Tottus in Pari, 270: sulle rive del lago di Como

A VILLA OLMO, DUE TEMATICHE CALDE PER IL FUTURO DELLA SARDEGNA

SINERGIE FRA TURISMO ED EMIGRAZIONE

"Emigrazione e turismo": esperienze nel mondo e nuove opportunità di sviluppo occupazionale giovanile, le tematiche della conferenza voluta dal circolo "Sardegna" di Como presieduto da Onorio Boi, originario di Seulo presso la suggestiva Villa Olmo a due passi dal Lario. Gli interventi al tavolo dei relatori: dalla Sardegna son giunti il professor Giuseppe Marci; l’onorevole Sergio Pisano, capo di gabinetto dell’Assessorato al Turismo della Regione Sardegna; la dottoressa Romina Congera, assessore al lavoro nella giunta Soru. Gli onori di casa sono spettati all’onorevole Adria Bartolich, molto legata e sempre presente agli avvenimenti organizzati dal sodalizio sardo locale; Antonello Argiolas, rappresentante dei circoli sardi della Lombardia. Il coordinamento è spettato alla giovane Sara Paoletti. Tanti i temi trattati dal convegno che ha appassionato i presenti. La relazione di Sergio Pisano, supportato dalla Bartolich in un’analisi più ampia riguardante l’Italia, si è imperniata sul turismo visto come risorsa della Sardegna. Eppure, non si riesce a correggere l’inclinazione che convoglia il turismo sono nel periodo estivo. In Sardegna nell’ultimo anno ci sono stati 12 milioni di presenze e per il 95% si sono incentrate nel settore balneare. Il dato su cui riflettere è che tali presenze si raggruppano in 80 giorni all’anno, ovvero nel trimestre estivo. Il principale canale di distribuzione delle immagini allettanti del turismo in Sardegna è costituito dalle innumerevoli pagine patinate attraverso le quali i migliori tour operator nazionali presentano un’offerta completa, che parte dai residence per arrivare ai villaggi e agli hotel. Questo importante investimento pubblicitario, motivato dalla forte domanda individuale riferita al meraviglioso mare sardo, si concentra nei mesi più caldi dell’anno. Di conseguenza si determina un black out commerciale di nove mesi, nonostante che la Sardegna goda di ottime condizioni climatiche e disponga di risorse ambientali e culturali di grande valore, di siti archeologici unici e di un settore alimentare riconosciuto come tipico. Questa lacuna pone l’isola nella condizione di vivere il suo maggior business più come uno sfruttamento esterno delle risorse che come un suo strategico sviluppo economico. Pisano, aggiunge, che occorre fare di più a livello politico ed investire in cultura. Il modello sardo turistico, spiega, è quasi da sottosviluppo. I numeri lo confermano: il divario con il resto d’Italia lo quantifica. Il suo imperativo per il futuro è quello di creare destagionalizzazione con un minimo di organizzazione. I limiti legati alla scarsa funzionalità della macchina turistica nel suo complesso e pertanto alle possibilità di creare una bassa stagione più "viva" non sono facilmente superabili, se non con un progetto regionale coercitivo nei confronti dell’indotto: per questo è ragionevole pensare che un progetto fattibile di allargamento della stagione turistica in Sardegna deve principalmente coinvolgere il turismo sociale, cioè quelle realtà che gravitano attorno alle associazioni culturali, ai dopolavoro, alle parrocchie e soprattutto ai servizi sociali comunali che organizzano turismo di gruppo per soggiorni climatici, non disdegnando proposte culturali di varia natura. Questa realtà di turismo sociale sviluppa tour itineranti, mentre quasi la totalità della domanda è di soggiorni che possono già includere delle escursioni. Questo tipo di turismo è in grande espansione sia per motivi anagrafici dovuti alla costante crescita della fascia della terza età, che per la forte attenzione che il settore dei tour operator pone a questo segmento. Le destinazioni mediterranee, a differenza della Sardegna, hanno sviluppato il numero delle presenze dilatando la stagionalità alberghiera e di conseguenza l’attività economica dell’indotto, trasformando le aree turistiche in vitali località attive tutto l’anno.

Romina Congera, indimenticata Assessore al Lavoro che con il mondo dell’emigrazione sarda organizzata ha creato un bel feeling, ostenta grande preoccupazione per il futuro delle nuove generazioni in Sardegna. Di fronte all’attuale drammaticità economica che sta travolgendo tutto il Paese e ancor più l’isola, l’emigrazione è ricominciata anche di fronte all’impossibilità di fare nuova imprenditoria. A ritmo impressionante, spaventoso: ogni anno migliaia di giovani sardi fanno le valigie e vanno via. Partono per cercare lavoro, inseguire una speranza, dare un senso al futuro. Dal 1997 ad oggi hanno lasciato la Sardegna più di 50mila residenti. Una legione, una folla! L’isola si spopola e si conferma purtroppo terra di emigranti. Il saldo migratorio è negativo in tutte le province dell’isola. I picchi più alti nella provincia di Nuoro e nei comuni con meno di mille abitanti. Lo scenario è preoccupante anche se per comprendere il fenomeno dell’emigrazione non si può prescindere dalla comunità di provenienza. I primi che partirono dalla Sardegna negli anni Cinquanta, andarono nelle miniere del Belgio. Andare per tornare. Erano giovani ma non giovanissimi, spesso padri di famiglia. Partirono per guadagnare a sufficienza, per poter investire i soldi nella comunità di provenienza. Ci sono agricoltori, messi in crisi in quegli anni dal mercato in una Sardegna allora molto cerealicola. Quella degli anni Settanta, invece, diventa un’emigrazione classica, di massa. A Genova, Milano, Torino. Si emigra per cambiare vita, ci si sposa, si mette su famiglia. Si mantiene un rapporto con la comunità ma è più lento. Non tutti investono, chi lo fa torna dopo tanti anni, magari al momento della pensione. Mentre gli emigrati in Belgio sono tornati quasi tutti, coloro che emigrano nelle città del Nord Italia ci restano. Il loro legame con la Sardegna è diverso. In Sardegna le strade incerte dell’emigrazione non erano del tutto ignote, poiché già erano state percorse – già alla fine dell’Ottocento e nei primi due decenni del Novecento – da non pochi sardi che erano partiti per la Francia o, i più audaci, per le Americhe per cercarvi lavoro e fortuna. I più erano poi tornati portando con sé qualche risparmio e un fardello di speranze deluse. Qualche altro, che la fortuna aveva trovato davvero o, meno incline alla resa, continuava a cercarla, era rimasto lì dov’era. Se in passato l’emigrazione era stata vicenda individuale, negli ultimi decenni è diventata fenomeno massiccio che coinvolgeva migliaia di lavoratori, costretti dalla mancanza di lavoro a lasciare la Sardegna in numero crescente. Oggi la nuova emigrazione si definisce la fuga dei cervelli, ovvero di giovani studenti, magari laureati che cercano lavoro dove le possibilità sono maggiori. Che tipo di effetto ha sulla Sardegna che subisce questa fuga? E’ possibile e corretto affermare che un ricercatore è ormai definitivamente perduto per il suo Paese d’origine, quello (per intenderci) dove è nato e che ha investito denaro e competenze nella sua formazione nel caso in cui il flusso netto di capitale umano altamente qualificato è fortemen
te sbilanciato in una sola direzione e lo scambio non è più scambio, ma drenaggio, poiché rappresenta una perdita di risorse umane per il Paese di origine. La Congera, ribadisce fortemente, che è esattamente quello che sta accadendo in Sardegna. Il nostro problema è che non c’è nessuno scambio ma solo agognati addii di sardi verso il nord Italia e l’estero, le cui proporzioni si stanno aggravando fino a configurarsi come una perdita che coinvolge un’intera generazione di giovani laureati.

Esperienza di emigrazione, è stata quella che ha raccontato Giuseppe Marci, parlando del gesuita e missionario di Iglesias Antonio Maccioni, che nel XVII secolo raccolse in una pubblicazione la testimonianza di diversi sardi che hanno raccontato la loro esperienza di vita dopo essersi trasferiti per lavoro nella "terra promessa" d’Argentina. Maccioni, racconta Marci, fu rettore del collegio massimo di Cordoba in Argentina e procuratore delle province del Paraguay a Roma. E’ spettato infine ad Antonello Argiolas spiegare il ruolo fondamentale dei circoli dei sardi nel mondo, che hanno la funzione morale di accogliere le nuove migrazioni e allo stesso tempo creare turismo, promuovendo la cultura isolana in tutte le sue molteplici sfaccettature. Massimiliano Perlato

 

