Sempre attuale la figura del nobel sardo Grazia Deledda

di Mario Sconamila

Valentina Fiori si è giustamente indignata perché, chiedendo notizie in una libreria sulle opere di Grazia Deledda, ha amaramente constatato che la commessa ignorava il nome della poetessa sarda. Una fortuita combinazione, un incidente di percorso? Leviamoci subito questo dubbio. L’Italia di oggi è anche questa, rotolante sempre più verso una valle non incantata, ma piena di indifferenza e ignoranza. D’altronde, cosa aspettarsi di più da un Paese ormai completamente assorto e gioioso di seguire le miserrime dispute politiche e totalmente dipendente dalla diseducativa televisione? Grazia Deledda e le sue opere creano imbarazzo e diversità di opinioni anche a tanti decenni dalla scomparsa. Più passa il tempo, tanto maggiore sembra essere, paradossalmente, la sua presenza letteraria. Intendiamoci, anche noi sardi abbiamo avute le nostre colpe, se è vero che allorché viveva in Sardegna, prima del suo definitivo trasferimento a Roma, i suoi romanzi erano contestati inizialmente da una parte non lieve della popolazione, che solo col passare del tempo si sarebbe attenuata. La famiglia patriarcale del tempo male accettava i drammi delle famiglie, le avversità del destino, l’inferiorità palese dell’uomo dinanzi agli "eventi", che evidenziavano in tutta la sua potenza l’impari lotta fra l’uomo stesso e la natura. Ma la sua figura, è bene dirlo senza esitazioni, creò mal sopiti malumori ed una accettazione forzata e controvoglia soprattutto negli ambienti della capitale. In primo luogo per il suo essere "donna", proprio in un periodo, il ventennio, in cui l’Italia aveva necessità di figure maschili che mostrassero i muscoli. Ecco quindi il paradosso: le sue opere, che avevano per oggetto i destini negativi e avversi dell’uomo davanti al fato, ambientate per di più in una Sardegna che all’epoca risultava assai più lontana di quanto non lo sia oggi, erano quasi snobbate dall’ufficialità del regime, ma sempre più lette e apprezzate dai letterati e dalla popolazione. Il culmine si ebbe allorché, tra lo stupore generale, nel 1926 le fu assegnato il premio Nobel per la Letteratura. Ci sono dei risvolti interessanti legati alla reazione dell’Italia del tempo. Senza tanti giri di parole, la notizia venne accolta con molta freddezza. La motivazione era ben chiara: il fascismo sperava che tale premio fosse attribuito a Gabriele D’annunzio, che incarnava alla perfezione l’italianità del tempo: uomo, militare, interventista, amico e ammiratore (in verità a fasi alterne) di Benito Mussolini, audace ed anche fine poeta, è bene aggiungere. Di sicuro, perché niente è dovuto al caso, le opere della Deledda erano assai apprezzate all’estero. Non deve stupire questa apparente contraddizione: la diversità di giudizi nostrana si rivelerà in tutta la sua continuità anche a posteriori. Si prenda il caso di Dario Fo, anche lui Nobel per la Letteratura, assai malvisto nel territorio nazionale da una non lieve fascia della popolazione soprattutto per la sua ideologia, ma addirittura esaltato come un "grande" all’estero, come io stesso ho avuto in diverse circostanze l’opportunità di verificare. Curiosamente, la "disputa" che divise l’Italia fra i sostenitori della Deledda e di D’Annunzio, ebbe un’altra grande donna, l’attrice teatrale Eleonora Duse, la più famosa del tempo, involontaria compartecipe dei due illustri poeti. La Duse fu per anni l’amante nemmeno segreta di D’Annunzio, che galvanizzò le cronache mondane e non solo di un’Italia indottrinata; la stessa attrice, ormai in età adulta, sembra (anche se è sempre mancata una conferma ufficiale) col consenso della Deledda, si cimentò nella sua prima e unica esperienza di protagonista cinematografica nella trasposizione del romanzo "Cenere". Nell’emblematica figura della madre che in un paesaggio aspro dell’Isola si lascia morire d’inedia per il dolore procuratole dal figlio ingrato che l’abbandona per seguire la donna che diventa sua moglie, è racchiusa forse la debolezza interiore dell’uomo di fronte all’ineluttabilità del destino. Quelle ambientazioni sono sempre attuali in terra sarda; quei tempi sono cambiati, ma serpeggia sempre quell’impalpabile senso delle avversità della sorte che pare circondare il destino della popolazione. Sarebbe utile una riflessione su questo aspetto che il trascorrere degli anni rende immutabile. Forse la Deledda ebbe l’intelligenza di capire e anticipare coi suoi scritti quella specie di "fatale destino" che sembra costituire la peculiarità della vita sarda. Il subire quasi con impotenza senza alcun spirito di reazione.

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