo in cerca di una moglie. Allora funzionava così, altro che libro delle facce! Ti squadernavano davanti la disponibilità delle fanciulle da marito, a seconda della classe sociale che la tua famiglia occupava nel paese, e tu mandavi in giro amici a  e parenti a sondare le possibilità. La vulgata dice di due sorelle carine, lui voleva la maggiore, impegnata, le offrirono la sorella, non la volle lui. Provò con Pinuccia Cherchi. A sentire mamma lei il fidanzato ce lo aveva già. Mai parlato con lui naturalmente, solo scambiato occhiate folgoranti tra la strada della messa e quella di qualche via crucis. Dice che faceva il muratore e , alla fine le sarebbe economicamente convenuto, visto gli stipendi dei militari del dopoguerra. Comunque la divisa dovette fare il suo effettaccio, mamma aveva vent’anni e, dopo la quinta elementare, morta zia Angelina di un male tanto misterioso quanto implacabile ,zia Nera ,  la dote fatta in sei anni nelle laverie della miniera, andata sposa a un Ruggeri che era sarto, era rimasta sola in famiglia, che zia Paolina era suora salesiana e zio Michele già carabiniere, già quando era nata lei.   Con l’arguzia dei dualchesi lo zio soleva raccontare, quella volta che era tornato in licenza dal continente, di quella bimba che si era trovato fra i piedi, vicino al caminetto, quando tutte le persone estranee venute a salutarlo erano tornate a casa loro: “E questa quando se ne va?”. Questa, mamma mia, andava a zappare con nonno, a prendere acqua con la marighedda, a lavare i panni al fiume, a cucire da mio zio Silvio. Erano diventati contadini, nonno aveva lasciato mezza gamba in uno dei crolli della miniera di Montevecchio e con i soldi dell’assicurazione si era comprato “le terre”. Che coltivava con l’aiuto dei nipoti neanche adolescenti, i miei cugini Tullio e Augusto Ruggeri. Chissà chi decise che ci si doveva sposare “in tempo di guerra”. Mamma era carina assai, le facevano fin le serenate sotto la finestra di casa, e babbo avrà pensato che avrebbe avuto più fortuna tra le dune del deserto se qualcuna a casa l’avesse aspettato con ansia. Neanche una foto del matrimonio,vestito da sposa cucito dalla sorella di Lesbia Ariu, gli amici di babbo con chitarra e fisarmonica. Nonno con il calesse che porta gli sposi a San Gavino per prendere il treno verso il capo  di sopra, a trovare i parenti, in luna di miele. Mamma ricorda ancora la salsiccia con le fave fresche che gli offrirono. E il treno che si dovette fermare perché un aereo inglese si mise a bombardare e tutti i passeggeri dovettero scendere e buttarsi sulla massicciata. E scommetto che babbo finalmente ne approfittò per cingere le spalle della sua freschissima sposa. Che, secondo me, di cosa dovesse fare poi con lui in “luna di miele” pochissimo ne sapeva. Che più che suore e preti non aveva frequentato fino allora. Però babbo poco prima di morire dieci anni fa a ottantanove anni, ogni tanto le diceva  se si ricordava di “quando facevano l’amore”, e dormi gli rispondeva lei, ma le scappava da ridere quando me lo confidava. Sapete che io vado scrivendo storie d’emigrazione. Io e mamma abbiamo dovuto seguire il reggimento carrista dell’Ariete. Prima in giro per la Sardegna, ad Abbasanta ( dove mi presi i pidocchi, avevo un anno, era il 1947), poi a Cagliari. Lì tentai di fare fuori mio fratello nato nel frattempo, gli misi in bocca una molletta per stendere i panni, ma il vile non la volle inghiottire. Lo splendore della sabbia del  Poetto di allora per un bimbo di quattro anni, l’odore di quel mare che così salato non l’ho trovato mai, le macchinine a pedali a noleggio nei bastioni, il pane e marmellata che mi offrivano a merenda i colleghi di babbo in caserma. L’odore di una caserma, che riconosco a occhi chiusi fra i mille della terra. Si torna a Guspini, babbo segue in continente il reggimento, e nel ’51, a settembre come sempre per noi nasce mia sorella Graziella, a settembre che a dicembre l’esercito ti manda in licenza e “si può fare l’amore”. Poi anche noi col reggimento a Verona, dove andai in prima elementare. Mamma imparava con me le poesie a memoria, curava i miei fratelli, cuciva i vestiti per noi figli e per lei ( a tagliare era meno brava). La vecchia “Singer” sempre ben lubrificata. Faceva da mangiare, lavava e stirava, lavatrice era parola che ancora non si era imposta nel lessico comune. Nè frigorifero, tantomeno telefono o televisore. Con uno stipendio “da fame” e la carne a lesso solo la domenica. Mai visto una banana, che allora era considerata “frutta esotica”. A Verona l’inverno era una roba diversa che a Guspini e la neve che cadeva non si scioglieva nel giro di un’ora come l’aveva vista fare in Campidano. Le case erano senza riscaldamento, ma a Guspini almeno c’era il camino e il forno di nonna Raffaella ( mamma era brava nell’individuare il colore del forno quando si doveva cuocere il pane, non era invece mai stata capace di imparare bene a setacciare la farina di grano con “su
scetti”, il setaccio più fine). Babbo riuscì a farsi pubblicare un libretto di poesie:”Greto allegro”, a pag.11 “A Sergio la mia prima poesia”, ne andavo molto fiero. Poi il reggimento andò a Legnano e poi a Busto Arsizio e lì ebbe la buona creanza di fermarsi. E noi con lui finimmo di fare i girovaghi. Mamma sempre a sfacchinare per tenere in piedi la famiglia, ma imparò anche ad andare in bicicletta per poter andare al mercato “dove si risparmia”. Sempre con la testa rivolta alla Sardegna dove pure babbo avrebbe voluto ritornare, una volta in pensione, ma i figli e i nipoti erano oramai continentalizzati e la cosa non venne mai veramente presa in considerazione. Ultimamente  mi diceva :”Ma il paradiso ci sarà veramente?” Come diceva quel tale emigrato da Ghilarza, quel Nino Gramsci tanto amato da babbo, quando discuteva di religione con sua madre, Peppina anche lei come la mia Pinuccia, (lettera dal carcere 15 giugno 1931): “ Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli”.

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