FRANCESCA SANNA SULIS, LA NOBILDONNA CHE HA INDICATO AI SARDI LA VIA DELLA SETA

INIZIATIVA CONGIUNTA DEI CIRCOLI SARDI DI PAVIA E DI COMO

Nel pomeriggio di martedì  24  novembre, a Como, presso la Biblioteca comunale,  il Circolo culturale sardo "Logudoro" di Pavia, presieduto da Gesuino Piga, e il Circolo "Sardegna" della città lariana, presieduto da Onorio Boi,  hanno coorganizzato  una partecipata manifestazione (erano presenti un centinaio di uditori) in memoria della nobildonna Francesca Sanna Sulis (1716-1810), che oltre 230 anni fa introdusse in Sardegna  le piantagioni di gelsi e  la produzione della seta, sviluppando contestualmente  una notevole azione culturale e sociale e una fiorente attività imprenditoriale che la rendono una delle figure più importanti del Settecento nel campo dell’impresa tessile e della formazione professionale. A rivelare i meriti  straordinari, in campo produttivo e sociale, di questa  fino a qualche anno fa  sconosciuta figura femminile sarda (neanche un rigo  le dedica, per esempio, la più aggiornata edizione, del 2000, del peraltro prezioso volume di Franca Sini  "Il ‘chi è’ delle donne sarde), è stato nel 2004 il giornalista Lucio Spiga con la monografia "Francesca Sanna Sulis" (pp. 240, Ed. Workdesign di Selargius), che tra i diversi contributi riporta anche una bella prefazione del giornalista comasco Alberto Longatti dal suggestivo titolo "Il filo di seta che unisce Como e la Sardegna". A Como Spiga ha confessato di aver cominciato oltre 40 anni fa a pensare a una biografia della  Sanna Sulis, ma solo quando ha potuto avere una conoscenza approfondita degli oltre 3200 documenti in catalano e in castigliano ritrovati sull’argomento si è dedicato alla stesura dell’opera. Ed ecco in sintesi come Spiga, seguendo l’ordito della sua documentata rivisitazione storica, ha presentato la scheda del personaggio. Francesca Sulis, nata nel 1716 a Muravera (Sardegna sud orientale),  si sposò nel 1735 con don Pietro Sanna Lecca, giureconsulto, autore dei pregoni per i re di Sardegna. Dopo il matrimonio si trasferì a Cagliari Castello. Nel 1770 trasformò i magazzini della casa di Quartucciu in laboratori per la lavorazione della seta, li attrezzò di telai moderni, promosse piantagioni di gelso e l’allevamento dei bachi da seta. Esportava la maggior parte del prodotto in Piemonte e in Lombardia (a Como in particolare). Prima di cominciare a lavorare nei suoi laboratori, i giovani ricevevano una istruzione professionale in corsi mirati, da lei promossi e pagati. Fu a Muravera e Quartucciu che si aprì la prima scuola professionale con specifici piani scolastici di formazione di base per fanciulle, ove potessero apprendere la tessitura, grazie alla lungimiranza di Donna Francesca, con docenti provenienti dalle zone più evolute dell’Italia; le giovani, inoltre, alle loro nozze ricevevano un telaio in dote. Nel 1779 Donna Francesca produceva una seta di qualità superiore, richiesta a più riprese in notevoli quantità dai commercianti comaschi. Il segreto di questo pregio stava probabilmente nel clima favorevole relativo al mese della schiusa dei semi, fra il 20 e il 25 di marzo, mentre nelle regioni a temperature più basse la schiusa si verifica più tardi, tra il 15 e il 20 di aprile. Purtroppo, la morte di Francesca Sanna Sulis, avvenuta nel 1810, e l’avvento dei suoi successori nell’attività aziendale segnarono l’abbandono dei fruttuosi rapporti con le regioni dell’Alta Italia. Nel 1808 Donna Francesca Sanna Sulis donò tutti i suoi beni ai poveri di Muravera con l’incarico di amministrarli. Il suo impegno mirava a predicare che ogni nuova attività dovesse rivolgersi ai più giovani, combattendo alla radice la piaga dell’analfabetismo. Per Spiga, la Sanna Sulis ha lasciato un esempio che può spingere a far rinascere capacità sopite, a sperimentare nuovamente con adeguati macchinari (e tecniche aggiornate sulla conduzione dei gelsi e sull’allevamento dei bachi) la produzione della seta in Sardegna. Il sindaco di Muravera, Salvatore Piu (che era accompagnato dagli assessori Veronique Aledda e Marco Fanni), si è complimentato con Spiga per il suo lavoro di ricerca, che ha rivelato la figura di una donna antesignana della necessità di provvedere alla formazione professionale, ed ha dichiarato di ritenere un vanto per la propria amministrazione riuscire a mantenere fede alla promessa di realizzare ogni anno una pubblicazione di storia locale, facendo in questo modo la propria parte per la cultura, pur nella ristrettezza di risorse a disposizione. Carmen Spiga, consigliere comunale, presidente della commissione cultura, ha portato agli organizzatori dell’iniziativa gli apprezzamenti dell’amministrazione comunale di Quartucciu. Alberto Longatti ha voluto definire quella di Como una manifestazione tutta sarda e si è congratulato con i due circoli sardi organizzatori; ha elogiato il libro di Spiga, che ha consentito di ricostruire l’intreccio delle  sconosciute storie che nel segno del tessile, e in particolare del serico, hanno legato nel Settecento Como e la Sardegna.  Longatti ha ribadito che la seta prodotta dalla Sanna Sulis (con un filato di qualità superiore) venne apprezzata e acquistata in notevoli quantitativi dai commercianti comaschi, che iniziarono un non episodico interscambio con le ditte sarde, gestito in prima persona dalla nobildonna (si imbarcava anche lei nelle golette che trasportavano i suoi preziosi abiti da seta, ricercati  da regine e da dame di corte). Alla morte di lei, nel 1810, questo  commercio dalla  Sardegna  verso il territorio comasco cessò ma continuò per alcuni anni verso il Piemonte. Longatti ha ricordato che un’altra feconda produzione di bozzoli venne attivata tra il Settecento e i primi anni del Novecento a Làconi (Nuoro) grazie all’iniziativa delle figlie del marchese Giovanni Manca di Villahermosa, Maria Caterina, Anna, Giuseppina, Maria Teresa, Antonietta e Bona. Fu proprio a Como che la loro iniziativa ebbe un impulso decisivo, quando intorno al 1720 la marchesina Anna soggiornò nel capoluogo lariano in qualità di ospite e di segretaria del conte Giorgio Giulini, che nel suo cospicuo patrimonio annoverava anche una bachicoltura e dei gelseti. La donna si appassionò a questo tipo di coltura e di allevamento, trasferendolo poi nella sua terra e avviando, a sua volta, una produzione di bozzoli che alimentò per molti anni un produttivo interscambio con quella lariana. "Questi legami riscoperti oggi – ha detto Longatti – rivelano una valenza storica e risvolti umani di eccezionale interesse e che sarebbe davvero opportuno rinsaldare per più di un valido motivo. Uno, in modo particolare. In un’epoca nella quale il prestigio della produzione serica nazionale si è appannato e subisce la pressione della concorrenza straniera, c’è bisogno di ritrovare nel passato lo stimolo per guardare con maggiore fiducia al futuro". Gesuino Piga ha disegnato un quadro storico relativo alla Sardegna del Settecento e degli inizi dell’Ottocento, ma non ha mancato anche lui di focalizzare la sua attenzione su Francesca Sanna Sulis, sottolineandone l’attività come creatrice di moda, attestata in particolare dall’invenzione  de "su cambusciu" (cuffia portata dalle giovani di buona famiglia). Dopo il positivo esempio di collaborazione tra i due circoli registratosi a Como, Piga ha preannunciato che un più approfondito convegno sulla figura e l’opera di Francesca Sanna Sulis si terrà a Pavia, in occasione della Festa della Donna del 2010, sempre col patrocinio del Consiglio regionale della Sardegna, della Regione Sardegna-Assessorato del Lavoro, della FASI (il presidente Tonino Mulas era presente a Como insieme al coordinatore della Circoscrizione Lombardia, Antonello Argiolas, e a soci dei circoli di Milano e di Magenta), del Coordinamento Donne della FASI e del  Comune di Como. La manifestazione di Como è stata aperta da una donna (Chiara Milani, direttrice della Biblioteca comunale, che ha portato i saluti del sindaco e dell’assessore alla cultura del Comune di Como) ed è stata chiusa da una donna (la poetessa Rosaria Floris, che  ha recitato una sua poesia in sardo sul valore delle donne sarde). Oltre che da quest’ultima la neonata "Associazione Amici di Francesca Sanna Sulis" era rappresentata da Liana Bilardi e dal discendente della nobildonna Enrico Sulis, calorosamente applaudito per la sua disponibilità a collaborare alle ricerche storiche e alle iniziative di valorizzazione che riguardano la sua intraprendente antenata, che ha indicato alla Sardegna la via della seta.

Paolo Pulina

 

CONFERENZA ORGANIZZATA AL CIRCOLO "LA QUERCIA" DI VIMODRONE

LA TRANSUMANZA IN SARDEGNA

Organizzata  dal locale circolo "LA QUERCIA" di Vimodrone una conferenza sul tema della transumanza in Sardegna.Sono intervenuti la D.ssa Alessandra Rovati dell’Unversità di Milano che ha svolto la tesi di laurea su questo tema e il dott. Alessandro Floris autore  e studioso della cultura nomade pastorale sarda. Nei loro interventi hanno raccontato questo rito della migrazione delle greggi e come negli anni passati queste transumanze hanno svolto un ruolo importante nella pastorizia. Accanto alla preminente funzione economica e commerciale, esse ne hanno svolto una di carattere culturale ugualmente importante, in quanto hanno rappresentato, nel tempo, un insostituibile mezzo di comunicazione fra popoli e di trasmissioni di usi, tradizioni, forme culturali, modelli espressivi e tra le stesse tradizioni pastorali. Questo incontro ha anche fornito l’opportunità di discutere della pratica della transumanza che fino a poco fa era una vera e propria avventura, un rituale che si ripeteva ogni anno con la partenza di intere greggi che attraversavano la Sardegna alla ricerca di nuovi pascoli e climi più miti. Un processo millenario che si è arrestato solo con la modernizzazione delle campagne e la trasformazione delle aziende pastorali da nomadi a stanziali. Un dibattito molto apprezzato dai numerosi soci presenti che hanno portato anche le loro esperienze e ricordi personali nella loro vita in Sardegna. Ripensando ai pasti frugali della transumanza molto gradito alla fine un rinfresco con i nostri prodotti sardi.

