I REPERTI DI ORROLI: LA VERITA' E' RIVOLUZIONARIA SE SI VIVE NELLA MENZOGNA

nuraghe Arrubiu


di Omar Onnis

Nei pressi di Orroli (CA) si trova uno dei siti archeologici più significativi e belli della Sardegna. Non è una cosa da poco, data la nostra ricchezza in tal senso. Domina la scena il nuraghe Arrubiu, unico nuraghe pentalobato (circondato da cinque torri) fin qui documentato. Ma l’intera zona restituisce strutture e resti di vario genere, in parte scavati e studiati in parte ancora no. La notizia di questi giorni è che in una “tomba dei giganti” non lontana dal grande nuraghe sono stati ritrovati dei reperti che farebbero retrodatare la produzione di statuine bronzee e altre suppellettili, fin qui generalmente attribuite a un periodo successivo. Per i reperti di Orroli si parla di XIII secolo a.C., mentre solitamente i “bronzetti” vengono datati tra IX e VII secolo a.C. Quest’ultima datazione ha lasciato supporre, fin qui, che la produzione di tali manufatti fosse successiva all’età nuragica vera e propria (ossia quella in cui si edificavano le grandi torri dette nuraghi) e fosse frutto della “colonizzazione” fenicia, comunque di influenze esterne, più evolute. Una datazione così alta, come quella riscontrata nei reperti di Orroli, falsifica alla radice tale tesi, costringendo ad attribuire la produzione dei bronzetti e il traffico di altri oggetti votivi di valore a un’epoca in cui i “fenici” (qualsiasi cosa si intenda con questa definizione) non si erano ancora affacciati sul palcoscenico della storia umana. Di qui i titoli roboanti e – probabilmente – le ulteriori polemiche che seguiranno. Solo in Sardegna una scoperta archeologica assume i connotati dello psicodramma. Solo qui una notizia di carattere scientifico e/o storico può scatenare diatribe, scomuniche reciproche, odi viscerali. Non si capisce perché se non si guarda all’intera questione con sguardo distaccato, obiettivo. Nel discorso hanno il loro grandissimo peso tanto questioni politiche, quanto questioni più materiali e immediate. Da tempo la storia e l’archeologia della Sardegna subiscono la pressione di una egemonia culturale che vuole l’Isola come una appendice marginale e periferica del contesto storico italiano, esclusa dalle correnti principali dei traffici e della cultura, isolata e preda delle mire delle potenze di tutte le epoche, sempre dominata, tutt’al più resistente (alla civilizzazione). La civiltà nuragica non può essere facilmente inserita in tale quadro, perciò è sempre stata classificata come una cultura preistorica, magari originale, per certi versi notevole, ma senza particolare rilevanza generale, comunque subordinata alle grandi civiltà coeve ed immediatamente soccombente al primo arrivo di dominatori stranieri. Che solitamente sono considerati i fenici. Intere carriere accademiche sono fiorite sul conformismo rispetto a tali tesi. Tutto un apparato di nozioni e informazioni è stato costruito e veicolato in termini didattici e divulgativi basandosi su tale visione del nostro passato. Ogni elemento che se ne discostasse è stato sempre osteggiato, marginalizzato, ridimensionato o banalmente omesso. Ricordiamo tutti quale destino ebbero i Giganti di Monti Prama subito dopo il loro ritrovamento: chiusi dentro scatoloni, a loro volta relegati nei magazzini dei musei di Cagliari e di Sassari. Eppure si trattava di una delle scoperte più sensazionali degli ultimi decenni, a livello mediterraneo. Allo stesso modo non si è gran che parlato dei ritrovamenti “nuragici” fatti a metà degli anni Novanta dall’archeologo Giovanni Ugas in area palestinese. Sulla capacità di scrivere dei “nuragici”, poi è in corso una violenta diatriba accademica (ed extra-accademica) di cui non si intravvede una possibile conclusione pacifica. Persino la constatazione che i “nuragici” probabilmente avevano confidenza col mare a lungo è stata una tesi