IL WORKSHOP A NUORO DELL'ISTITUTO ETNOGRAFICO DELLA SARDEGNA: OVVERO COME ORGANIZZARE UN GRANDE EVENTO E PERDERSI NEI DETTAGLI

i partecipanti al workshop ISRE con la nostra Adelasia (la terza partendo da destra)


di Maria Adelasia Divona

Quando il Presidente del Circolo mi ha segnalato il bando dell’ISRE sono rimasta molto colpita. Prima di tutto perché nella mia immensa ignoranza non sapevo che esistesse un Istituto Etnografico della Sardegna, e poi perché non sapevo che esistesse a Nuoro un festival internazionale del documentario etnografico, che peraltro ha anche una lunga storia: quest’anno si festeggiano i trent’anni dell’Istituto e la XII edizione del Sardinia International Ethnographic Film Festival, che si tiene nel capoluogo barbaricino ogni due anni. Non è un evento da poco: quest’anno ci sono 43 film in concorso provenienti da tutto il mondo (di cui 5 sardi) selezionati tra 256 da una giuria internazionale iper qualificata di antropologi visuali e documentaristi. Ogni due anni, il festival è anticipato da una settimana di workshop di antropologia visuale tenuto dai coniugi MacDougall (che sono nella giuria del festival) che ormai sono degli abitueè dell’Isola, a partire forse da quel documentario del 1993 intitolato “Tempus de baristas” in cui David ha raccontato la vita e le aspettative di tre pastori di generazioni diverse di fronte all’incertezza degli anni ’90. Insomma, è un evento non da poco che porta riflettori di livello sulla città e sull’Isola. Basti pensare che quest’anno il Festival è stato aperto da Bellas Mariposas, del dorgalese Salvatore Mereu dall’omonimo romanzo di Segio Atzeni, già presentato nei giorni scorsi al festival del cinema di Venezia.

Atterro ad Olbia giovedì 6 settembre, e c’è una macchina ad attendermi per portarmi a Nuoro. In tanti anni di girare per workshop e scuole estive, in Europa, in Italia e in Sardegna, non mi era mai successo. Davvero: dopo la comunicazione inviatami dall’ISRE per informarmi che la mia candidatura per il workshop era stata accettata, l’entusiasmo è aumentato al sapere che avrebbero mandato qualcuno a prendermi…mi sono sentita molto VIP, e ovviamente le aspettative sono aumentate. Il ragazzo che mi è venuto a prendere è lì con un cartello, ci salutiamo, salgo in macchina, e timidamente mi chiede se sono italiana…la risposta è “Deo so sarda” (basterebbe solo il nome, in realtà, ma riscontro sempre con dispiacere che la storia sarda è un optional per i più, per non parlare di come me l’hanno storpiato nell’attestato di partecipazione…) e il giovanotto tira un sospiro di sollievo rallegrandosi perché non parla una parola di inglese, e mi racconta che il giorno prima ha preso degli stranieri in altri aeroporti dell’isola con i quali non è riuscito a spiccicare una parola. Vengo poi a sapere che lascerà me a Nuoro e andrà a prendere un’altra persona a Cagliari, ovvero quella che per qualche ore sarà la mia compagna di stanza direttamente arrivata per l’occasione da New Delhi (finché causa tosse, malanni vari e insonnia conclamata, non sono riuscita a conquistare una stanza singola facendo cambio con una collega). Si, perché nonostante un pick-up individuale nei diversi aeroporti dell’Isola (con gli attuali costi della benzina, forse, si poteva organizzare in maniera più razionale, ma è anche vero che viabilità e trasporti non sono la nostra punta di diamante), le stanze non sono singole ma doppie, il che è quantomeno insolito…però a caval donato non si guarda in bocca: perché se è vero che i partecipanti si fanno carico delle spese di viaggio per raggiungere la Sardegna, è anche vero che l’ISRE (con i bei soldoni elargiti da mamma RAS) ospita a sue spese i partecipanti al workshop per la durata dello stesso, ma anche per tutta la durata del festival. Stessa cosa ovviamente per tutti i registi e gli autori presenti con una propria opera al festival, ai quali suppongo che giustamente vengano anche coperte le spese di viaggio. Praticamente, se il lavoro me l’avesse consentito, sarei potuta restare in quasi villeggiatura dal 6 al 22 settembre.

