A Cassina de Pecchi, Michela Murgia, grandissima scrittrice dalla personalità carismatica

di Sergio Portas

 

A Cassina dé Pecchi, diciassette chilometri da Milano, fortunatamente ci si arriva con la metropolitana. Per inciso questi Pecchi da cui il nome, erano conti fiorentini che se la comprarono nel tredicesimo secolo, le api d’oro del loro stemma (i pecchi) sono ancora stampigliate in quello odierno del paese. Arrivare al piccolo teatro della Martesana, dove ho fatto da "coordinatore" per la presentazione del libro "Accabbadora" di Michela Murgia, fresco vincitore del premio Dessì, è impresa più ardua. Me lo conferma Michela stessa che arriva giusto cinque minuti prima dell’ora canonica d’inizio, il che ci permette di nulla concordare riguardo a come la serata evolverà, facendo dell’improvvisazione il miglior catalizzatore di una spontaneità che sempre dovrebbe caratterizzare questo tipo di eventi. Che diversamente tenderebbero a somigliare ad una svendita urlata di pentolame, tipo Vanna Marchi, per intenderci. In realtà il pericolo è più torico che reale, che l’autrice di cui parleremo è persona del tutto eccezionale, per come scrive e per come è. Le metto in mano la "Gazzetta del Sulcis"di un anno fa dove scrissi del suo "Il mondo deve sapere", il libro che le ha spalancato le porte dell’editoria che conta: da allora per Einaudi, prima nella "ET Geografie" ha pubblicato un "Viaggio in Sardegna", poi per la più prestigiosa collana degli "Struzzi" eunadiani uno scritto in un’antologia dall’improbabile titolo "Questo terribile intricato mondo" (proviene a quanto pare da una frase contenuta in un vecchio discorso di Enrico Berlinguer) e, buon ultimo, questo suo "Accabadora", che nel Dessì ha bruciato sul filo di lana i libri di scrittori quali  Raffaele Nigro e Giorgio Vasta. A S. Giovanni in Sinis, frazione marina del comune di Cabras, dove Michela è nata (nel ’72) vado da una vita (ospite di un’amica milanese innamorata della Sardegna). C’è chi nasce alle falde di Montevecchio (non che io mi lamenti) e chi scorazza fin dall’asilo tra le spiagge di quarzo multicolore di "Is aruttas", "Maimoni", "Mari Ermi". Io dico che un po’ di quel sole che si rifrange sui granelli metasilitici che carezzano il mare cobalto del Sinis le è rimasto nel brillio dello sguardo, traditore di un’intelligenza superiore, mi permetto di dire, da strega, visto i libri ammalianti che sa  scrivere. Ho letto in una sua intervista (internet docet) che non sopporta i giornalisti che le chiedono quanto di autobiografico ci sia nei suoi scritti, ma mi tocca correre il rischio visto che nella dedica del suo libro ultimo si legge:"A mia madre. Tutt’e due". E allora Michela ci dice che sì, anche lei è "fill’ e anima", come la Maria Listri del libro. Che in realtà è di questo particolare rapporto vuole parlare soprattutto. Il fatto poi che Bonaria Urrai, che sceglie la piccola Maria, orfana di padre, quarta femmina di una famiglia povera, a vivere con sé, come figlia d’ anima, sia anche una "accabadora", è un elemento ulteriore, significante ma non caratterizzante in assoluto per lo stendersi della trama. Il titolo stesso del libro doveva essere provvisorio ma, come dice Michela, nulla di più definitivo delle cose provvisorie: quelli dell’Einaudi se ne sono innamorati, per il suono di mantra che ricorda. Nella trattativa finale in cui l’autore ha una limitata autonomia di contrattazione, lei è riuscita a strappare un’altra opzione che, in questi tempi italioti in cui la libertà di stampa viene coartata da una abnorme concentrazione di mezzi mediatici di proprietà di un unico editore che, alla faccia della democrazia egualitaria, ha scelto di "entrare in politica", seppure per salvarci dal pericolo comunista,le ha permesso che neppure una riga del libro venisse, non dico censurata,  ma minimamente mutata. Che poi codesto editore (il più ricco d’Italia), di cui non faccio il