ESIBIZIONE ALL'UMANITARIA DI MILANO DEL CORO "SALVATORE FARINA" DI UNA SCUOLA MEDIA DI SASSARI

coro di sassari 002
di Sergio Portas

All’Umanitaria di Milano il coro della scuola media di Sassari “S. Farina” si è esibito per la gioia di quei sardi che hanno sfidato lo sciopero dei mezzi pubblici, sperando che qualche crumiro li salvi da  un forzoso  allenamento in vista della Stramilano, che l’uso del taxi in questi periodi di crisi non viene neppure preso in considerazione. Mi dice la preside  Fenu che molti dei suoi alunni  avevano l’idea che la S puntata del Farina avesse valore di Santo, non già di Salvatore come invece è. Da qui l’intento di far conoscere loro i luoghi che questo sardo di Sorso ha frequentato nella sua maturità, personale e artistica. Salvatore Farina infatti fu grande scrittore tra ottocento e novecento, amico dei vari De Amicis piuttosto che di Giovanni Verga e Luigi Capuana, nonché membro autorevolissimo di quella corrente della letteratura nota come “Scapigliatura” , di cui tra i milanesi  si distinse Ugo Tarchetti, il cui romanzo più famoso : “Fosca” fu finito proprio dal nostro Salvatore, vista la prematura dipartita dell’autore, causata dal tifo. Ora è pure vero che dei settanta e più libri che Farina ha scritto non avrei cuore di consigliarvene la lettura neppure di uno: non che i titoli debbano forzatamente dare un’idea precisa dell’opera scritta, però i suoi vanno da: “Amore bendato” a “Capelli biondi”, da “Frutti proibiti” a “Un tiranno ai bagni di mare”, da “Fiamma vagabonda” a “Amore ha cent’occhi”.  Comunque per chi volesse farsene un’idea  e possieda un collegamento a internet, su “Sardegna Digital Library”, ne può trovare ben 14 tra novelle e romanzi. Purtroppo manca quella “Trilogia”, vero e proprio romanzo autobiografico della propria vita, in cui lo scrittore dell’allora Regno di Sardegna si descrive nel suo peregrinare dall’isola natia al continente europeo, che allora  era in un periodo di grande trasformazione politica. Non era ancora nata l’Italia, ma neppure la Germania e Vienna era la capitale per antonomasia di un’Europa  apparentemente sonnacchiosa, ricca di nobili e teste coronate, di diplomatici sussiegosi  e borghesi tracotanti, tutti regnanti su di una moltitudine di sudditi, per lo più contadini, per lo più analfabeti. A sentire un ebreo tedesco le cui opere scritte avrebbero avuto mondiale successo ( tale K. Marx) stava nascendo in quel periodo la classe operaia. Nella sua lievità di narratore Farina rifugge dal verismo di Verga, nei suoi viaggi in carrozza incontra  giornalisti polacchi , signore austriache, con cui l’allegria del viaggio, l’amenità dei luoghi è condivisa in grazia di una medesima visione del mondo. E anche gli intellettuali sardi con cui ha frequentazioni non si mostrano inferiori a quelli dell’ambiente fiorentino, romano, milanese che lui frequentava nelle redazioni dei giornali, nelle case editrici, nelle Università. La sua maturità concise con un periodo di grande trasformazione dell’industria tipografica, da cui una diffusione senza precedenti di quotidiani, periodici, riviste, libretti operistici, ma anche collane di poesie , di narrativa e teatro. Viene da pensare a una rivoluzione simile a quella che stiamo sperimentando noi con la rete di internet. Salvatore Farina era, per quanto riguarda l’Italia, uno dei Bill Gates dell’epoca, e partecipò alla fondazione di quello che sarebbe diventato il quotidiano di maggior autorevolezza nazionale: “Il Corriere della Sera”. Infatti i ragazzi di Sassari hanno fatto un salto alla storica sede di via Solferino. Ma lui collaborò attivamente anche con le case editrici “Treves” e “Sonzogno”, ebbe un’intensa attività di traduttore, di