L’ISOLA DEGLI STEREOTIPI COMINCIA ALL’ARRIVO: DALL’ACCOGLIENZA IN AEROPORTO ALLA COMMERCIALIZZAZIONE DEL FOLKLORE IN NOME DI UNA DECANTATA E USURATA IDEA DELL’OSPITALITA’ SARDA

di SARA MUGGITTU

Il 2020 è stato proprio un anno da cancellare in tutti i sensi, compreso quello turistico. 

Tra le tante cose che non mi sono mancate c’è sicuramente il teatrino desolante delle nostre tradizioni, allestito in strada o nelle piazze. E non solo lì.

Chi mi conosce, sa che sono una delle più accanite sostenitrici della nostra identità e dei nostri costumi, a partire dal mio nome da blogger, Barbaricina, e proseguendo con la ricerca degli usi e costumi.

Quando ormai pensavamo di esserci liberati (in parte) di alcuni di questi stereotipi, mettendoli in pausa almeno per quest’anno, ecco che arriva il post dell’Aeroporto di Olbia che ci ricorda che i turisti verranno accolti dal gruppo folk di Olbia ovviamente in Costume (l’abito tradizionale da noi si chiama così e in quanto nome proprio, va scritto in maiuscolo).

Come me, credo che in molti nella nostra isola si siano sentiti un pochino presi in giro.

In Sardegna il Costume tradizionale è una cosa seria: in tanti paesi molti dei nostri parenti più anziani lo indossano ancora. È meraviglioso poter ammirare le donne di Busachi o quelle di Desulo che ti appaiono all’improvviso, passeggiando tra gli antichi vicoletti, o ancora l’austerità delle donne di Orgosolo in processione e l’eleganza delle donne in Barbagia, comprese noi di Mamoiada, a Pasqua per la cerimonia de s’incontru.

Potrei continuare all’infinito.

Sui social, ovviamente, in chi ha commentato l’iniziativa aeroportuale traspare un certo disappunto.

Ora io e molti altri ci chiediamo se questa accoglienza all’arrivo sia davvero necessaria, in un periodo in cui tutto è stato messo in pausa e ci si interroga sugli anni a venire. 

Questo modo di fare ricorda vagamente l’accoglienza dei turisti alle Hawaii con tanto di ghirlande fiorite da regalare come benvenuto. Forse quest’ultima immagine è quella che si accosta di più al nostro caso. Uomini e donne in Costume che regalano alcuni gadget ai passeggeri in arrivo a Olbia: un’istantanea che non mi piace e che la Sardegna non si merita.

O forse no, magari la merita? Pensiamoci.

Tempo fa scrissi per il mio blog un articolo dal titolo “C’è tempo per ogni cosa”, nel quale ponevo l’accento sulla profonda trasformazione dei nostri riti a favore di una commercializzazione e uno sfruttamento a fini economici. Prima il quotidiano e le tradizioni erano profondamente legate alle stagioni e alla terra mentre oggi sono diventate solo un mezzo per stupire persone che spesso non capiscono quello che vedono e, di fatto, non lo stiamo capendo nemmeno noi. Ecco che in questo modo trasformiamo un costume tradizionale (in senso di usanza e tradizione, stavolta) in un teatrino per mostrare ai turisti ciò che in realtà in molti luoghi non si usa più fare.

La ricostruzione di riti e tradizioni scomparse che è un po’ quello che accade durante le numerose sagre estive.

La Sardegna, che più di altre regioni potrebbe fare del turismo un’industria, non riesce a fare una programmazione seria che tenga conto di tutte le potenzialità di ogni singola comunità. Siamo ritornati al punto, come ho letto in alcuni commenti, di “mostrare le donne vestite come nei primi del ‘900 e allo stesso tempo svendiamo la Sardegna a quegli stessi che 150 anni fa, accolti da simili mascherate, la depredavano”.

Sembra un discorso esagerato ma non lo è, sopratutto se pensiamo che in tutti questi anni il tema della valorizzazione turistica della Sardegna passa ancora attraverso la cementificazione delle coste e l’aumento delle volumetrie, senza però pensare alle infrastrutture o all’eliminazione delle barriere che impediscono un vero sviluppo specie delle zone interne.

Ritornando all’uso dei figuranti in abiti tradizionali essi, a mio avviso, non rappresentano il volto della Sardegna. Ma su questo tipo di accoglienza agli “stranieri venuti da oltre mare” la nostra isola non è nuova nell’organizzare sceneggiate. Ricordo ancora quando per l’arrivo del Presidente Cinese Xi Jinping nel 2006 il comitato di accoglienza scomodò persino i Mamuthones e Issohadores che sfilarono nell’antica città di Nora.

Per me fu un vero trauma.

Una testata giornalistica, raccontando l’episodio, scrisse:

“E, visitando i resti dell’antico emporio fenicio, non è mancato un siparietto davanti ad una rappresentazione dei Mamuthones, tipiche maschere della tradizione barbaricina: “Fanno paura?”, ha chiesto a chi gli era accanto per poi applaudire lungamente e avvicinarsi alle maschere domandando di cosa fosse fatta la loro pelliccia”.  

