L'ALCOA NON DEVE CHIUDERE. CERTO, E POI? DRAMMI PICCOLI E GRANDI IN SARDEGNA


di Gianfranco Pintore

Abbiamo credo tutti la propensione ad emozionarci ai drammi collettivi e molto meno a quelli individuali, alle tragedie dei grandi e non dei piccoli numeri. La minaccia di 500 licenziamenti è un dramma, quella della chiusura di una minuscola attività un triste affare personale. Non è giusto, ma temo che così continueranno ad andare le cose. La capacità di coinvolgere media e gente che conta accresce poi la sensazione di vivere una tragedia sociale. Gli operari e i quadri sindacali della Alcoa di Portovesme sono riusciti a far parlare giornali e telegiornali della loro vicenda (la minacciata chiusura della fabbrica). Ed hanno ottenuto pubblica solidarietà da calciatori e cronisti sportivi e milioni di persone hanno, quindi, saputo che esiste l’Alcoa di Portovesme con il suo carico di drammi. Non molto tempo fa, l’isola dell’Asinara occupata dai cassa integrati della Vinyls divenne famosa in Europa, e non solo, come sede della lunga protesta operaia. Ancora oggi esiste e funziona il sito che porta il nome della iniziativa ed un molto letto raccontatore delle battaglie sindacali in tutto lo Stato. Mediaticamente efficace, politicamente funzionale a far crescere le simpatie per l’opposizione e anche per la maggioranza regionale che si mossero l’una e l’altra nei confronti del governo Berlusconi. Di Alcoa, insomma si parla, non è più solo un argomento sindacale, come lo sono, per esempio, la vertenza per il calzificio macomerese Queen e le altre decine che hanno puntellato questi anni di desertificazione industriale della Sardegna. Se ne parla come si è parlato della Vinyls di Portotorres e dell’occupazione dell’Asinara. Operai e sindacati chiedono che l’Alcoa non chiuda, che la multinazionale americana – si è letto anche questo – non pensi solo all’economia ma anche all’etica. Chiedono alla politica di agire, di muoversi per scongiurare la fine della produzione di alluminio in Sardegna. Questa politica di mangiamangia, di membri della Casta, di ladri e fannulloni è, per un attimo, utile, insomma. Certo non è compito degli operai e dei loro quadri sindacali dire come superare la crisi che comporta la chiusura dell’Alcoa, né lo è dei sindacati che, però, una certa complicità l’hanno con la scelta sciagurata di impiantare in un’isola fabbriche inquinanti e divoratrici di energia. E da quando lo Stato non è più imprenditore, neppure esso può essere invocato come risolutore della crisi. Non può, insomma, sostituirsi alla multinazionale americana per tenere aperta la fabbrica, come, invece, pare suggerire – se non ho capito male – chi dice che l’Alcoa può anche andarsene dalla Sardegna, purché qui rimanga la produzione. Quale potrebbe dunque essere il ruolo della politica in questa e in altre vicende simili? Il ruolo che fino ad ora non ha esercitato: creare le condizioni, attraverso la zona franca per esempio, per un modello di civiltà nuovo per la nostra isola. Un modello che prenda atto della fine della vecchia industrializzazione e che, se industria ha da essere, sia fondato sulle risorse materiale e umane della Sardegna. Nell’accompagnare l’affermarsi di questo modello, ci sarà bisogno di una grande quantità di lavoratori per riparare i disastri ambientali e ripristinare l’ambiente la cui bellezza dovrò tornare ad essere la caratteristica prima dell’isola. Un sogno, un’utopia? Forse, ma certo non più sogno ed utopia dell’immaginare una multinazionale statunitense che metta l’etica fra i criteri produttivi.

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