La "Grande Guerra", culla violenta del novecento: l'orrore di un'inutile strage

di Manlio Brigaglia

  

Guerra mondiale. La chiamarono così anche se non tutto il mondo ne fu coinvolto: come sarebbe accaduto, invece, nella seconda. Ma quell’aggettivo esprimeva bene la percezione che ne ebbero i popoli, l’idea di un conflitto a cui non bastavano le molte aree nazionali in cui divampò o che ne sentirono gli effetti devastanti. Fu chiamata anche in altri due modi: "la grande guerra" e la "prima guerra mondiale". Tutt’e due le espressioni rendono l’idea. "Grande" è un aggettivo che dice l’enormità inafferrabile delle sue dimensioni, non solo territoriali; quell’aggettivo "prima" voleva significare, quando si cominciò ad usarlo, che era stata quella la prima guerra che avesse sconvolto l’intero pianeta: nessuno si accorse di quanto malaugurio suonasse l’automatica convinzione che a quella prima ne sarebbe seguita una seconda. E in effetti la seconda fu diretta conseguenza delle dure condizioni imposte alla Germania, che provocarono l’ascesa del revanscismo nazista. L’enfasi che è stata messa nel 2008 sulle celebrazioni del 90esimo di quel conflitto ha tante motivazioni, non tutte lodevoli. La meno lodevole sarebbe quella che volesse comunicare semplicisticamente che soltanto una certa parte politica ha l’esclusiva dei valori per i quali allora si combattè: o, meglio ancora, quei valori per i quali le minoranze nazionalistiche dei diversi paesi in guerra cercarono di convincere combattenti e cittadini che si era combattuto e tanti erano morti (oltre 10 milioni di soldati e centinaia di migliaia di civili). Fu anche la prima guerra tecnologica: quella che mise in campo, volgendole a fini di morte e di sterminio, molte delle conquiste che la ricerca scientifica aveva accumulato a cavallo fra 800 e 900. La scoperta che l’uomo poteva volare, e dunque bombardare il nemico non solo con le artiglierie ma anche con gli aerei; i proiettili e le bombe al fosforo capaci di provocare ferite e danni di gran lunga più vasti; il gas asfissiante, dispensato così largamente che sin dai primi anni di pace ci si sarebbe preoccupati di metterlo al bando. Fu anche una guerra "inedita". La prima che coinvolse masse intere di uomini e di donne, che colpì i civili non meno che i militari: la stessa Italia conobbe anche le fughe disperate dei civili davanti al nemico che avanzava, come accadde nelle regioni di Nord-Est dopo Caporetto; e dopo Caporetto anche la ritirata disordinata di un intero esercito (con i capi che accusavano i soldati di viltà). La prima che mescolò ideologia e politica al sacrificio quotidiano delle trincee e degli assalti all’arma bianca. In "Un anno sull’Altipiano", il famoso libro di Emilio Lussu su quella guerra, c’è una lunga, drammatica autocritica dell’interventismo, che pure era apparso, nei giorni del "radioso maggio" 1915, animato da motivazioni nobilissime: dai democratici che volevano completare il processo di unificazione del paese per dargli una compiuta civiltà politica ai rivoluzionari internazionalisti (come Mussolini e Corridoni e come Attilio Deffenu) che pensavano che abbattendo la Germania, la madre di tutti i capitalismi, si sarebbe fatto spazio all’uguaglianza socialista. Il caso più clamoroso fu quello della Russia, dove la guerra zarista fu trasformata nella Rivoluzione d’Ottobre di Lenin. Fu soprattutto una guerra di massa. Soprattutto di masse combattenti, scaraventate le une contro le altre come "carne da cannone": le innumerevoli battaglie dell’Isonzo, nella guerra italiana e lo stile "cadorniano" seminarono di cadaveri l’intera linea del fronte. Le linee dei monumenti ai caduti nei nostri paesi raccontano più di qualunque cronaca: le statistiche dicono che l’Italia (cioè gli italiani: soprattutto contadini e artigiani, proletari di ogni posto del sud) ebbe più di 100 morti ogni mille chiamati alle armi; la Sardegna 138 ogni mille, una delle percentuali regionali più alte. Una "inutile strage" la chiamò, nella sua "Nota ai capi dei popoli belligeranti" papa Benedetto XV: era il 1917, l’inutilissima strage sarebbe continuata ancora più di un anno. Nel suo libro Lussu immagina il soldatino che torna al suo paese (ad Armungia, in Sardegna, ma che si tratti della Sardegna non è detto in nessun punto) e va a trovare la madre del suo comandante, e quando gli chiede come è la guerra non ha esitazioni: "La guerra, un macello permanente". La celebrazione di una guerra vale solo se, ricordando tutti quelli che ci hanno lasciato la vita, si riflette sulla disumanità della guerra. L’Italia repubblicana lo ha scritto chiaro nella sua Costituzione: il nostro paese "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli" e anche "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".

 

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