Arrivo all’hotel (che per carità cristiana eviterò di nominare) e trovo una specie di receptionist che in modalità cane da guardia mi da le chiavi della stanza: è da lei che scopro che dovrò dividerla con un’altra ragazza. Prendo le chiavi e vado su: stanza graziosa, pulita e in ordine (anche se il bagno che avrò poi nella stanza singola, si dimostrerà un vero gioiello dell’interior design: doccia con calorifero e finestra incorporati!). Vado in giro in perlustrazione e scopro che, contrariamente a quanto accaduto nelle mie esperienze precedenti, non c’è una cartellina in cui leggere un messaggio di benvenuto e il programma della settimana. Niente di niente. Decido allora di scendere giù a chiedere: la receptionist respingente mi dice che lei sa solo che mangeremo da loro a pranzo e a cena. Nessuna informazione, e allora vado un giro in centro, che per fortuna è vicino. Io a Nuoro ci sono nata, ma la conosco proprio poco (ora, dopo una settimana trascorsaci, un po’ di più). Alcune cose mi colpiscono: una piazza di cemento armato circondata da alberi che chiamano “i giardini” (???), gli adolescenti e i giovanissimi che riempiono i tavoli all’aperto dei bar alle cinque di pomeriggio e, nel giro di poche centinaia di metri, tre aree self service piene di macchinette che distribuiscono junk food e bibite analcoliche ad uso e consumo dei pre-adolescenti. Quello che mi sorprende di più sono i tantissimi ragazzini in giro, tanto da farmi venire voglia di dare uno sguardo alle statistiche demografiche del capoluogo. Altra cosa che mi sorprende, ma molto più tristemente, sono le continue deiezioni canine che mi costringono a slalom improbabili. Il criticismo della nordestina che sono diventata…

Tornata in albergo per cena trovo i primi colleghi: ci hanno sistemato in tavoli da quattro, ma chiediamo che dal giorno dopo ci mettano in una tavolata unica, così da poter socializzare e esplorare le peculiarità di ognuno. Nel mio tavolo c’è Federica, giovane antropologa in erba di Valledoria che studia a Torino. Ci informa che nel week end ci sono le Cortes Apertas a Bitti e le Pastorìas a Fonni, e che sarebbe bello andarci anche per raccogliere un po’ di materiale etnografico per i nostri progetti. Lei dice che ha la macchina, e che potremmo organizzarci con altre macchine per andare tutti insieme. Al personale scostante della reception fa da contraltare (San) Sebastiano, il nostro cameriere: super gentile, ma con poca voce in capitolo riguardo al nostro menu…ma se non altro ci consente combinazioni alternative tra contorni e primi piatti che ci consentono la sopravvivenza. Il cibo di questo posto meriterebbe un articolo a sé stante: quantità limitate e qualità quasi infima, riciclo di avanzi e niente di sardo (ad eccezione del pane carasau) sperimentato in una settimana, tant’è che mi sono sentita in dovere di comprare della salsiccia e del formaggio da offrire ai colleghi affinché potessero provare un po’ di taste of Sardinia. Ciò nonostante, scopro dai nativi che il posto è rinomato per la sua cucina, e meta di battesimi e matrimoni. La prova provata del nostro mangiar male arriva il lunedì, quando ci mettono nel menù gli avanzi del battesimo della sera prima: tutto molto più buono del solito, ma pur sempre avanzi. Fastidioso poi, cosa che non mi era mai successo di sperimentare, che i MacDougall occupino un tavolo appartato e non si uniscano ai partecipanti al workshop: la ragione sta in un menu differenziato loro destinato che prevede diversi tipi di prelibatezze. Memore delle mie esperienze precedenti, in cui professori di fama mondiale hanno condiviso i loro pasti con gli studenti, l’ho trovato proprio di cattivo gusto. Ma mi sono anche domandata se i soldi di mamma regione non siano bastati a far mangiare tutti con lo stesso standard.

