UNA FIABA D'ALTRI TEMPI PENSANDO ALLA LONTANA MONTEVECCHIO: INCONTRO A MILANO CON ROSALBA MARIANI PER IL LIBRO "MINIERA"

 

Rosalba Mariani


 
di Sergio Portas

Un mese prima di firmare la concessione mineraria sui terreni di Montevecchio al sassarese Giovanni Antonio Sanna, il 28 aprile del 1848, il re di Piemonte Carlo Alberto di Savoia, a seguito dei moti milanesi (le oramai famose 5 giornate di marzo) e del trambusto rivoluzionario che infiammò tutta Europa, aveva firmato il cosiddetto “Statuto Albertino” che, bene o male, resse le sorti d’Italia per un centinaio d’anni. Era fino venuto in Sardegna, nel ’29, il giovane principe che comunque parlava quattro lingue e si intendeva d’economia. Solo un anno dopo  moriva in esilio ad Oporto dopo aver abdicato a seguito la sconfitta di Novara ad opera del Radesky. Insomma quando nel 1948 si festeggiarono i cento anni della miniera io avevo due anni, vivevo a Guspini e nonno Cherchi, capesusesu di Dualchi classe di ferro 1875, era vedovo da due anni e stava con noi. E da Dualchi a Guspini anche lui era venuto, all’inizio del secolo, per lavorare come minatore alla miniera di Montevecchio. Tutto questo per dirvi che a leggere il libro di Rosalba Mariani: “Miniera”, Carlo Delfino editore, provo un’emozione del tutto particolare. Il libro dice della famiglia Mariani, il babbo di Rosalba è il dottore, “su dottori”, di Montevecchio fin dal 1907 ma contemporaneamente non riesco a non pensare che fu proprio quel dottore a rimettere in sesto la gamba di nonno, quando rimase sotto il crollo di una delle gallerie. E da allora non camminò più come prima. E di queste storie i guspinesi ve ne potrebbero raccontare a centinaia. Rosalba Mariani ci racconta la sua da una prospettiva del tutto particolare e diversa, che la sua era una famiglia borghese a tutti gli effetti che frequentava quelle dei padroni la miniera, i Sanna Castoldi, nonché quelle dei dirigenti e dei tecnici, chimici ingegneri e geologi. Insomma la classe dirigente di allora. Per farlo meglio usa parte delle migliaia di lettere che ha ricevuto in eredità dalla sorella Silvia che, quando lei è nata ultima di sette era la secondogenita ed aveva già 20 anni. La piccola Rosalba quindi venne su in un mondo di grandi: “La famiglia l’accolse come un giocattolo vivente e tutti facevano a gara per accudirla.” (pag.80). “ Rosalba godeva tuttavia di una sovrabbondanza di figure materne, e tra tutte ne scelse due. La sorella Silvia e la cuoca Efisia, ed erano amori diversi ma fortissimi… Silvia era l’amor sacro, Efisia era l’amor profano, però era anche una figura un po’ spaventosa, come quando tirava il collo alle galline, senza un briciolo di pietà per quelle povere bestie che urlavano e si dibattevano.” (pag.81). Per sposarsi i genitori di Rosalba avevano avuto bisogno di un sensale che garantisse per l’onestà dello sposo che faceva la domanda, le buone maniere non consentivano che egli si potesse riferire, anche per lettera al padre di lei. “Tutto questo in barba al diritto alla privacy delle ragazze, che peraltro di diritti ne avevano ben pochi”. ( pag.23).  Fortunatamente il dottor Attilio fu ritenuto idoneo dal suocero, anche lui medico, e la coppia approdò in quel di Montevecchio nel 1911. “Nel 1911 il centro minerario aveva quell’aria un po’ fatata di certi paesini di Andersen, dove ogni persona pareva fosse lì solo per interpretare un personaggio: c’erano il ciabattino, il barbiere, il lattaio, il magazziniere, il capo delle guardie; c’erano anche il vetturino delle carrozze e il maestro elementare. Tutto pareva avvolto da un’aura misterica, che vive ancora, ed è lì a disposizione per chiunque sappia leggere i luoghi con occhi antichi e sapienti.” (pag.35). Questo è l’incedere del libro, una sorta di fiaba d’altri tempi, non priva di asprezze come tutte le fiabe del resto: un carissimo zio che muore nell’impresa libica del ’37, una nonna strangolata da due balordi a Dorgali che pensavano di rubare chissà cosa, e malattie che tardano a guarire. Ma sia le due guerre mondiali, sia il fascismo, passano lievi nella storia della famiglia Mariani, anche perchè Rosalba di esse ha solo sentito dire, non le ha vissute in prima persona. E quando ha cominciato a calpestare da sola il giardino di delizie della sua fanciullezza era