NELLE LETTERE ALLA SORELLA IL GIOVANE ING. CARLO EMILIO GADDA, DIPENDENTE NEL 1920 (DA AGOSTO A NOVEMBRE) DELLA SOCIETÀ ELETTRICA SARDA DI CAGLIARI, SI LAMENTA DEL CLIMA E DEGLI ABITANTI DELL’ISOLA

Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973), come scrittore – ci dice l’Enciclopedia Treccani – è stato «tra i massimi innovatori della narrativa novecentesca, sperimentò uno stile linguistico che fonde in sé lingua nazionale, forme dialettali e usi gergali». Di professione era ingegnere, si era laureato al Politecnico di Milano in Elettrotecnica il 14 luglio 1920 e il suo primo lavoro, invece che all’estero (dove ambiva andare), lo trovò in Sardegna alle dipendenze della Società Elettrica Sarda di Cagliari.

La testimonianza diretta relativa ai mesi (da agosto a novembre 1920) in cui Gadda operò nell’isola la abbiamo dalle lettere scritte alla sorella Clara, raccolte nella prima parte di un prezioso volume (pagine 107) intitolato “Lettere alla sorella (1920-1924)”, edito da Rosellina Archinto nel novembre 1987, che riporta una introduzione del curatore Gianfranco Colombo e una nota biografica firmata da Carlo Viganò.

Qui di seguito si danno gli stralci delle lettere in cui il futuro scrittore si cimenta, con compiaciuta ironia, nella sottolineatura di aspetti della vita vissuta durante il soggiorno cagliaritano e non lesina giudizi indubbiamente ingenerosi (che urtano la sensibilità del sardo che firma questo articolo) sull’indole dei sardi, qualificati come “antipatici” (e fin qui possiamo far passare una valutazione soggettiva) ma anche con altri aggettivi irridenti che i lettori troveranno nelle righe qui riprodotte. (Il volume da cui sono tratte le ampie citazioni qui di seguito è oggi reperibile solo presso alcune librerie antiquarie e ne raccomando l’acquisto a qualche biblioteca sarda dato che l’Opac Sbn non dà la presenza dell’opera in nessuna biblioteca isolana!).     

Cagliari, 7 agosto 1920

Clara carissima […] Ilmio viaggio fu il solito viaggio modello 1920: nulla di peggio di quanto m’aspettassi; e nulla  di meglio.  La traversata Civitavecchia-Terranova fu una corsa “rafraîchissante” che mi mise in corpo un appetito del diavolo, male appagato dal servizio del restaurant di bordo, molto salato, forse dall’aria marina.

L’amena isoletta è pervasa da un soffio tropicale, spoglia di alberi, ricca di sassi. Ci sono anche, non si può dimenticarli, i nuraghi e i fichi d’India, mostratimi  dai compagni di viaggio con voce vellutata dalla commozione. