Pensando alla mia Sardegna, nel viaggio tra l'Argentina e la Bolivia

di Elisa Cappai

 

Durante la traversata dall’Argentina alla Colombia, attraversando Bolivia e Perù, la mia terra stava conficcata dentro di me come se quell’isola galleggiasse dentro il mio petto, pulsando come un cuore. E’ proverbiale l’attaccamento degli isolani alle proprie radici. Ma quando mi sono messa in viaggio credevo che sarei riuscita ad  abbandonare il mio bagaglio culturale per assumere quello delle popolazioni che andavo ad incontrare. Non è stato così. Da brava antropologa ho scoperto il vero senso della mediazione nel valore dello scambio reciproco, imparando a riconoscere ancora meglio cosa mi distingue come sarda orgogliosa della sua terra, ma cittadina del mondo per vocazione. Nell’atterrare a Buenos Aires niente era simile alla mia isola, il mare non era mare ma oceano e la terra non era né isola, né penisola, ma bensì continente, la grande nazione delle migrazioni italiane e sarde, un paese con un sapore familiare nonostante ci fosse una lingua diversa da parlare. I cognomi italiani e i richiami al paese da cui stavo momentaneamente fuggendo erano in ogni angolo, sui manifesti appesi ai muri, nelle insegne di bar e pizzerie, a ricordare l’unione al di là delle distanze di spazio e memoria. La capitale argentina è diversa da qualsiasi capitale europea, è un mondo moderno, nettamente europeo, ma nel lato più caloroso e passionale del Vecchio Mondo, Buenos Aires è bella come un’adolescente. Colorata, musicale, vitale. Anche se il turista non vede gli spazi tragici di povertà che con estrema probabilità nasconde la periferia. E allora mi son voluta spingere ancora più verso sud, verso la leggendaria Patagonia. E sull’autobus che doveva attraversare la sterminata pampa fino a Puerto Madryn ho incontrato Don Gregorio Eron, un signore della regione del Chubut che sa raccontare la sua terra e le sue leggende teuhelche e mapuche come i nonni una volta raccontavano le storie delle janas e dei tempi di cui ancora ci offrono granitica testimonianza i nuraghe. Inizio a sentire nelle sue parole il desiderio di farmi conoscere il suo paese e la sua storia, la tipica voglia che trasudano gli occhi dell’ospitalità sarda, è stato anche questo ad aiutarmi a non farmi stringere nella morsa della solitudine. Le mie radici mi tenuto in vita e mi hanno permesso di scoprire quali storie stavano nascoste dall’altra parte del mondo. Storie diverse ma che hanno un senso universale. E dopo più di 20 ore su strada ho dovuto salutare Don Eron e i suoi racconti mitici che mi hanno offerto una chiave per aprire lo scrigno dei segreti delle terre più a sud di questa ragione del mondo. E con la Patagonia sono giunti altre mille immagini e scorci splendidi ma così diversi dalla calda e mediterranea Sardegna. I ghiacciai, i laghi, i picchi innevati e altissimi, fotografie di una natura selvaggia ma opposta alla bassa macchia mediterranea e alle basse montagne della Barbagia o del Sulcis. Sarà la Bolivia un’altra volta a portarmi attraverso i suoi paesaggi indietro nel tempo e nello spazio, proiettata a casa mia a migliaia di chilometri di distanza. Ma non per la vista sul mare, di cui la Bolivia non può godere vista la sua posizione centrale e senza sbocchi sull’oceano. Saranno le sue tradizioni e lue caratteristiche più particolari e ridisegnare scenari già conosciuti fin dall’infanzia. E sono gli eucalipti della valle di Cochabamba e quei vecchietti sul ciglio della strada appena ritornati dai campi dorati a farmi ricordare quando da bambina osservavo quelle scene mentre sbirciavo dal finestrino in una delle tante gite fuori porta. A Tarata e Punata ho risentito l’odore di quegli alberi, mentre fichi d’india spuntavano da case abbandonate, fatte di paglia e fango, di argilla, fatte di ladiri, come si dice da noi. L’aspetto di quelle case rurali era uguale a quello di tante case sarde che con sudore e dedizione son state costruite mattone dopo mattone dalle sapienti mani di chi sapeva bene come si mantenesse in piedi un’abitazione. Generazioni al di là degli oceani hanno trovato medesimi stratagemmi per la sopravvivenza a dimostrarci come, ovunque andiamo, pur restando profondamente sardi possiamo specchiarci nell’altro. Tante cose ho incrociato sul mio cammino americano che avevano il potere di riportarmi in Sardegna. Mentre prendevo l’ennesimo pullman che mi avrebbe avvicinato a Potosì e al suo Cerro Rico, colmo di miseria e minerale, salutavo altri frammenti boliviani che entravano a far parte di me come di me fanno parte le spiagge dell’iglesiente. Lungo la strada e sulle vallate l’oscurità doveva regnare, ma piccole fiammelle testimoniavano una miriade di falò accesi per la notte di San Juan, il 24 Giugno, dall’altra parte del mondo la notte più fredda dell’anno. Tanti fuochi che erano luci in tutto quel nero della notte andina, luci che illuminavano gli usci e scaldavano i visi gelati di bimbi che correvano intorno a quelle fiamme. Ed allora ho sentito sulle mie mani il calore dei fuochi di Sant’Antonio festeggiati in così tanti paesi della regione sarda, da Orosei a San Giovanni Suergiu. Il fuoco e il legame ancestrale con tradizioni antiche che si perdono tra religione e culti pagani. Viaggiando ho riattraversato la mia vita passata andando verso il futuro. Ho teso la mano a gente che parlava una lingua diversa e che aveva la pelle scura, meno della mia resa olivastra e bruciata dal sole del sud Italia. E ho riscoperto in un piccolo grande popolo la voglia di riscattare e rivendicare la dignità della mia terra ricordando la sua storia e difendendola dagli abusi. Non mi ero mai sentita così a casa, lontano da casa.

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