oramai tutto ( quasi) finito. E allora i suoi ricordi sono magicamente rivolti a quel trenino che trasportava il minerale , quella “stradina del binario” che a primavera ti faceva scoprire all’alba, a migliaia, i nontiscordardimé, azzurri e celesti, le scarpette della Madonna, confezionate in finissimo velluto color porpora, e poi macchie viola di ciclamini, di margherite bianche e gialle, accanto ai bucaneve e alle orchidee selvatiche (pag.91). E che dire dei profumi? Nessuna odalisca del più ricco dei maharajah ne aveva mai posseduti altrettanti (ibidem). In quel tempo i maschi della famiglia vanno all’università, a Cagliari, le femmine cercano marito tra i buoni partiti che arrivano ciclicamente a lavorare per la miniera. Che ha la sua di storia , geologicamente parlando, con le vene dei minerali che vanno mano a mano impoverendosi. E anche le classi dirigenti che si susseguono sembrano subire la medesima sorte di impoverimento. Dal punto di vista del dottor Attilio Mariani la situazione sanitaria e ospedaliera si presentava sicuramente come ottimale. Quando lui arrivò c’era un ospedale  vero luogo di eccellenza per quelle zone poverissime, dotato di attrezzature all’avanguardia, gabinetto radiologico, trenta posti letto e scorte di medicinali gratuiti per tutta la popolazione. Inutile dire di quale considerazione fosse ammantata la figura de “su dottori”, quando ancora le popolazioni sarde si curavano per lo più con medicine tratte dalle erbe e coi riti magici delle “guaritrici”. “Le condizioni di vita del minatore erano solo un po’ meno disumane di quelle degli anni precedenti quando la gente, uomini, donne e persino qualche bambina di undici o dodici anni, partiva, prima dell’alba, dal paese e percorreva a piedi anche 10 chilometri per arrivare nei luoghi di lavoro” (pag.39). E anche a questo proposito, naturalmente potrei citare il nome di zii e zie che per anni fecero questo tragitto da Guspini a Montevecchio, magari per garantirsi il corredo da sposa. E un po’ mi viene da piangere a pensare quanto lavoro, quanto dolore e sacrificio c’è voluto per costruire la Guspini di oggi che può vantare rubinetti di acqua calda e fredda in ogni casa e , udite udite, un gabinetto dotato di tutti i comfort, per non parlare della raccolta differenziata dei rifiuti che si fa casa per casa, altro che “muntonasciu”! Quando il dottor Mariani va in pensione e la famiglia si trasferisce a Cagliari viene l’occasione per Rosalba di frequentare scuole di prestigio, il classico “Dettori” e poi l’università che la laurea in giurisprudenza. Si sposa anche con un giovanotto della nobiltà cittadina, con cui ha tre figli. E dal ’69 la fatal Milano. Che è città che si ama totalmente, visto che molto offre a chi la vuole scalare e vivere, o che altrettanto totalmente si odia, per la frenesia del suo affaccendarsi, per i suoi ritmi diversissimi dai vagamente levantini della Cagliari degli anni ’70. Mi invita a bere un caffè sulla sua terrazza milanese ricca di fiori e profumi Rosalba Mariani, e mi racconta della carriera che ha fatto come comunicatrice d’impresa, anche per agenzie di comunicazione internazionali. E dei suoi tre figli, tutti laureati e ora con professioni di successo. Dei suoi tre nipoti, alle pareti le foto “di Montevecchio” che si possono vedere anche nel libro. Questo libro che mi leggo tutto d’un fiato, merito anche di una prosa che scorre come un ruscello di primavera: persino nelle lettere i Mariani tutti sfoggiano una maestria nel raccontare che fa pensare a una caratteristica genetica comune oramai acquisita dal Dna. E il libro non sarebbe esistito senza che le lettere,  vero sistema venoso che irrora di sangue vivo tutto il narrare, non fossero state “riscoperte” e rilette. Dice bene in chiusura Rosalba Mariani, guspinese di Montevecchio: le lettere, quelle vere, non sono soltanto rettangoli di carta, bianchi o azzurrini, sono una parte di noi, sono le nostre
emozioni fermate nel tempo, sono ponti lanciati verso l’altro, forse hanno un’anima e dunque sono immortali.

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Un commento

  1. Patrizia Manca

    ma per avere libro?fatemi sapere mi piacerebbe anche perchè sono di guspini e mi affascinano queste storie grazie

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