nome per il diritto alla privacy, si arricchisca viepiù vendendo i libri di Michela, e siamo già alla nona edizione, è uno di quei paradossi da cui non si riesce ad uscire. Finora. Gli è che ogni scrittore che voglia farsi leggere, cosa che tutti li caratterizza ontologicamente, deve passare per queste forche caudine, pena la marginalità a cui è condannato diversamente. E Michela Murgia, ci tiene a ribadirlo, non scrive libri sardisti per soli sardi, scrive vivaddio per tutti. Non siamo interamente d’accordo sull’esistenza certa di questa figura nel portato storico sardo. Io mi rifaccio alla tesi che la dott.essa Maria Antonella Arras ha scritto per il suo master in bioetica nell’università di Torino (anno 2007-2008):"Riti e credenze di fine vita nella tradizione popolare sarda". In essa si può leggere come: "…in Sardegna è sempre esistita una cultura di empatia con la morte, una sorte di "tanatologia culturale" che in ogni tempo ha condizionato la vita della sua gente". E la figura dell’accabadora ne esce ammantata di una sua veridicità, che non le viene solo dai racconti della tradizione. Michela dice  aver fiducia degli antropologi con cui ha parlato e che negano esserci decisive prove storiche al riguardo. Come che sia solo in un contesto sardo una figura femminile che, accettata dalla comunità, si dispone a "finire la vita"di un moribondo, che protrae la sua agonia dolorosamente, può acquistare patente di plausibilità. E Bonaria Urrai è accabadora in grazia di come Michela la fa muovere ed operare. E parlare anche. Con Nicola Bastìu: "…hanno detto che non guarirò…mi devono portare via la gamba…morirò". "Non morirai, ti porteranno solo via una gamba". "E’ lo stesso, forse che un cavallo non è morto se si azzoppa? O lo accudiscono a biada da storpio?". "Tu non sei un cavallo Nicola". "Appunto che non sono un cavallo, mi merito di più che portare tutta la vita il lutto di me stesso"." Non saresti né il primo né l’ultimo". " Piuttosto mi ammazzo". Dovreste leggere anche il libro di Giovanni Murineddu ("L’agabbadora",ed.Il Filo 2007) che tratta il medesimo argomento per gustare appieno, per contrasto, l’intensità di scrittura del libro della Murgia. Che tra l’altro sa anche parlare come un libro stampato, anzi meglio, capace com’è di condire  con l’ironia concetti di vita che si sente meditati e ripensati criticamente. E la platea di stasera ne è deliziata e commossa, di questo suo dire e raccontare. Di questo suo fare "outing" dichiarandosi sardista nell’anima per sempre, rivendicando nell’albero deradicato d’Arborea la vera bandiera sarda, pur riconoscendo al vessillo dei quattro mori una valenza simbolica oramai acclarata. Dice di aver sposato un bergamasco per dare un contributo suo al ravvedimento del popolo padano, quello partorito dall’inventiva del suo inossidabile guru, senatore per antonomasia. Non crede che esista un popolo sardo se non che per condivisione di valori e credenze, mai per isolamento o particolarità etnica. E io che lo vado invece cercando da anni, invano! Nell’antologia che ho citato prima ogni autore, ci dice, ha avuto lo stesso compenso, le sue quattro paginette sono state pagate quanto le quaranta di Alberto Asor Rosa, le ha titolate:"Altre madri&q
uot; (e sarà un caso che voglia scrivere sempre di madri al plurale?). Perché leggere, aspettare ogni libro che avrà la bontà di regalarci? Sentite cosa è capace di dire:"… Dopo i trent’anni… se ancora figlio deve essere, non può più essere maschio. Sarà femmina e non avrà occhi facili. Vorrà sapere…mi chiederà chi è e chi siamo, e le mie risposte non uccideranno le sue domande…non si addormenterà con i cartoni animati, no. Io le canterò una ninna nanna per stare sveglia, una ninna nanna per non chiudere gli occhi, perché abbiamo già dormito tanto e troppo, mentre altri plasmavano i nostri sogni in incubi di realtà".

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