Michele Cossa

 

LA SOLIDARIETA’ SENZA BUROCRAZIA PER GLI ALLEVATORI D’ABRUZZO

SA PONIDURA

Ha creato simpatie e consensi l’iniziativa de sa paradura di Gigi Sanna, cantante del  gruppo de sos Istentales, ma anche attivo imprenditore agricolo di una fattoria didattica in quel di Baddemanna a Nuoro. Già il nome Istentales, la grande e meravigliosa costellazione autunnale di Orione, rievoca antichi miti greci, ma anche  tradizioni pastorali sarde in quanto questa costellazione, chiamata Sos Baccheddos in Barbagia, era l’orologio notturno estivo per i pastori barbaricini e, quando si presentava sulla volta celeste, preceduta poco prima da su Gurdone, le Pleiadi, avvertiva che era il momento di riportare il gregge all’ovile dopo il pascolo notturno de su chenadorzu. Quindi Orione, sos Baccheddos, sos Istentales, diventano oggi con Gigi Sanna il simbolo dell’antica solidarietà pastorale senza burocrazia che in poco tempo riescono a creare, a parare un gregge per donarlo ai fratelli pastori abruzzesi colpiti dal terremoto. Una forma di solidarietà comunitaria in vigore nella società pastorale fino agli anni sessanta, che affonda le sue radici nei secoli passati quando in casi di estrema necessità personale non vi erano aiuti pubblici e si rischiava la fame e la miseria. Numerosi sono i racconti di troppas de pastores, gruppi di pastori, che si prendono l’impegno di andare da un ovile ad un altro e chiedere una , due o più pecore, a seconda dei casi, per ricostruire il gregge del Tal dei Tali perché o gli era stato distrutto da una calamità naturale, o gli era stato rubato o perchè, dopo vari anni di prigione, non aveva più nulla e quindi era opportuno metterlo nelle condizioni di riprendere a lavorare. Ecco quindi i termini in
lingua sarda per indicare questa antica pratica di sa ponidura, come dice spesso Gonario Pinna nella sua opera ‘Il pastore sardo e la Giustizia’, da ponner, mettere a disposizione una pecora o altro capo di bestiame. L’altro termine è sa paradura, da parare cioè formare, creare, parare pacos pecos de bestiamene, formare un piccolo gregge di pecore o di armenti o maiali ecc. Si dice anche su paru, per indicare un genere, specie di bestie, su paru de sa berbeghe, ma in certi casi, soprattutto quando si intende condannare l’azione riprovevole  di una persona, si dice anche su paru ‘e su tontu o de s’isterzare! Comuni sono espressioni come : e ite li cheries facher a su par’e su maccu! E per indicare il massimo del disprezzo nei confronti di una persona o di una bestia invece che paru su dice parìle, o parìle malu! Quindi sa paradura da parare.  Mi raccontava un pastore barbaricino in quel di Bosa che negli Anni Sessanta aveva donato almeno dieci pecore per aiutare un amico a ricrearsi il gregge, mentre per un altro pastore del Montiferru avevano lo stesso fatto sas berbeghes de dimanda. Nei primi Anni Venti del secolo scorso una violenta calamità naturale aveva tra l’altro incenerito il gregge di un pastore di Ollolai, certo Giovanni Lostia mi sembra, e allora, anche su indicazione del Consiglio Comunale, come risulta da una delibera del tempo, i pastori ollolaesi hanno portato  nel suo ovile ognuno  una pecora viva e in cambio si son presi una pecora morta e nel giro di qualche giorno gli hanno ricostruito il gregge , l’an torrau a parare sa gama, sa roba, salvandolo dalla disperazione più nera. Istituti come sa ponidura o paradura o berbeghes de dimanda dovrebbero essere contemplati negli statuti comunali perché sono una pratica che permette di esprimere la solidarietà viva, diretta e soprattutto veloce, senza perdersi in lungaggini burocratiche. Abbiamo tentato negli anni scorsi di mettere in qualche statuto comunale tracce, arrastos delle nostre migliori tradizioni comunitarie come la figura de s’omin’e mesu o appunto de sa paradura, ma la modernità e la legislazione statale non lascia spazio a scelte coraggiose e identitarie di questo tipo che, per alcuni che predicano la superficiale sardità da cartolina, è solo vecchiume.  Per fortuna  invece tali istituti sopravvivono nelle iniziative di persone e gruppi che infischiandosene delle leggi danno risposte, come in questo caso, che sostituiscono quelle statali o regionali che spesso o non arrivano o arrivano in ritardo, nonostante siano normate da leggi ben precise nella loro stesura. Sarebbe opportuno che la Regione, considerato l’attenzione e la sensibilità dell’Assessore all’Agricoltura per questo evento, si muovesse nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purchè siano sganciati dalla burocrazia.

Tonino Bussu

 

 

 

LA SARDEGNA E’ SORDA NEI CONFRONTI DI SIMONA ATZORI

VOLA ALTO, LA FARFALLA SENZA ALI

Diversa abilità può voler dire qualche volta piena felicità. Lo ha dimostrato, nella serata del 20 novembre, a Pavia, in una riuscita manifestazione del "Festival dei Diritti", davanti a una platea commossa, Simona Atzori, che, pur priva delle braccia fin dalla nascita, è diventata provetta danzatrice di danza classica (è stata ambasciatrice per la danza nel Giubileo del 2000 portando, per la prima volta nella storia,  la danza in chiesa).  Simona, usando le gambe e i piedi come organi a tutti gli effetti sostitutivi delle braccia e delle mani, è una pittrice tecnicamente e artisticamente realizzata (ha donato a Papa Giovanni Paolo II il ritratto del Santo Padre durante un’udienza privata in Vaticano) ma è soprattutto una persona che riesce a condurre una vita assolutamente "normale" (guida anche la macchina). Il suo inusuale equilibrio fisico si accompagna ad un superlativo equilibrio psicologico, che le consente, con un sorriso smagliante, sia di mettere a proprio agio chiunque la avvicini col comprensibile (da lei compreso) imbarazzo di resistere alla tentazione di intrecciare una stretta di mano sia di smontare la curiosità morbosa di chi la scruta con compassione quando se la vede passare davanti. Certo Simona ha un carattere di ferro ("non ci possono essere degli standard che limitano la nostra mente"), che le deriva indubbiamente da genitori che hanno sviluppato in positivo i geni della testardaggine sarda (il padre Vitalino è di Serramanna, la mamma Antonina Matza è di Suelli), lottando alle diverse età della figlia perché non le venissero sbarrate le porte aperte alle sue coetanee.  Certo sardità rimanda a pertinacia ma fa rima anche con sordità. Simona Atzori, laureata in Canada in "Visual Arts", ha girato il mondo, ha ricevuto riconoscimenti di livello internazionale (è stata protagonista della cerimonia di apertura delle Paralimpiadi di Torino 2006), ha partecipato a importanti trasmissioni televisive in Italia, è ritratta nella copertina del libro di Candido Cannavò "E li chiamano disabili". Ebbene, da sardo dico che è incomprensibile che – sembrerebbe quasi: a dispetto di tutti questi meriti umani e artistici – pochi paesi della Sardegna abbiano finora invitato Simona a testimoniare la sua eccezionale esperienza di donna, di danzatrice, di pittrice,  di cittadina, che, pur nata a Milano nel 1974, è orgogliosa di aver imparato la lingua sarda insegnatale dai genitori, originari della regione della Trexenta. Meno male che ci ripenserà Pavia a richiamare Simona Atzori, per la serie di incontri "Quattro chiacchiere con…", per l’appuntamento previsto, la mattina del 25 marzo del 2010, presso l’Auditorium del Liceo scientifico "Copernico".

Paolo Pulina

 

 

POESIA ALLA "FARFALLA SENZA ALI" DA UN POETA SARDO – PAVESE

OMAGGIO A SIMONA ATZORI

Carissima Simona Atzori,  sono lieto per i tuoi allori;  con i tuoi altissimi valori fai palpitare i nostri cuori.

Sei ballerina e pittrice di valore, non hai braccia ma grande cuore. Tutti ti accolgono con calore, sei veramente uno splendore.

Non ti dai grande importanza, ma magnifica è la tua danza; il tuo coraggio a tutti dà speranza, esemplare è la tua forte costanza.

Non badi alla fatica quotidiana, meriteresti ogni dì una collana; quando sei in scena non tremi: non hai rivali e nessuno temi.

Andrea Pintus

 

TRADOTTO IN FRANCESE, IL LIBRO DI LEONARDO MELIS

"SHARDANA", PRESENTATO AL CIRCOLO "AJO’" DI ISTRES

Il libro "Shardana Les Peuples de la Mer", edizione in lingua francese del fortunato "Shardana i Popoli del Mare di Leonardo Melis è stato presentato a Istres, poco distante da Marsiglia, per iniziativa del circolo sardo "Ajò". Il libro di Melis è stato tradotto dalla prof. Raffaelina Putzu di origini sarde. La conferenza-presentazione, presente l’autore, si è svolta nella sala L’Arabesque" di Istres dove si sono ritrovati tantissimi sardi della Camargue e del Midi francese, tra cui il Console generale d’Italia, Bernardino Mancini, diverse autorità e Christian Brundu con i dirigenti del circolo dei Sardi "AJO!", che hanno curato l’organizzazione dell’evento. Alla presentazione sono intervenuti rappresentanti della stampa francese e diverse personalità della cultura.All’esposizione e alla proiezione dei filmati con documenti inediti sull’origine dei Shardana e degli altri popoli del Mediterraneo, è seguito il dibattito. Molte le domande sulla "Stele di Nora" e sui "Giganti di Monti Prama". Leonardo Melis ha anche parlato del progetto "Qadesh, Shardana – Egiziani per la pace", l’opera musicale che sarà rappresentata la prossima primavera a Luxor e poi sbarcherà in Europa, in primis nell’Isola dei Shardana. "Shardana i Popoli del Mare" sarà presentato il prossimo anno a Marsiglia nell’edizione francese per la Comunità dei Corsi, molto numerosa in Francia (200.000 corsi risiedono nel sud della Francia). Questo per espresso desiderio del Console Generale d’Italia Bernardino Mancini. Shardana i Popoli del Mare è alla ottava edizione in Italia e Leonardo Melis ha dichiarato in tono scherzoso che "Les Peuples de la Mer" potrebbe superare l’edizione italiana, visto l’interesse suscitato dalla prima del libro in Camargue.