Il venerdì è il primo giorno di workshop: i due MacDougall sono una bella coppietta senza età che si presenta molto amichevolmente. Iniziano spiegandoci che sarà una settimana molto tecnica e poco teorica e ci consegnano i materiali rilegati per i nostri approfondimenti teorici, dandoci anche il programma della settimana. Il workshop inizia, e io penso: ma non c’è nessuno che viene a presentare l’ISRE? Cos’è, cosa fa, cosa produce? Non so, per esempio a dire che si tratta di una istituzione regionale che può fare quello che fa perché la RAS le riserva nel suo bilancio una certa quota del suo budget… Per esempio a dire che esiste una biblioteca etnografica e che fanno anche delle pubblicazioni proprie, oppure che hanno anche un catalogo di film etnografici e, ad esempio, come si fa per accedervi…Certo, queste cose potevano dirle, ma non l’hanno fatto. Solo il direttore si è presentato il lunedì per un saluto sbrigativo. Inizia il workshop e vorrei prendere appunti, e come me i colleghi: io porto sempre con me il mio maxi quadernone, ma questa volta ho deciso di lasciarlo a casa pensando che come sempre accade mi avrebbero dato un blocco e una penna. E invece niente. Allora mi alzo e vado in un ufficio a chiedere un po’ di fogli bianchi per scrivere, sentendomi chiedere “Perché, non avete dove scrivere?”. Porto i fogli in sala e li distribuisco ai colleghi. I famosi block notes, con la dicitura SIELFF 2010 (cioè la scorsa edizione del festival) faranno capolino solo due giorni prima della fine del workshop, quando ormai non servono quasi più. Invece ci mettono a disposizione dei supporti tecnici che ci torneranno utili nell’utilizzo della videocamera durante le nostre esercitazioni serali.

Finisce la prima mattinata, e decido di chiedere al referente lì presente una serie di informazioni. Siccome ho presentato la mia candidatura al workshop con un progetto che riguarda la raccolta delle testimonianze di emigrazione dei soci più anziani del circolo di Udine, decido di darmi da fare nella mia veste di responsabile della cultura. Chiedo allora come fare per poter ricevere sotto forma di donazione le pubblicazioni dell’ISRE per ampliare la biblioteca del circolo, e chiedo anche come fare per accedere ai film prodotti dall’Istituto e per proporne la visione a Udine nella nostra sede. Vengo rimandata a un fantomatico responsabile della biblioteca, al quale chiedo udienza attraverso l’intermediazione di Natalino Piras, nostro amico a Nuoro. Niente da fare: muro di gomma, non mi concede udienza e rimanda ad una richiesta ufficiale da parte del Presidente del circolo. Nel corso dei giorni, chiedo poi un po’ di supporto per organizzare delle attività in cui poter svolgere le nostre esercitazioni, ma anche godere delle bellezze del nuorese: ad esempio, darci una macchina per recarci tutti insieme a Bitti e Fonni, o aiutarci a trovarne una tramite qualche autonoleggio, ma anche organizzare un’ultima cena in un agriturismo per mangiare decentemente almeno una sera, dato che quello che ci propinano è veramente penoso. La risposta è stata su tutti i fronti “non si può, non è previsto, il problema non si è mai posto”. Per un momento mi è sembrato di essere a Trieste, dove la risposta classica ad una richiesta è sempre “no se pol”.

Alla fine abbiamo fatto quel che abbiamo potuto: con la macchina di Federica e quella di Cristina, etnomusicologa di Ravenna e amante della Sardegna, siamo andati un po’ in giro facendo i turni per i posti in macchina. Bitti e Fonni ci hanno accolto con quel calore che credo solo le nostre zone dell’interno sanno trasmettere, ed anche io, non essendoci mai stata, me ne sono innamorata. A Bitti abbiamo trovato prodotti squisiti, persone accoglienti e i Cavalieri Bittesi che ci hanno ospitato per cena, preoccupandosi anche delle colleghe vegetariane (cosa che non è accaduta in albergo). Gli Urthos e Buttudos a Fonni sono stati i miei soggetti per l’esercitazione del lunedì, ma anche la vecchina che intrecciava le corbulette sulla porta di casa circondata dalle sue vicine, che le toglievano dalle spalle il maglione logoro (perché “in televisione” si vede che è brutto) e mi dicevano di non riprenderle le gambe gonfie e livide. Siamo poi andati sull’Ortobene a guardare il tramonto dalla statua del Redentore, e abbiamo “girato” per l’esercitazione del giorno dopo.