adattatore di libretti d’opera ( non dimentichiamo che allora a Milano brillava la stella di un giovane nuovo compositore: Giuseppe Verdi), lavorò come redattore a un numero di riviste troppo lungo per tutte citarle: “Illustrazione”, “Gazzetta Letteraria”, “Nuova Antologia”, “Rivista italiana”, tra quelle che si pubblicavano in Sardegna:  “Vita sarda” e “La Stella di Sardegna”. Tutto questo dopo che aveva preso una laurea in giurisprudenza a Torino con il massimo dei voti ( 169 su 170), rinunciando subito a una carriera “tranquilla” per buttarsi in un lavoro di scrittura che nulla gli poteva  preventivamente assicurare, da vero scapigliato, come lo erano i suoi amici d’avventura. Le scuole inferiori, fino al liceo, le frequentò a Sassari e anche se rimase lontano dalla Sardegna anche per lunghi periodi, quando vi fece ritorno nel 1881 erano vent’anni che mancava, pur tuttavia l’anno dopo fu candidato, nel collegio di Sassari, al parlamento di quello che intanto era diventato Regno d’Italia, ma non venne eletto. Nei primi anni del novecento prese a viaggiare dall’Africa alla Scandinavia, pur continuando ad operare nell’industria editoriale-libraria. Anche se alla fine si sperimentò con successo industriale chimico-farmaceutico. Davvero una personalità poliedrica, del tutto fuori dalle regole.  La sua tomba è al cimitero monumentale di Milano.  E a Sassari gli hanno intitolato la scuola media, i cui alunni sono qui in numero di cinquanta, con quattro insegnanti accompagnatori (3E, 3D,3C), la preside Salvatorica Fenu era, al liceo di Ozieri, compagna di banco  della presidentessa il circolo sardo milanese Pierangela Abis, mettere  in piedi il viaggio e le visite guidate  è stato un gioco da bambini. Le venti ragazze che formano il coro hanno dagli undici ai sedici anni, tra di loro c’è anche qualche ex alunna. Iniziano cantando in italiano, accompagnate dal pianoforte, tre canzoni  che scivolano via con le voci tinte d’allegria. Il quarto brano, a cappella, è un “Laudemus Virginem”, che viene da una raccolta processionale del 13° secolo di pellegrini catalani in viaggio verso Roma. Poi altri quattro brani in italiano (Mondo bambino, Girotondo, Ninna Nanna, Pericoli)che lasciano poche tracce nel vostro cronista. E’ quando attaccano “Notte de Chelu” che, a mio avviso, la musica del canto fa un salto di qualità (es natu, es natu/ es natu su bambinu/ enite, enite/ e tottu all’amirare/ enite all’adorare, all’amare). Segue un “Deus ti salvet Maria” che fa invidia agli angeli del cielo, tanto è delicato e soave. E poi la ninna nanna che ha scritto Pietro Allori per Antoni  Istene, tra le innumerevoli ninne sarde quella che mi commuove di più ( ninna nanna, pizzinu, ninna nanna/ ti leo in coa e cantu a duru duru/ dormi pizzinu, dormidi seguru / ca su cane legadu ed’in sa ianna).     Solo da Marisa Sannia l’ho sentita cantare meglio. Seguono con“No photo reposare” e “Nanneddu meu”, e chiudono con un canto ebraico di pace, ribadire che ce ne è disperato bisogno in Palestina è tanto scontato quanto indispensabile. L’applauso del pubblico, più numeroso del previsto, non è di pura cortesia, che il coro “tattarino” l’ha ampiamente meritato. Quando canta in sardo, dico io, che in italiano come cantano loro ce ne sono centomila, in “limba” riescono a veicolare sentimenti di arcaica musicalità, che parla direttamente ai cuori, sardi e non. Eppure quasi nessuno di loro parla in sardo, anche se molti lo capiscono; sono come quel loro conterraneo Salvatore Farina, oramai proiettati a divenire cittadini d’Europa, del mondo. Singolare che lo debbano saper stupire, emozionare, con la lingua che fu dei loro padri, dei loro nonni.

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