eretica e solo di recente riesce ad emergere dalle nebbie della rimozione, eppure a suo modo è una questione persino banale. Nei nostri musei, nelle nostre università e spesso nel nostro stesso immaginario hanno più spazio fenici, cataginesi, romani e poi bizantini, pisani e spagnoli di quanto non ne abbiamo noi stessi, oggetto misconosciuto della nostra stessa memoria collettiva. Tale opera di sminuizione e rimozione di dati, scoperte, reperti, dell’intera vicenda storica di una collettività umana, non ha fatto altro che provocare una reazione quasi ossessiva, una nevrosi megalomane ed etnocentrica, che vede la Sardegna come ombelico del mondo, centro motore della civiltà umana, patria di ogni possibile meraviglia del passato. Le risposte che la storiografia e l’archeologia ufficiali non possono (o non vogliono) dare, gli appassionati se le danno da sé. Il che getta la responsabilità di ogni degenerazione e falsa mitologia non tanto sui fanta-archeologi o sui fanta-storici (che hanno tutto il diritto di fantasticare e di provare a persuadere gli altri delle proprie ossessioni, magari facendoci un po’ di business intorno), quanto precisamente sui veri esperti, sui professionisti e sugli accademici, che hanno abdicato al loro ruolo scientifico e civile. Il che, appunto, ha dei risvolti pratici  evidenti (carriere universitarie, accreditamento presso il sistema culturale italiano, quieto vivere), ma anche altrettanto evidenti risvolti politici. Inevitabilmente, infatti, l’estendersi della coscienza collettiva sul nostro passato, fondata su una conoscenza strutturata, metodologicamente e didatticamente corretta, avrebbe delle connessioni con la sfera del nostro esistere come soggetti di diritto e con la percezione di noi stessi come comunità umana a sé stante. La capacità di situarsi (come dice Bachis Bandinu), di ubicarsi nel tempo e nello spazio, è la base su cui si costruiscono i processi di identificazione e di appartenenza. Ecco perché suona così rivoluzionaria una scoperta che altrimenti sarebbe sì significativa, ma senza connotazioni troppo clamorose. È solo il nostro complesso di inferiorità e il conseguente sfogo megalomane del medesimo a costringere un evento altrimenti ordinario nella sfera della straordinarietà. Non della straordinarietà scientifica, ma della straordinarietà mediatica e politica. Vedremo ora come reagirà l’Accademia. Certamente molti archeologi sosterranno di aver sempre saputo quanto sta emergendo dagli scavi di Orroli, di aver da tempo ipotizzato ciò che oggi i mass media presentano come sensazionale ribaltamento delle conoscenze acquisite. Altri faranno i pesci in barile, forti della propria intoccabilità. Gli entusiasti della fanta-archeologia, dal canto loro, grideranno di gioia e di soddisfazione, trarranno spunto dal fatto specifico per portare acqua al proprio mulino. E i mass media faranno la loro parte nella manipolazione dell’opinione pubblica, secondo la convenienza del momento. Siamo messi così. Solo una sana riappropriazione della nostra storia potrà in futuro scardinare questo meccanismo perverso di disinformazione ed autoesaltazione, di guerra tra tifosi di tesi contrapposte basata sull’ignoranza diffusa. E sarà sempre la sana riappropriazione della nostra storia a scardinare il mito fasullo e mortifero della nostra estraneità alla storia dell’umanità, di cui non siamo la parte più significativa, ma nemmeno quella più negletta e oscura. Ne siamo una parte, però, come gli altri popoli mediterranei, europei, del mondo. Da qui verrà la forza necessaria per liberarci dei nostri complessi di inferiorità e di tutte le loro conseguenze nefaste, a cominciare dalla deresponsabilizzazione economica, culturale, civile e politica che ne è l’effetto peggiore, l’unica vera costante di cui sono portatori i sardi, da duecento anni in qua.

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