Il workshop si è concluso il giovedì, ma molti hanno deciso di restare per il festival, data l’ospitalità offerta dall’ISRE. Ultima cena in un ristorante pizzeria vicino all’albergo dove abbiamo pagato alla romana. Essendo il venerdì un giorno libero da impegni, con Federica abbiamo organizzato una gita nel nord dell’Isola: a Stintino a casa mia, poi Castelsardo e cena per dieci a Valledoria preparata dalla madre di Federica a base di zuppa di pesce con fregola, grongo in agridolce e casu marzu bagnati da tutti i vitigni che popolano il nostro territorio, ed alcuni di noi che sono rimasti a dormire là. A sentire il nostro programma, il commento di Judith MacDougall, moderna Margareth Mead, è stato: “E’ ammirevole che tu e Federica vi diate così tanto da fare per portare in giro gli altri”. Ci ho messo quasi dieci minuti a spiegarle che nonostante lei fosse convinta che l’ISRE “is taking good care of us” (ma probabilmente l’us non era collettivo, ma si riferiva solo a lei e suo marito), l’ospitalità sarda è tutta un’altra cosa, fatta di sapori, gusti, paesaggi, gesti e a me e Federica veniva naturale fare in modo che gli altri godessero fino in fondo della loro permanenza da noi, per poi tornare a casa con i nostri colori negli occhi. Questo siamo noi. E anche i dettagli hanno la loro importanza. Ma a noi, sardi che abbiamo preso parte al workshop, è parso che l’organizzazione non se ne sia curata. Un’occasione persa, a mio giudizio, per rendere l’evento una vetrina per la nostra Isola, e con la consapevolezza che quello che facciamo noi qua fuori con poche risorse e una fatica mostruosa per promuovere la Sardegna, là dentro non solo non viene considerato, ma viene anche sciupato.

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3 commenti

  1. Licia Pinna (Alessandria)

    Cesss!Altro che odissea nello spazio…..incredibile credibile.Anche questo e’ “SARDEGNA”….

  2. "Questo siamo noi" . Noi siamo anche quei ristoratori non ospitali; quell’autista che non può comunicare con i passeggeri perchè non conosce una lingua straniera; quella "vecchina" messa lì per l’occasione,,,
    Mariposas e cavalieri; pastori e minatori; ex pastori ed ex minatori;
    Cara Adelasia (Sardianian mithos) non puoi pensare di incasellarci così semplicemente.

  3. Gentile Giovanni,
    “questo siamo noi” serviva a sottolineare quanto di positivo resta dell’immagine dei sardi di chi, venendo da fuori, incontra la nostra cultura. A questo dobbiamo molta parte della riconoscibilità del carattere della nostra gente. Ovviamente, nessuno si illude che sia tutto così o sia solo così, e concordo con te che, tristemente, “anche” questo siamo noi, cioè il rovescio della medaglia in cui mi sono imbattuta (a parte la vecchina, che puoi credermi, non era lì per l’occasione, ma cercava di tirar su qualche soldino mentre si preoccupava che non me ne stessi seduta sull’asfalto a prendere freddo mentre la riprendevo).
    Ciò detto, considera la frustrazione di chi riconosce un uso poco oculato delle risorse pubbliche in una circostanza in cui si dovrebbe fare il possibile per canalizzare energie e risorse (per l’appunto) quantomeno a scopo promozionale. A me pare tanto che di questo passo, altro che cavalieri, pastori e minatori…non ci resterà che sentir belare le pecore.

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