 

 

IL CICLO DEL "SU NURAGHE" DI BIELLA DEDICATO AI FILM

MEMORIA VISIVA DI AMBIENTI LAGUNARI

Nelle sale di via Galilei, a Biella, nuovo appuntamento con "Su Nuraghe Film", lezioni di cinema "per conoscere la Sardegna attraverso il film d’autore". In cartellone "Sardegna, ali sulla laguna", un cortometraggio di Davide Mocci, giovane regista cagliaritano, apprezzato documentarista di Geo&Geo, trasmissione televisiva pomeridiana di Raitre. Il filmato presentato da Andrea Sassu, sardo di terza generazione, testimone del legame profondo che – sebbene nati lontano dall’Isola – lega i Sardi alla loro Terra di origine. Il cognome di Andrea, al pari dei "Perinu" o dei "Gallu", indica antiche relazioni di "andata e ritorno" tra i "possedimenti di Terraferma" e l’antico Regno di Sardegna. La Sardegna è una delle isole più belle e grandi del Mediterraneo caratterizzata dalla presenza di numerosi bacini di acqua salmastra che rappresentano l’habitat e i luoghi di riproduzione di numerose specie di uccelli. Le immagini, girate nei suggestivi ambienti lagunari dell’Isola, evidenziano la preziosa e ricca fauna presente: dagli anatidi dei meandri paludosi di Molentargius e Santa Gilla, fino ai cormorani degli stagni dell’oristanese e ai limicoli delle lagune del nord Sardegna. Alcune aree lagunari presenti nel documentario, dalla data di realizzazione del documentario (1994-1996) ad oggi, hanno subito sostanziali cambiamenti, di conseguenza il documentario preserva la memoria visiva di ambienti lagunari che oggi appaiono diversi, sebbene solo dopo quindici anni circa. Il documentario contiene immagini, riprese in alcuni stagni di Cagliari, della testuggine "Emis orbicularis", tartaruga palustre molto rara in Sardegna e le non comuni immagini del mignattaio, un grande uccello africano, filmato nello stagno di Molentargius. Battista Saiu

 

DALLE MONTAGNE DI BITTI ALL’UNIONE EUROPEA

I SARDI CHE NON SI ARRENDONO

Giuseppe Bandinu è nato a Bitti nel 1962. Fatte le scuole dell’obbligo, è entrato a 14 anni nella scuola impropria dell’ovile dove, per 10 anni, nelle montagne di Bitti, ha imparato a mungere le pecore e a fare il formaggio, ma soprattutto ha imparato a vivere. A 23 anni, amando lo studio e pensando che il sapere fosse all’università, decide di tornare a studiare, a Roma. Consegue il diploma di maturità scientifica e la laurea in giurisprudenza. Prendendoci gusto, si specializza in diritto penale e criminologia. Poi si laurea in lettere e filosofia e si specializza in storia moderna e contemporanea. Consegue il titolo di avvocato; borsista in criminologia alla sapienza di Roma, è criminologo accreditato presso il ministero di giustizia. Il CSM lo nomina giudice onorario al tribunale di sorveglianza di Roma e il Consiglio della magistratura militare lo nomina giudice onorario al tribunale di sorveglianza militare. Ha scritto diversi articoli su banditismo, marginalità sociale e devianza. Attualmente, oltre a lavorare come giudice onorario nei  tribunali e espletare la libera professione di avvocato e collaborare con l’università, rappresenta l’Italia, insieme a due giudici e un professore universitario, presso la Commissione europea per un progetto di uniformità della legislazione dei paesi della CEE in ambito penitenziario. Di lui, i suoi compagni, quelli di infanzia, dicono che, nonostante tutto, è rimasto il pastore che era da ragazzo.

Paolo Maninchedda

 

 

AUMENTA L’OFFERTA NEGLI ESERCIZI AUTORIZZATI NELL’ISOLA

AGRITURISMO, BOOM DI AZIENDE

Sono 757 le aziende sarde autorizzate a praticare l’agriturismo. Il settore è in crescita (+5,4 in un anno). In Italia le aziende autorizzate sono 18.480 con un incremento nel 2008 di 760 unità (39 in Sardegna). Nell’isola la divisione per zone altimetriche attesta, secondo i dati dell’Istat, che 65 aziende si trovano in montagna, 470 in collina e 222 in pianura. L’agriturismo sardo pesa per il 4,1% del totale nazionale. Nel Paese c’è una presenza agrituristica molto diffusa in Toscana e in Alto Adige dove sono localizzate rispettivamente 4061 e 2921 aziende. Ma l’attività presenta dimensioni significative anche in Veneto, Lombardia, Umbria, Piemonte, Emilia e Campania. La presenza femminile è molto importante nella conduzione di questo tipo di aziende con una quota pari al 34,9% (6441 unità); e si distingue la Toscana dove le donne gestiscono 1645 aziende. In Sardegna sono 496 le attività gestite da maschi e 261 quelle gestite dalle donne. Il boom dell’agriturismo è avvenuto tra il 1998 e il 2008, un decennio d’oro in cui le aziende sono aumentate del 90,2%. E aumentano in progressione le imprese che svolgono più servizi. Del resto per l’Unione europea il turismo rurale è un concetto molto ampio che comprende qualsiasi attività. In Italia si distinguono i settori produttivi, così l’agriturismo è considerato una vera e propria attività agricola accessoria alla coltivazione e all’allevamento. Il Centro Sud si conferma l’asse dell’ospitalità con il 60,7% del totale nazionale degli alloggi autorizzati e il 65,2% dei posti letto. In Sardegna a poter dare alloggio sono 575 aziende su 757. I posti letto 5667 e le piazzole messe a disposizione 1165; 464 aziende oltre all’alloggio, forniscono la ristorazione. Lo studio dell’Istat conferma la tendenza a offrire pacchetti integrati con servizi differenziati, diretti a qualificare l’attività agrituristica rispetto al territorio in cui è esercitata. Grazie alla tipologia dell’offerta si possono anche vedere le specializzazioni: nel Trentino è diffuso il solo pernottamento, in Toscana un quarto delle imprese offre la prima colazione mentre in Sardegna prevale la mezza pensione (397 unità pari al 69%). La sola ristorazione è comunque più diffusa in Lombardia, in Trentino, Friuli, Veneto e in Sardegna. Gli abbinamenti della ristorazione con l’alloggio e altre attività risultano diffusi in Toscana, Campania, Emilia e Sardegna. Da segnalare che la degustazione dei prodotti non è prevista nell’isola. Nelle altre regioni è invece un punto di forza e consiste nell’assaggio di prodotti agricoli senza che questo assuma le caratteristiche di un pasto o di uno spuntino. Rappresenta, infatti, un arricchimento dell’offerta aziendale con il consumo di prodotti coltivati sul posto. L’offerta della degustazione è più diffusa in Toscana, Marche, Veneto, Campania, Umbria e Piemonte. Infine le «altre attività»: sono 128 le aziende sarde autorizzate per l’equitazione e 151 per l’escursionismo. Dal computo Istat non risultava nessuna azienda votata al trekking e nemmeno all’impiego di mountain-bike. È possibile individuare alcune specializzazioni: Toscana, Lombardia e Umbria per l’equitazione; Alto Adige e Toscana per l’escursionismo, Umbria, Toscana e Alto Adige per lo sport; ancora la Toscana per il trekking e mountain bike. Per le osservazioni naturalistiche dove la Sardegna è incredibilmente assente prevalgono Campania e Sicilia.

 

UNA STORIA VENTENNALE PORTANDO IL FOLK SARDO IN GIRO PER IL MONDO

SU CUNTZERTU ABBASANTESU

Il gruppo a tenores  "Su Cuntzertu Abbasantesu" nasce nel 1981, grazie all’appassionata ricerca dei suoi fondatori che ricostruiscono, con la preziosa collaborazione di alcuni anziani "Cantadores", il patrimonio di canti e balli a tenore di Abbasanta garantendone così la sopravivenza e la continuità. Si esibisce in diverse località dell’isola, d’Italia e all’estero rappresentando Abbasanta e la Sardegna col proprio canto simbolo della musica sarda. Su Cuntzertu Abbasantesu conta anche varie apparizioni televisive sia su reti Regionali che Nazionali e ha inciso varie musicassette tra le quali "laudes a sa tuva" , e "Cantidos de terra nostra". Il suo repertorio oltre ai canti a "trazu a sa eretta" ed a ritmo di ballo (su passu, su bichiri, su ballu Abbasantesu, S’istudiantina antiga, ecc.), comprende anche l’esecuzione di canti liturgici e paraliturgici propri Abbasantesi, seguendo fedelmente la tradizione tramandata dagli antichi cantori, (inserendosi così tra un ristretto  gruppo di tenores per questo genere di canti in Sardegna). Esegue inoltre i vari canti della Settimana Santa e Natalizi, oltre ad acompagnare i poeti nelle gare di poesia Sarda. La prima apparizione all’estero de Su cuntzertu Abbasantesu avviene nel lontano 1987 e precisamente in Germania collaborando per l’occasione con l’Associazione Folk Coro di Abbasanta, ospiti del Circolo dei Sardi: Grazia Deledda di Wolfsburg. Nel 1991, in Giappone grazie all’inserimento del cosiddetto " progetto Nuraghe " programmato in quella epoca dall’allora ente turistico Regionale E.S.I.T., si esibisce nelle città principali quali Tokio, Kyoto, Nagoya e Osaka, ecc… Le manifestazioni si eseguono principalmente all’interno di grossi centri commerciali o gallerie di alta moda o altrettanti centri cittadini ad alta concentrazione di pubblico, le stesse erano mirate alla promozione della nostra cultura e tradizione, alla  nostra cucina oltre che alle coste ed il mare Sardo. Nel 1995 il gruppo partecipa ad un tour in Germania, con il gruppo di ballo Città di Oristano allo stesso progetto Nuraghe del 91 programato dall’E.S.I.T., in Baviera e più precisamente nei centri di Lindau, Friderikschafen e Monaco. La manifestazione, denominata " Interboot " (Festa internazionale Nautica) vedeva protagonisti tutti i gruppi etnici della maggior parte degli stati europei, e si svolgeva nelle rive del lago di Costanzo, confine Austriaco e Svizzera tedesca.  Nel 2000, il nostro gruppo si reca in Croazia nei centri di Zagabria e Bjelovar, in collaborazione col gruppo folk "Guilcer" di Corbello, inserito nel contesto di uno scambio culturale tra la Sardegna  e la Croazia. Il 2004, sempre in collaborazione dell’associazione Folk Coro di Abbasanta  ci vede protagonisti  in Francia Dopo alcuni anni di assenza, nel 2008 il nostro gruppo ritorna all’estero e più precisamente a Bruxelles, impegnati in una esibizione presso il comitato economico e finanziario del mercato comune europeo. Durante il soggiorno a Bruxelles ospiti della locale associazione dei Sardi "Martino Mastinu", eseguivamo durante la messa celebrata all’interno della cattedrale di Sant. Michel de Gudulè, i nostri canti a tenore fedeli e rispettosi della liturgia, in sardo e latino a trazu abbasantesu. L’ultimo giorno di permanenza, alla presenza di centinaia di nostri conterranei e a conclusione della
nostra toournè, presso la Sala degli spettacoli "du Ring",si effettuava una serata di cultura tipica Sarda con canti e balli tradizionali. Oggi su "Cuntzertu Abbasantesu" fa parte dell’Associazione Tenore Sardegna" (SOTZIU TENORES SARDIGNA), costituitasi nel 2005, dopo il riconoscimento da parte dell’UNESCO del canto a tenore come patrimonio intangibile dell’umanità.
Franco Piras