Siparietto venne definito e, in effetti, non c’è altro da aggiungere a questa affermazione.

Mi viene da pensare che non riusciamo davvero a mostrare un briciolo di professionalità nell’organizzare questi eventi.

D’altronde, è inutile nascondere che in molti paesi hanno capito che ricreare vecchie ambientazioni e riesumare improbabili maschere li farebbe rientrare nel vorticoso giro dei finanziamenti regionali. Tipico esempio sono i cosiddetti “Carnevali estivi” nelle più note località turistiche della Sardegna, dove turisti in canotta e ciabatte assistono all’esibizione delle maschere tradizionali sarde con figuranti che sfilano con 40° all’ombra. Ma lo sono anche manifestazioni tipicamente religiose come la sfilata del Redentore di Nuoro, diventata anch’essa un teatrino e perdendo il suo originale significato. E che dire delle donne agghindate con il Costume della festa che si esibiscono in antichi mestieri? Ma sapete che tempo era già considerato un lusso riuscire a avere un simile abito per il matrimonio?

Che cosa ci differenzia, quindi, dai posticci spettacolini dei nativi americani che fanno finta di suonare nelle calde serate estive? Non facciamo anche noi del nostro meglio per imitarli?

Mi piacerebbe davvero chiedere a ciascun componente dei vari gruppi folk della Sardegna che cosa rappresenta davvero indossare il costume tradizionale e che sentimenti prova durante l’uscita o l’esibizione. Ma ve li immaginate i Mamuthones e Issohadores che sfilano attorno ad un fuoco creato ad hoc in una data qualsiasi che non sia il 17 gennaio?

Forse si è davvero perso il significato di ospitalità e accoglienza e si è abusato del termine identità.

In realtà quello che il visitatore vuole va ben oltre questo e la recente pandemia, ancora in corso, ci ha dimostrato che è cambiato il modo di viaggiare e scoprire un territorio.

Il nuovo viaggiatore, quello consapevole, ha bisogno di trovare informazioni, servizi, infrastrutture, collegamenti tra i vari paesi. Ha bisogno di conoscere davvero a fondo la comunità che lo accoglie. Non ha necessità di essere accolto da qualcuno che gli mette in mano una cartina lasciandolo in balìa di un’isola spesso non all’altezza delle aspettative. Non è pensabile che chi arriva in Sardegna debba essere accolto dall’illusione che ovunque nell’isola vi siano piccole tribù di sardi abbigliati ancora con le pelli o peggio ancora con le donnine in costume che li invitano a fare un ballo tondo con loro.

Mi piacerebbe invece che questi costumi venissero valorizzati diversamente, accompagnando il visitatore attraverso la loro scoperta, la storia, rendendolo parte integrante di ogni comunità; cosa, questa, che stanno iniziando a fare in diversi paesi.

Deve finire questa concezione che siamo isolati nel mondo.

Nelle nostre piccole realtà locali abbiamo i computer e i cellulari, anche noi ci facciamo i selfie e siamo continuamente connessi con la fibra (e ricordiamoci che la Sardegna è stata la prima regione italiana ad essere cablata con la fibra ottica già negli anni Novanta). Certo la velocità non è il massimo ma la rete è entrata anche nelle nostre case, facciamocene e fatevene una ragione.

Abbiamo b&b, ristoranti, musei e bellissimi sentieri. Insomma, le attività non ci mancano.

E allora non sarebbe meglio iniziare a far conoscere queste cose piuttosto che mascherarci distorcendo la realtà?

Sara Muggittu

è Guida Ambientale Escursionistica – Fotografa – Webmaster – Social Media Manager

https://www.focusardegna.com/

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4 commenti

  1. Eh beh, avrei potuto scriverlo io questo lungo pensiero… Non così bene, non così dettagliato che non ho vissuto simili episodi.
    Trovo giustissima la definizione “tradizionale” mentre mi fa rizzare i capelli “folkloristico” usato non nelle sua più giusta accezione, del popolo. Brava

  2. Claude SCHMITT

    Condivido l’opinione dell’autrice. Gia nel lontano anno 1976 nel mio libro “Sardegna, nel cuore” (Premio Sardegna) attiravo l’attenzione tra l’altro sul “processo di degradazione” dell’ artigianato locale, e mostravo anche la bellezza del Costume delle zie di Desulo (vedete il mio album “Photographies de Sardaigne”, Della Torre, 1977)…
    Claude SCHMITT

  3. Io vesto in Costume ,ma lasciatemelo dire non mi presteró mai ,nè io nè il mio Costume per queste accoglienze

  4. Maurizio Ciaccio

    Buongiorno,
    condivido in parte questa riflessione.
    Ma quale sarebbe l’alternativa, sono usando la rete?

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