IN TRINCEA CON IL GRANDE CAPITANO LUSSU: CONVEGNO A CINISELLO BALSAMO (MI) NEL CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA

da sinistra nella foto: Giacomo Serreli, Franco Siddi, Carla Cividini


di Sergio Portas

Come sia possibile non riuscire a riempire di gente la sala dei paesaggi di villa Ghirlanda a Cinisello, presente il sindaco della città, anzi la sindaca come vuole “Donne, grammatica e media” di Cecilia Robustelli, la presidente del circolo sardo AMIS che organizza l’evento, tre pezzi da novanta dell’intellighenzia sarda come Franco Siddi, già a capo del sindacato dei giornalisti italiani, Giacomo Serreli,  celeberrimo giornalista di Videolina e Paolo Pillonca, scrittore tanto prolifico che non ci sarebbe spazio sufficiente a citare ogni suo libro, tutti invitati a parlare di Emilio Lussu nel centenario della grande guerra, è mistero glorioso che attiene per certo ai difetti della comunicazione. Possibile che sia sempre e solo una questione di soldi? Giacomo Serreli introduce i lavori dicendo  che giornali come il “Guardian” hanno speso 50 milioni di sterline per una campagna tutta loro intitolata “No Glory in war”, e che di gloria nella prima guerra mondiale ce ne sia stata poca non occorre che siano gli inglesi a ricordarcelo. Franco Siddi (membro del Comitato Esecutivo Internazionale dei Giornalisti, chiosa la locandina )  dovrebbe dire di Emilio Lussu e la Brigata Sassari, roba che neppure il più grande sintetizzatore mondiale di tutti i tempi riuscirebbe a sviluppare in meno di mezza giornata, quindi se la cava (poco e male a mio avviso) con una carrellata sullo scoppio della guerra in cui il primo ministro Salandra sembra prendersi quasi tutte le colpe di farci entrare l’Italia,  dice naturalmente dell’eroismo della “Brigata Sassari” nel Carso, delle due medaglie d’oro al valor militare che ebbe per quei combattimenti, delle pagine straordinarie di “Una anno sull’altopiano”, che Lussu scrisse nel ’36, esiliato a Parigi dopo la sua fuga da Lipari, confinatovi dal Fascismo ( che gli “revocò” le quattro medaglie al valor militare che si era guadagnato) raccontando in stile giornalistico ciò che vide nelle trincee assieme ai suoi soldati, la maggior parte contadini e pastori della sua terra. Di Armungia Lussu, nel 1890 quando vi nacque contava un migliaio di abitanti, ora saranno meno della metà, il padre Giuanniccu di famiglia “nobile” (erano proprietari terreri) sposa una popolana suscitando grande scandalo in famiglia, un “babbu mannu” che porta il figlio a caccia con lui fin dai dieci anni del piccolo Emilio. Caccia al cinghiale anche, con una sola palla in canna, per dare all’animale una possibilità di salvezza. Ad Armungia si va a scuola fino alla terza elementare (altra non ce ne è), i figli dei “signori”. Emilio continua le sue a Lanusei e a Cagliari fino all’università: studia giurisprudenza. Quando tutta Europa si ammala di guerra è, come tutta o quasi la borghesia italiana, un interventista entusiasta. Al seguito di D’Annunzio e di coloro che vedevano nella guerra l’evento finale della riunificazione delle terre “irredente”: Trento e Trieste. Incuranti delle ragioni di chi aveva guidato la politica italiana negli ultimi vent’anni: Giovanni Giolitti era dell’avviso che con un comportamento incentrato sulla neutralità l’Italia avrebbe ottenuto dagli imperi centrali ogni compensazione territoriale avesse ritenuto di richiedere. E quasi tutto il Parlamento era con lui. Il governo e il re di tutt’altro avviso. L’entrata in guerra dell’Italia fu un vero e proprio colpo di Stato. Le masse popolari che avrebbero riempito le divise dei fantaccini non avevano voce in capitolo, né votavano né erano scolarizzate. A comandarle all’assalto dei proletari con mostrine diverse saranno mandati i figli dei borghesi, come Emilio Lussu del resto, né si può dire che dovettero sparare solo a gente che parlava una lingua diversa che la loro, nelle divisioni asburgiche c’erano tanti “italiani”, appunto di Trento e Trieste mandati a morire per la gloria di Francesco Giuseppe, i “nostri” con in bocca l’urlo: “Savoia”! Inutile ricordare che i fanti della “Sassari” di italiano non parlavano neppure una parola. Parlavano sardo, naturalmente, e il sardo divenne presto la lingua della Brigata, 151° e 152° battaglione. Unico territoriale di tutto l’esercito italiano. Anche gli ufficiali che venivano nella brigata dal resto d’Italia capirono presto che se volevano sopravvivervi avrebbero dovuto “sardizzarsi”. I pastori che avevano lasciato il gregge alle donne e ai ragazzini, i contadini che bestemmiavano i loro campi incolti, si fecero