 

 

NELL’EPOCA DEI CROCIFISSI GIU’ DALLE PARETI E DEL VETO DEI MINARETI

LE SEADAS NELLA BANDIERA SARDA

Le seadas sono un dolce tipico della nostra terra, che incanta il palato dei visitatori e pure quello degli indigeni. Trattasi di delizioso fagotto tipo sofficino ripieno di formaggio, fritto in padella e servito caldo con miele amaro o zucchero. Gnam!! Le ho ritirate fuori dal freezer per consolarmi di cotante scemenze: a proposito del referendum svizzero sui minareti islamici, l’esponente della Lega e viceministro Roberto Castelli dice: "Occorre un segnale forte per battere l’ideologia massonica e filoislamica che purtroppo attraversa anche le forze alleate della Lega2 dice . "Credo che la Lega Nord – prosegue – possa e debba nel prossimo disegno di legge di riforma costituzionale chiedere l’inserimento della croce nella bandiera italiana". E Mario Borghezio aggiunge: "La selva dei minareti, oggi pericolosamente simbolo della minaccia terrorista islamistica più che luogo di preghiera, non cambierà il paesaggio dell’antica patria del federalismo e della libertà. Svizzera ‘forever’ bianca e cristiana!". Ora, poiché in Sardegna è consuetudine utilizzare l’aggettivo "continentali" per il resto degli italiani, e poiché molto spesso anche a chi scrive è capitato di dire, ad esempio, "ho fatto il biglietto per andare in Italia", è chiaramente deducibile che l’essere isolano qualche differenza la fa, non solo geografica ma soprattutto psicologica.  Senza per carità indulgere in cose ai confini della realtà come chiedono alcune formazioni indipendentiste delle mie parti (alle quali vorrei dire che se proprio vogliamo essere indipendenti, conviene esserlo dall’Italia intera isole comprese per andare a vivere, che so, in Alaska).  Quindi credo che il viceministro (sic!) Castelli potrà benissimo comprendere la mia proposta di inserire le seadas nella bandiera sarda, che non è più quella che gloriosamente sventola in tutti i concerti e manifestazioni (ah i sardi nel mondo!), ma un orrido stemma sabaudo che francamente non si capisce cos’è. Anzi, ripensandoci, se ai viceministri è venuta in mente la croce, io ho forse meno diritti? E allora la voglio anche sul tricolore italiano, la mia seada, che poi magari a qualcuno viene in mente di metterci un pallone da calcio, un piatto di spaghetti, la torre di Pisa e gli danno pure retta, e a me no, ecco. Perché direi che "occorre un segnale forte per battere l’ideologia consumistica e filo merendistica che purtroppo attraversa anche la Sardegna: ne è una dimostrazione il proliferare di Tronky e Duplo nei supermercati, di plumcake imperialisti e babà terroni nelle nostre pasticcerie, che insidiano il naturale primato della seada". Inoltre, la selva di questi dolci stranieri ed estranei alla nostra cultura, pericolosamente simbolo della invasione continentale più che della libertà pasticcera, non cambierà mai il paesaggio dell’antica patria dei papassinos, del pane di saba e del torrone di Tonara!  

Francesca Madrigali

 

 

RITMO DI CHARLESTON PER LA PENULTIMA PROPOSTA DEL CARTELLONE A SASSARI

UNA "CECCHINA" CON LA MACCHINA DA PRESA

Il  troppo storpia. Ma con eccezioni. Nel caso della Cecchina di Piccinni è proprio nell’eccesso,o meglio, in uno dei suoi dettagli che sta la chiave di lettura.  Il  Teatro "La  Fenice" di Venezia fa debuttare  a Sassari l’opera goldoniana musicata da Piccinni nel 1760 in un nuovo allestimento che la trascina in pieni anni Venti. Ecco allora charleston, paillettes, caschetti cortissimi, città zeppe di ponti di ferro e piccole botteghe.  Aggiungeteci un marchese/regista cinematografico che costruisce la sua storia d’amore come se fosse un film e lo proietta mentre confida i suoi sentimenti all’amata , una marchesa che strizza l’occhio a Crudelia Demon e il gioco è fatto. Quasi. Perché in realtà nella trasposizione in età recenti del dramma giocoso, già di per se straordinariamente attuale per il linguaggio e per  caratterizzazione dei personaggi, il regista  Francesco Bellotto aggiunge una figura non prevista da Piccinni: un barbone. Proprio in quel mendicante che ci si aspetta inizi a cantare da un momento all’altro ma che invece rimane muto per l’intera rappresentazione, sta il senso dell’opera. Spettatore silenzioso che vive sotto il ponte e rimane immobile durante gli assoli, accogliendo magari i personaggi sotto il suo "tetto" e che invece diviene personaggio buffo nei cori e negli intermezzi di alcuni personaggi. Quasi una trasposizione dei sentimenti e delle passioni. Ma andiamo con ordine. La Cecchina di Piccinni è purtroppo un’opera poco conosciuta facente parte dell’immenso repertorio che Goldoni, firmando con il nome arcaico di Polliseno Fegejo, scrisse per la lirica. La trama è quella tipica e strappalacrime del melodramma settecentesco: una trovatella, Cecchina,  viene accolta da una famiglia nobile e ne diviene la giardiniera; qui subirà le angherie delle due perfide cameriere, Sandrina e Paoletta che tentano di metterne in cattiva luce la grande bontà d’animo; riceve inoltre le attenzioni di Mengotto, il fattore e quelle del padrone di casa, il Marchese della Conchiglia. Si tratta però di una serva e il marchese non può sposarla, sia  per etichetta sociale sia per il legame della sorella con il militare Armidoro che mal sopporta tale sentimento.  A cambiare le carte in tavola è l’arrivo di Tagliaferro, bizzarro soldato che in un italiano tedeschizzato rivela le origini nobili di Cecchina, il cui vero nome è Marianna, legittimando in questo modo il matrimonio tra il padrone e la giardiniera. Come da melodramma settecentesco, alla fine l’innocenza e la bontà prevalgono sulle invidie e sulle gelosie delle due cameriere e dello stesso Mengotto che accetterà infine la proposta di matrimonio di Sandrina, sua vecchia amant
e. La storia della Cecchina viene dal romanzo di Samuel Richardson "Pamela, or Virtue Rewarded (Pamela, o la virtù ricompensata). Il libretto capitò nelle mani di Piccinni che lo mise in scena facendolo debuttare, in uno scroscìo di applausi, al Teatro delle Dame di Roma il 6 febbraio 1760. L’opera, realizzata in soli diciotto giorni, venne replicata quasi senza interruzioni sino alla fine del XVIII secolo. La versione inedita e completamente originale del regista Francesco Bellotto nell’allestimento della Fenice di Venezia debutta a Sassari con le pompose scene di Massimo Checchetto traboccanti di riferimenti al cinema delle origini, ai virtuosismi della camera da presa e ai "costumi" tipici dei divi e delle dive della pellicola anni Venti. In scena un cast sorprendente di artisti tutti dotati di una fortissima carica espressiva ma non tutti convincenti in timbro e vocalità. La soprano Gabriella Costa nel ruolo di Cecchina non delude il pubblico sassarese ma a catturarlo è il soprano Sandra Pastrana nel ruolo di Armidoro. Graditissimo e brillante il ritorno sulle scene del Teatro Verdi, a distanza di pochissimo tempo ( già nel ruolo di Tisbe nella Cenerentola) del talentuoso mezzosoprano Francesca Pierpaoli, ottimo mix di drammaticità e vocalità ora nel ruolo di Paoluccia,  cameriera di colore che ricorda la famosa Mamy di "Via col Vento". Interessante ma non convincente dal punto di vista vocale il tenore Domenico Menini nel  ruolo del Marchese della Conchiglia mentre, seppur eccessiva nei virtuosismi tecnici, da lode l’interpretazione della soprano Tamoko Masuda, la Marchesa Lucinda. Tanti gli applausi del Verdi per i due buffi, il baritono Fabio Previati (Mengotto) e il basso Omar Montanari (Tagliaferro). L’opera però ha lasciato scettico il pubblico sassarese: colpa forse della trasposizione moderna o dell’eccessivo carico di riferimenti cinematografici.  Di fatto, l’allestimento del teatro "La fenice"  è sicuramente intrigante. C’è la passione dello sperimentalismo cinematografico dei primi anni e il tentativo, ben riuscito, di coniugare le due messe in scena, cinematografica e teatrale. C’è un uso sapiente degli spazi di cui i personaggi si appropriano completamente facendo propria la scena. In questo movimento continuo rimane però fedelissimo il riferimento al sentimento puro, all’innocenza e alla bontà, come da manuale melodrammatico e a sciogliere il nodo sarò proprio quel mendicante muto che, da buon Cupido quale si rivelerà, agendo sotto gli occhi di tutti senza che nessuno lo noti,  intreccerà i fili delle vicende amorose.
Mariella Cortès

 

 

A COMO, DODICI ARTISTI CHE HANNO PARTECIPATO AD UNA MOSTRA COLLETTIVA

ALLA GALLERIA "MON EGO CONTEMPORARY" CON MAURO COSSU

Il sardo Mauro Cossu è tra i dodici artisti che hanno partecipato alla collettiva "Chiari segni di ostilità", a Como presso la galleria "Mon Ego Contemporary". Con l’artista isolano, Diego Cinquegrana, Nadja Faust Klugmann, Gosia Godek, Yari Miele, Fulvia Monguzzi,Giorgio Murtas, Marco Pagliardi, Simone Panzeri, Renè Pascal, Danilo Pasquali, Riccardo Pavanelli, Linda Rigotti, Michael Rotondi, Marcello Tedesco, Riccardo Zanotti ed ognuno di loro ha utilizzato un diverso mezzo espressivo, tra installazioni, suono e azione. Mauro Cossu ha affrontato il tema dell’invivibilità, prendendo spunto dall’occultamento del lago di Como, noto per la sua bellezza, non più visibile ai passanti a causa di un muro di contenimento che sta sorgendo sulle sue sponde. Nelle pareti di legno del muro erano previste delle finestre a un centinaio di metri l’una dell’altra, che sono state oscurate. L’artista ha affiancato a queste pareti dei pannelli con delle finestre immaginarie, attraverso le quali emerge una gestualità ironica e grottesca allo stesso tempo, che si presta a molteplici letture. Per l’autore, il senso dell’opera spazia "dai lamenti di una natura intrappolata nelle nostre cortine di cemento, che sempre più spesso si ribella e restituisce all’uomo violente catastrofi paradossalmente inattese, alla prepotenza e arroganza di chi agisce sul paesaggio senza scrupoli". "Il lavoro – è scritto in una nota di presentazione dell’artista – si pone in continuità con la ricerca dell’artista sulle contraddizioni delle scelte politiche sia a livello locale che internazionale, e alla sua battaglia portata avanti da anni contro la speculazione edilizia nel litorale della Sardegna sudorientale. Tra le ultime proposte pubbliche dell’artista, un museo del vuoto lungo tutte le coste dell’Isola."  