portare al massacro come agnelli impotenti, dall’una e dall’altra parte delle trincee, ogni assalto alla baionetta era falciato come grano d’estate dalle nuove miracolose mitragliatrici. La gioventù d’Europa celebrò un suicidio di massa che ebbe termine solo alla fine del 1945, che l’intervallo tra le due guerre servì solo a mettere a punto sistemi d’arma e di massacro ancora più potenti. I totalitarismi nati dalla prima guerra mondiale, stalinismo e fascismo e nazismo, mutarono dalle trincee i loro statiti guerreschi con cui militarizzare tutta la società civile. Emilio Lussu si accorse subito che la guerra sognata tra i gogliardi di facoltà era altra cosa della reale, ma la fece con la convinzione che un “capo” non diserta mai, specie se vede morire inutilmente i sottoposti che comanda. Paolo Pillonca dice la guerra criminalità perenne. Magari si poteva risparmiare il Tacito de “il pericolo germanico rimarrà sempre nella storia dell’umanità”, quei germani erano quelli di Vercingetorige del “De bello Gallico, Erodoto va già meglio: “In guerra sono i genitori che seppelliscono i figli, l’ordine naturale delle cose è rovesciato”. Definisce Lussu grande scrittore, di questo vuole parlarci: con “Un anno sull’altipiano”,  una prosa che sconfina in poesia. Lussu in guerra un po’ come i protagonisti del “Il Cinghiale e il Diavolo”, racconto breve scritto nel ’37, ancora convalescente da un’operazione molto dolorosa che gli avrebbe impedito anche di andare volontario alla guerra di Spagna, dove sognava di organizzare una sua brigata sarda, che in effetti si formò dietro la bandiera dei quattro mori inquartati. Nel “Cinghiale”, dice Pillonca, troviamo una sublimazione del racconto orale, le frasi si susseguono stringate, secche, senza subordinate, quasi un ermetismo, ricordano il rimare di Ungaretti : “Si sta come le foglie sugli alberi d’autunno”. I cacciatori che si raccolgono intorno al fuoco, ognuno dicendo all’altro come il cinghiale gli fosse sfuggito quasi miracolosamente, l’otre di vino che passa di bocca in bocca, tutti analfabeti ma grandi narratori di storie. Non si fa fatica a ravvisare i tratti autobiografici del bambino Lussu, iniziato ai misteri della “caccia grande”, quella al cinghiale e al cervo, ai primi del novecento, la Sardegna una immensa distesa di boschi incontaminati. Le regole della caccia da interiorizzarsi e da rispettare se si vuole diventare “grandi” e rispettati, se si vuole guardare gli altri negli occhi sempre, inferiori o superiori che siano. Sempre a dorso di cavallo, chi va a dorso d’asino è quasi uomo di serie inferiore. La caccia, la guerra: una cosa di uomini. Le donne a casa ad aspettarli con l’ansia nel cuore. Scriverà alla mamma dall’altipiano di Asiago ogni giorno della sua guerra, Emilio. Dirà in seguito che non gli riusciva di sognare della Sardegna, la notte in trincea, non aveva bisogno di vederla in sogno che l’aveva presente ogni attimo del giorno. I suoi fanti, a riposo nelle retrovie, facevano gare di “strumpa”, giocavano a morra, facevano gare poetiche. Ogni tanto anche “bardane” di muli e cavalli verso altre brigate italiane di “amici-nemici”, non sardi, gente aliena. Da tenere sempre in sospetto. Giacomo Serreli ci fa sentire i Tenores di Orgosolo che cantano: Orune e Bitti con su kentukinbantunu rezzimentu ( il 151° era anche quello di Lussu), una roba che fa così: “ Su kentukinbantunu rezzimentu/ con su kinbataduos tottu impare/non sozzis bois sos continentales/ ki azzis mantesu su trinceramentu/orune ebitti cun zente orgolesa/ja nde portan de pilu in s
u coro/tottu su tzirkundariu de nugoru/bi fit in sa brigada tattaresa/. E poi Franco Madau che canta una sua ballata: “Torra fillu miu”, che si può ascoltare anche  nell’allestimento teatrale su Lussu che fece con Mario Medas e Pietro Marcialis. E ancora le launeddas di Andrea Pisu e la meravigliosa voce di Gavino De Lunas, l’usignolo di Padria, che si arruolò volontario nella prima guerra mondiale, ferito a una gamba, la scampò, per trovare morte da martire alle Fosse Ardeatine nella seconda. Inevitabile il “Dimonios” della Sassari che apre la sfilata del 2 giugno. Con la Carla Cividin, presidente dell’AMIS, che ne legge la traduzione in italiano. Scrive Mario Rigoni Stern nella prefazione a “Un anno sull’altipiano”: “Tra i veri Capitani Emilio Lussu è stato il più grande. Re pastore, nobile cacciatore, domatore di cavalli, uomo politico in prima linea nei momenti più importanti della storia d’Italia di questo secolo, narratore semplice come un classico antico, ma per me capitano. E basta.”

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