 

VIAGGIO PER I TERRITORI IN-CONTAMINATI DELLA SARDEGNA

DAI "DEMONIOS" AI "DEMANIOS"

In Sardegna ci sono oltre 35mila ettari di territorio che, ormai da molti anni, sono sottoposti al vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene preclusa alla navigazione, alla pesca e alla sosta, una fetta di mare di oltre 20mila chilometri quadrati, ovvero una superficie pari quasi all’estensione dell’intera isola. La nostra Regione ospita svariate attività militari: abbiamo poligoni missilistici (Perdasdefogu), spazi per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburante (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle Forze Armate o della NATO. Qualche numero: il poligono del Salto di Quirra – Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono NATO di Capo Frasca (costa occidentale) ne occupa oltre 1.400. Per capire meglio come siano suddivisi questi microcosmi a sé, potremmo tracciare una sorta di mappa esemplificativa: una suddivisione in zone, cui corrispondono altrettante servitù militari, che attraversano la Sardegna da sud a nord, e viceversa.

CAGLIARI. Nel capoluogo isolano, l’esercito è sempre stato fortemente radicato, con una presenza storicamente invasiva che si snodava lungo tutto l’asse cittadino, sia in centro che nelle zone più periferiche. E’ notizia recente che il Comune di Cagliari abbia letteralmente "assaltato" le servitù militari del suo territorio, impegnandosi in una vastissima opera di progressiva dismissione in zone che, un tempo utilizzate per esercitazioni e vincolate alla presenza de
ll’Esercito, si stavano attualmente svuotando delle loro principali funzioni, divenendo fantasmi di se stesse. L’elenco dei beni restituiti alla città è lungo, e si tratta di aree sensibili dal punto di vista sia urbanistico che ambientale: a iniziare dal 68° deposito carburanti di Monte Urpinu, realizzato negli anni ’30 e progressivamente abbandonato dopo la riforma della leve degli anni ’90. Il sito è in buone condizioni, ma da bonificare. C’è poi l’ex deposito carburanti di Monte Urpinu, composto da alcuni edifici e da 4 ampi depositi sotterranei dei combustibili (dismessi da 35 anni circa), escluso il fabbricato che ospita il centro ricreativo. Sempre in via dei Conversi si trova l’alloggio del Comandante dell’Aeronautica militare. C’è poi la zona di Calamosca, dove il comune ha recuperato l’ex stabulario o "batteria Prunas": una struttura composta da più edifici, di cui alcuni ristrutturati da privati. La Capitaneria, da qualche anno, ha dato l’area in concessione alla ditta Merella, per la realizzazione de "La Paillotte", un ristorante con annesso uno stabilimento balneare molto frequentato. In via Calamosca torna a parlare sardo l’ex poligono di tiro e, tra via Calamosca e viale San Bartolomeo, la Palazzina ufficiali. A Sant’Elia i militari possedevano 3 servitù militari: molte aree erano già in mano alla Regione, come ad esempio lo splendido fortino di Sant’Ignazio, l’ex stazione segnali del Faro e l’ex tettoia ricovero quadrupedi, di via Borgo Sant’Elia. Oltre a questi ci sono l’ex casermetta Dicat e l’ex centro sanitario – grotta vico III Morello. Alla Regione sono tornati anche il parcheggio di Marina Piccola, l’area di Tuvumannu delle casermette e l’ospedale di via Is Mirrionis.

SULCIS. Sicuramente la zona militare più "famosa" è quella di Teulada. Una delle punte estreme dell’isola, una striscia di terra che corre verso un mare limpido e tra i più belli della Sardegna. La zona riservata solo ai militari si estende per ben 7200 ettari, e include, con una presenza più o meno invasiva, tutta la costa che va da Capo Teulada a Capo Frasca, nel Golfo di Oristano. La zona è usata per esercitazioni aeree ed aeronavali della NATO e della Sesta Flotta (tiro contro costa) ed include anche un centro addestramento per unità corazzate. Ai 7200 ettari di terreno andrebbero aggiunti i 75mila km di spazio aereo vietato e i 30 km di costa interdetti alla navigazione, che rendono fortemente ingombrante la presenza militare in una zona, altrimenti, fortemente votata a un turismo balneare e naturale di grande importanza. Nel comune di Villasor si trova, invece, l’aeroporto militare di Decimomannu, ce "invade" anche i limitrofi territori di Decimoputzu e San Sperate. Si tratta dell’aeroporto più grande della NATO, che occupa lo spazio di ben tre aeroporti civili. E’ operativo dal 1955. In fase di dismissione e recupero, invece, è la "Vecchia Opera" di Pula, un’area di 28.300 mq in stato d’abbandono, il cui restauro è quanto mai urgente. Il compendio della Marina Militare, di proprietà del Ministero della Difesa, sorge infatti a ridosso della splendida e celeberrima area archeologica di Pula, e dovrebbe presumibilmente essere trasformata in un centro servizi e punto accoglienza per i visitatori del sito turistico. Anche il deposito carburanti di Siliqua, lungo la statale per Vallermosa, dovrebbe a breve essere riconvertita: si tratta di 16mila mq da trasformare in isola ecologica e anche, dietro un concorso di idee, da utilizzare per lo sviluppo industriale e artigianale. Così come l’ex poligono di tiro, area che potrebbe essere utilizzata per il settore servizi in quanto adiacente alla zone S del Puc.

OGLIASTRA. La servitù militare più tristemente nota alle cronache è, senza dubbio, il poligono Interforze di Salto di Quirra, nei pressi di Perdasdefogu. Si tratta di una zona immensa, 12.700 ettari, che comprende poligoni missilistici sperimentali e di addestramento interforze. Lungo la costa si giunge a Capo San Lorenzo: vi si addestrano unità della NATO e della Sesta Flotta con attività nelle varie combinazioni terra-aria-mare. Il territorio è stato spesso oggetto di accese polemiche per il presunto disastro ambientale perpetrato dalla base militare, e per i conseguenti danni sulla salute di molti abitanti della zona, ammalati di tumore o, nel caso di nascituri, colpiti da gravi malformazioni.

NUORO. A Macomer si trovano quattro strutture: i capannoni autarchici e magazzini centrali "Bonutrau" (21mila mq in pessimo stato di conservazione), la Caserma Bechi-Luserna attualmente in uso alla Brigata Sassari: l’ex deposito munizioni, ormai dimesso, alla periferia della città; e infine il poligono di tiro a segno "Bonatrau", 24.155 mq, anch’esso in stato di abbandono. A Nuoro, nella centrale Viale Sardegna, si trova la Caserma Loy, utilizzata dall’Artiglieria, uno spazio totale di 48mila mq. A questo si aggiungono il circolo ufficiali di Sant’Onofrio (606 mq), e l’ex deposito munizioni di Prato Sardo, una vasta area di 551mila mq ancora appartenenti all’Esercito.

ORISTANO. A parte la polveriera di Serrenti (un’area di 396mila mq, con edifici pregevoli realizzati in pietra locale, che dovrebbe a breve essere recuperata), spicca nell’Oristanese il demanio militare di Capo Frasca, di cui si accennava prima. Con 25 km lineari di sviluppo costiero, copre in totale più di 3mila mq per i poligoni militari di Aeronautica e Marina, che occupano una zona dichiarata di pregevole interesse paesaggistico e di interesse storico-culturale, in quanto vi si trovano i resti di età preistorico-nuragica. A questa superficie vanno aggiunti gli spazi occupati dalle Caserme e dai mezzi militari. Per quanto riguarda Oristano, risulta già dimesso e acquisito dal Comune l’ex carcere militare, una struttura in forte stato di degrado, fino a qualche tempo fa addirittura occupata abusivamente. L’ex Caserma "Eleonora d’Arborea", invece, è a sua volta un ex convento, di grande pregio architettonico, situato in pieno centro storico. Del suo restauro si sta occupando attualmente la sovrintendenza ai beni culturali, che intende poi adibirne una parte a propri uffici. C’è anche il poligono di tiro a segno nazionale, situato nella zona industriale nord di Oristano, in stato di abbandono e presumibilmente (secondo in sito internet della Regione Sardegna) in corso di trasferimento all’agenzia del demanio, e infine l’aeroporto militare di Fenosu in fase di ristrutturazione e ampliamento da parte del Ministero dei Trasporti. Si parla di farne uno scalo anche per il trasporto civile.

GALLURA. Nel nord-est dell’isola la presenza dei militari non è mai stata particolarmente abbondante. Va segnalato, comunque, che ad essi appartengono tuttora meravigliosi fati, come quello di Capo Testa a Santa Teresa di Gallura o di Punta Sardegna a Palau. Per ciò che concerne la città di Olbia, c’è il caso dell’ex Artiglieria Santa Cecilia, in località "Sa Fossa". Si tratta di una grande area dal forte interesse naturalistico (vi si trovano alti eucaliptos, olmi e mandorli), in cui sorgono 14 edifici, su uno spazio di circa 96mila mq, in pessimo stato di conservazione. Alcuni edifici, infatti, risultano occupati abusivamente da immigrati rumeni. Il comune di Olbia intende includere il compendio in un programma di recupero, in modo da destinare la zona a
parco urbano.

SASSARI. Siamo arrivati ai demani militari del nord-ovest, in cui la presenza dell’Esercito è abbastanza forte, vista anche la tradizione militare della storica Brigata Sassari". Molte zone demaniali sono dislocate nel territorio di Alghero (località La Speranza, stazione radio di Rudas, l’aeroporto dell’Aeronautica Militare lungo la strada di Fertilia, fabbricati di telecomunicazioni a Punta Negra, alloggi dell’aeronautica militare a Fertilia, alcuni fabbricati a Porto Conte e Capo Caccia). A Ozieri, ormai, si contano solo alcuni beni in pessimo stato di conservazione. A Sassari, la situazione risulta più complessa, poiché la maggior parte dei fabbricati del demanio militare si trovano in pieno centro città: da Palazzo Giardino, un grande alloggio per militari sito in Viale Italia. Poi la Caserma Lamarmora, in piazza Castello, un fabbricato che occupa un intero isolato. Oggi, presso la Caserma, si trovano la sede del comando della Brigata Sassari e l’omonimo museo Storico, mentre una parte dello stabile, è occupato da alcuni uffici della Polizia di Stato. Appartiene all’Esercito anche l’ex infermeria di Piazza Sant’Agostino, oggi sede della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Sassari e Nuoro, e il poligono di tiro di Baddimanna. Un discorso a parte per la sua ampiezza, merita la Caserma Gonzaga in via Carlo Felice: il complesso sorge su un’area interamente recintata, e consta di tre fabbricati principali, comprendenti alloggi e uffici, più undici alloggi secondari con destinazioni varie. Si tratta di un’imponente area di 235mila mq che ospita personale e mezzi della brigata corazzata. Il Comune ha manifestato l’interesse per l’acquisizione degli adiacenti Magazzini Sanità, in quanto legati alla storia della città. Così come si vuole recuperare l’ex poligono di Bunnari, nella  splendida valle dei Ciclamini, zona non raggiungibile a causa dell’impraticabilità della strada.

Maria Francesca Fantato

 

NEL POLIGONO QUALCOSA CHE FA PAURA

RIAFFIORA LA TRAGEDIA DI QUIRRA

Riaffiora la tragedia di Quirra. E dopo cinque anni ritorna in superficie anche il dramma di Escalaplano e dei suoi bambini deformi, che sembrava annegato silenziosamente nel tempo e nell’indifferenza. Li ha riportati alla superficie la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, che ha spedito in Sardegna i suoi consulenti per indagare su quanto è accaduto e sta accadendo nei poligoni militari sardi. L’équipe di scienziati e di tecnici ha cominciato a raccogliere dati e testimonianze che ora verranno interpretate attraverso modelli statistici e protocolli medici e chimici per tentare di spiegare la lunga catena di tumori del sistema emolinfatico e la nascita di bambini con gravi malformazioni. Se non una risposta definitiva, la Commissione parlamentare d’inchiesta sarà comunque in grado di fornire ipotesi supportate da robusti puntelli scientifici. I consulenti hanno illustrato alla Commissione d’inchiesta a che punto è arrivata la loro indagine che, a quanto pare, dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno. Si è intanto scoperto che gli accertamenti fatti finora nel Sarrabus, intorno al poligono interforze del Salto di Quirra presentano molte lacune. Oppure sono incompleti. Nel caso di Escalaplano non sarebbero neppure stati fatti. Ma ecco cosa ha riferito in Commissione la dottoressa Antonietta Gatti, ricercatrice di Scienza dei materiali al policlinico universitario di Modena, ma soprattutto autorevole studiosa di nanopatologie. Cioé una categoria di patologie che si sospetta siano provocate da particelle inorganiche di dimensione nanometrica. Malattie finora classificate come criptogeniche, ovvero di eziologia ignota. Ma ecco cosa dice la Gatti: «C’è la dottoressa Aru, che ha svolto attività di pediatra nella zona di Escalaplano dal 1981 al 1983. Ci ha detto che nella sua esperienza di medico non le è mai capitato di osservare la tipologia di malformazioni che ha invece riscontrato in quegli anni e in quella determinata area, nonostante successivamente abbia lavorato in un grosso ospedale di Cagliari». Continua la Gatti: «La dottoressa Aru ha ipotizzato quindi che, dal 1981 al 1988 nel territorio di Escalaplano si sia verificato qualcosa di molto particolare che ha causato malformazioni che lei ha avuto modo di osservare solo nei libri. Ha anche ricordato che i colleghi consultati manifestarono analoga sorpresa. Ha quindi ribadito l’ipotesi che nell’area si sia verificato qualcosa di eccezionale, di cui al momento sembra non esserci più traccia nella zona, anche se personalmente ho trovato una malformazione in un bambino già morto, sempre nella zona di Villaputzu». Il "caso Escalaplano" scoppiò cinque anni fa, mentre si diffondevano a macchia d’olio polemiche roventi sulla "sindrome di Quirra", cioé l’altissima incidenza di tumori del sistema emolinfatico tra la popolazione che vive intorno al poligono interforze. Troppe analogie riportavano alla catena di malati e di morti tra i soldati italiani inviati in missione in teatri di guerra, soprattutto nei Balcani, dove si era fatto largamente uso di proiettili all’uranio impoverito. L’inchiesta riuscì a
documentare che negli anni Ottanta erano nati a Escalaplano ben undici bambini con gravi deformità o con seri handicap fisici. A questi undici, per la verità, se ne dovrebbero aggiungere altri due sui quali però non fu possibile trovare una documentazione certa. Si tratta comunque di un numero abnorme di casi, che fa saltare qualsiasi fisiologia statistica. I dati di riferimento, per capire meglio l’entità del fenomeno, sono questi: Escalaplano contava circa 2.600 abitanti e il tasso di natalità viaggiava su un trend medio di 19-21 nascite l’anno. Il 1988 è l’anno maledetto: ben sei nascite "anomale", tra le quali anche un caso di ermafroditismo. Facile pensare a un’unica causa, a una radice comune del dramma. E la forte concentrazione dei casi in un arco di tempo tanto limitato, non può non far pensare all’intervento nefasto di fattori esterni, che potrebbero aver drammaticamente condizionato la gravidanza di molte donne di Escalaplano. Escluso l’uso di farmaci dannosi durante la gestazione perché lo stesso tipo di malformazioni erano state osservate anche sugli animali. «I maiali – diceva la gente – nascevano senza occhi e senza orecchie». Ma ci si ricorda soprattutto della nascita di un capretto mostruoso, che venne spedito all’università di Sassari per essere esaminato. «Pensavamo che fosse colpa della nube radioattiva di Chernobyl» dicevano a Escalaplano. Cinque anni fa furono in tanti a mettere apertamente in relazione il dramma dei bambini deformi con la vita segreta della base. «Ci fu un periodo, il 1988, – ci dissero – in cui nel poligono si verificavano esplosioni in continuazione. Soprattutto i ragazzi e i bambini correvano sulla collina per vedere quelle enormi nuvole di fumo che si levavano dalla valle dove avvenivano le esercitazioni. Erano esplosioni fortissime, che facevano addirittura tremare i muri delle case del paese». «E poi – ci dissero ancora – quelle nuvole di polvere venivano trasportate dal vento verso il paese. Era uno spettacolo che, in qual
che modo, aveva un suo fascino: il paese diventava bianco, come se fosse caduta la neve». Ma la spedizione degli esperti della Commissione parlamentare d’inchiesta ha consentito di mettere a fuoco una serie di altri dati inquietanti. Sempre la dottoressa Antonietta Gatti: «Il comune di Villaputzu è collocato a sud rispetto al poligono del Salto di Quirra ed è vicinissimo ad altri due paesi, Muravera e San Vito, che hanno più o meno gli stessi abitanti: c’è un fiume che divide il territorio in due zone: al di là del fiume le patologie riscontrate sono in misura otto volte maggiore rispetto a quelle verificate al di qua del fiume. Esiste quindi un dato locale che, a mio avviso, non può essere mediato sulla realtà industriale della Sardegna». Ma i consulenti della Commissione hanno parlato anche di forti discrepanze tra il numero dei malati certificato dalle statistiche ufficiali e le informazioni invece raccolte da comitati spontanei di cittadini. E che dire, poi, della testimonianza di un geologo che ha parlato di tre sorgenti «di tre colori diversi: marrone, verde e giallo» all’interno del poligono? Un rilevamento fatto a seicento metri d’altezza. «Essendo i paesi molto più in basso rispetto al poligono – ha detto la Gatti – è possibile che ci sia stato un inquinamento delle falde acquifere. Considerato inoltre che sull’altipiano sono stati e continuano a essere distrutti armamenti – ho camminato su una discarica a cielo aperto, credo che questo sia il termine che meglio chiarisce la situazione – è possibile che l’inquinamento delle falde sussista tuttora». E ancora: come interpretare il fatto che «il trenta per cento dei pastori sia stato colpito da leucemia»? Un dato sicuramente unico in Italia. E poi: il 25% degli ammalati «è costituito da lavoratori di una ditta che presta servizio nel poligono interforze; quindi si tratta di civili, ai quali si devono aggiungere anche due militari».

 

L’ESPERTA ANTONIETTA GATTI PARLA DELLA SITUAZIONE A SALTO DI QUIRRA

L’INQUINAMENTO BELLICO CAUSA TUMORI E DEFORMAZIONI

La dottoressa Antonietta Gatti, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è probabilmente la voce scientifica più autorevole che possa spiegarci in quale situazione ambientale vivono i militari del Poligono Sperimentale e di Addestramento Interforze del Salto di Quirra (P.I.S.Q.) in Sardegna, e i residenti del posto. La dottoressa Gatti ha svolto ricerche direttamente sui tessuti di alcuni pazienti per conto dell’Asl di Cagliari. Successivamente, ha lavorato come consulente della Commissione Uranio Impoverito del Governo – XIV legislatura. È stata nel Poligono e ha svolto analisi. È stata a capo di una task force per il Poligono di Salto di Quirra – altro nome che indica l’ampia zona del Poligono – durante l’inchiesta della seconda Commissione – XV legislatura – e afferma che vi è una correlazione fra le attività militari e le patologie della popolazione, comprese le malformazioni dei bimbi di Escalaplano degli anni ’80.  Dottoressa, 32 casi di tumori e leucemie su 150 abitanti. Sono davvero percentuali nella norma? «I medici non sono scienziati, usano metodi di calcolo statistici e non trattano i casi singoli. Loro calcolano tutti gli ammalati della Sardegna, compresi quelli delle zone fortemente industrializzate dove i morti sono anche di più di quelli della zona di Quirra, e in questo modo questi dati appaiono nella media. Io parto da un altro presupposto. Qui ci sono polveri di un certo tipo. Quando c’è un’esplosione il fumo rimane sul luogo, le polveri non vanno via ma si depositano. Io ho analizzato l’erba e vi ho trovato metalli pesanti, tanto che non mangerei mai il formaggio fatto col latte di quelle mucche, e è per questo che ho chiesto che venissero condotti controlli al riguardo». Ha mai trovato tracce di uranio impoverito? «Ho condotto studi al riguardo, ma non ho mai trovato tracce di armi all’uranio impoverito. Ma nel Poligono di Quirra c’è dell’altro e spaventa. Di cosa si tratta? «Con una nuova tecnica possiamo vedere questo inquinamento bellico all’interno dei tessuti patologici. La differenza è che queste polveri sono talmente sottili che, quando respiriamo o mangiamo, le nanoparticelle non rimangono nei polmoni o nell’apparato digerente, ma attraverso il sangue possono raggiungere gli organi interni. In una ricerca dell’Università di Modena e Reggio Emilia si è visto che queste nanoparticelle, molto più piccole di un globulo rosso, raggiungono la circolazione sanguigna in 60 secondi e il fegato in un ora. Io ho trovato queste particelle nelle gonadi, nei testicoli, nel cervello, nella tiroide, dappertutto. È chiaro che se sono nel sangue causano la leucemia, se sono nei linfonodi causano il linfoma. Di solito queste nanoparticelle vengono da temperature molto elevate ed è questa una delle ragioni per cui lavoro con i soldati». Sono polveri che non si trovano in altre zone, ad esempio nelle zone industriali? «Non si trovano nell’inquinamento urbano. Nelle zone industrializzate io trovo un tipo di caratteristica di polvere che ha una certa chimica. Ma l’antimonio cobalto non si trova, può star tranquilla». Quindi vi sono sostanze che sono state trovate solo nella zona del Poligono? «Sono talmente strane che ancora adesso non riesco a capire il perché di questo antimonio cobalto. Può essere dentro qualche bomba, non lo so. Anche perché quando c’è un’esplosione le sostanze si ricombinano tra di loro, e questo è tipico di quell’ambiente (militare ndr), non si trova dappertutto». Ritiene che queste sostanze siano collegate ai casi di tumore, malformazioni e leucemie? «In questo momento sto finendo un progetto europeo da 3 milioni di euro di nanotossicologia, che si chiama Dipna, con il quale studiamo l’impatto della nanoparticella sulla cellula, e sto vedendo reazioni che si verificano nei tumori. Usando nanoparticelle nei topi, ho già indotto un tumore molto raro. Quindi, a mio avviso, c’è un percorso logico. Queste nanoparticelle non solo vanno dentro la cellula, ma vanno dentro il nucleo e le ho già fotografate a contatto con Dna, quindi c’è la possibilità che inducano un danno genetico e possono causare il cancro». Lei esclude il fatto che questi casi di tumori e leucemie siano causati da un problema di consanguineità che esisterebbe in Sardegna? «Chi dice questo non sa di cosa sta parlando. Le malattie genetiche da consanguineità sono altre, non sono i tumori. Non si può dare questa colpa ai sardi. Un recente articolo scientifico diceva che "il soldato si porta la guerra a casa" perché lui è contaminato, è contaminato anche il suo sperma, e lo cede alla partner insieme alla contaminazione. Le sto dicendo tutte cose che possono essere dimostrate, non sono ipotesi. Quindi chi parla della consanguineità deve dimostrare quello che dice. Inoltre non mi risulta che qualcuno sia andato a controllare se ci fossero matrimoni incrociati tra le 32 vittime di Quirra». Cosa può dirmi dei casi di malformazione? Esclude anche lì la consanguineità? «I casi di malformazione sono diversi, sono solo ad Escalaplano, e tra l’altro in un arco di tempo limitato. Allora se si ha l
a consanguineità si ha sempre, non solo in quei 3 anni. Io attribuisco quelle malformazioni ad un’attività particolare del Poligono, che ha avuto luogo in quel periodo, ma di questo purtroppo non ho nessuna dimostrazione perché non ho studiato i feti malformati di quei bambini. Quello che posso dire è che quelle malformazioni sono dovute ad un’attività specifica e limitata nel tempo. C’è stato un inquinamento particolare, me lo hanno raccontato loro, se lo ricordano ancora. Se una madre in attesa, soprattutto nei primi mesi, respira le polveri, queste colpiscono il feto attraverso il sangue. Io ho studiato diversi casi e diversi feti, quindi l’ipotesi Escalaplano tiene, anche se non ne ho la dimostrazione scientifica». Ritiene che questi metalli pesanti possano essere trovati in qualsiasi poligono, in quanto fanno parte di una normale attività militare, o qui c’è una qualcosa in più? «Da ciò che ho visto io è abbastanza normale, ma io ci sono stata d’estate quando non c’era attività e dopo che c’erano state le piogge. Quindi può darsi che mi sia persa qualcosa». Noi abbiamo parlato con un militare che opera da 25 anni e ci ha detto che non vi è nulla di pericoloso e che è contento di vivere lì con la famiglia, così come tanti suoi colleghi. Cosa può rispondere? «È possibile che queste persone non abbiano svolto le attività più sporche. Come fanno a sapere cosa c’è in una bomba che esplode? Vedono solo il fumo da lontano». Lui ci ha detto che si occupa di tutela dell’ambiente. «Loro non hanno neanche un laboratorio, cosa controllano? I militari hanno un vasto territorio e vi sono zone che sono "sporche". Le loro attività emettono polveri che viaggiano anche nell’entroterra. Non c’è traffico, non ci sono industrie, quindi, da un certo punto di vista l’ambiente in alcune aree è veramente bello e sano. Però, sulle attività che vengono svolte e sull’inquinamento che viene prodotto, non si discute». Questo inquinamento favorisce il sorgere di tumori? «Io ci vedo una correlazione. Tra l’alto le vittime di Salto di Quirra lavoravano dentro il Poligono, così come i pastori. Se si mangia il formaggio delle pecore che hanno pascolato lì si ha la possibilità di ingerire le particelle, in quanto abbiamo visto che viaggiano anche nel latte». Il militare ha anche detto: «Se ci fosse qualcosa di dannoso saremmo tutti malati». «Non è così, sia per le difese immunitarie, e soprattutto perché bisogna entrare in contatto con queste nanoparticelle. È così per tutte le malattie. Loro sono sani perché non fanno determinate attività. Se non hanno la possibilità di essere contaminati non possono ammalarsi. Su questo non si discute». Le ho chiesto prima se i risultati delle ricerche hanno evidenziato una normale attività militare, e lei mi ha detto di sì… «Più o meno sì, tranne quel feto che aveva dell’antimonio cobalto. Quella stessa sostanza l’ho ritrovata nello sperma di un soldato che è stato a Quirra ed è morto, e anche in un caso di un militare canadese che era stato nella prima Guerra del Golfo, anche lui deceduto. Allora l’antimonio cobalto deve far parte di qualche armamento, che non so se sia normale o meno. L’anno scorso il ministro della Sanità La Russa ha stanziato 30 milioni di euro per compensare le famiglie dei soldati che si sono ammalati e che sono morti per probabili esposizioni all’uranio impoverito e nanoparticelle. Io sono riuscita a fa passare questo concetto. In questo momento alcune persone hanno la pensione perché hanno dimostrato di avere delle nanoparticelle dentro il proprio corpo». A questo punto, visto che queste nanoparticelle non sono legate all’utilizzo di nessun’arma in particolare, la soluzione sarebbe quella di chiudere il poligono? «Io non sono così drastica. Sono per non permettere ai pastori di pascolare il bestiame nel Poligono, poi vediamo se i malati calano. Penso che sia l’unico caso al mondo: su 10 pastori che vanno dentro il Poligono 10 si ammalano di leucemia. Questo è un 100%. Non è sotto la media. I pastori fanno tutti una vita molto sana, è difficile che si ammalino in generale, poi tutti di leucemia, ma quando mai? L’altra cosa sarebbe avere più accuratezza e seguire procedure di un certo tipo. Se sai dov’è il problema puoi evitarlo».

Elena Serra

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2 commenti

  1. Salvatore Patatu (Chiaramonti)

    Gentilissimo Massimiliano, ti debbo ringraziare per la puntualità con cui mi spedisci il giornale da te curato, che io leggo sempre con molta attenzione. E ti ringrazio ancora per il difficile e oneroso compito che svolgi in difesa del mondo dell’emigrazione e della nostra Lingua. Io sono un modestissimo scrittore in Lingua sarda che ha

    pubblicato vari libri e mi farebbe piacere farti dono del libro a cui sono più sentimentalmente legato: Pro no esser comunista mezus sòrighe. Devi solo dirmi se lo gradisci e come debbo fare per fartelo avere. Scusa se ti do del tu, ma sono certamente più anziano di te e sarei contento se tu, in una eventuale risposta, farai altrettanto. Con i saluti più cari

  2. Franco Saddi (Bareggio)

    Carissimo Massimiliano, il 12/13 dicembre si svolge la nostra giornata della solidarietà ormai giunta alla tredicesima edizione. é la nostra seconda manifestazione dell’anno come importanza dopo la festa estiva di Cornaredo,ed é la coronazione di un lavoro che comincia proprio durante la festa estiva,che grazie alla grande partecipazione di volontariato,ci da la possibilità didevolvere delle cospicue (per noi) somme in beneficenza,

    tali somme verranno consegnate proprio durantela manifestazione del 12/13 dicembre direttamente ha persone ed enti, scelte tra le più bisognose segnalateci dalla FASI, dal circolo “Maria Carta” di Bergamo, dai comuni

    limintrofi, e anche dai nostri soci,(mai come quest’anno abbiamo avuto cosi tante richieste di contributi)

    Alla manifestazione parteciperanno anche le autorità di Bareggio e Cornaredo oltre ai diretti interessati per le donazioni, ovviamente sei invitato a partecipare sia alla serata di sabato per lo spettacolo di Soleandro che la

    domenica al convegno su “Giuseppe Dessi” e alle sucessive Donazioni. Cordiali saluti a te e Valentina, vi aspettiamo per l’occasione

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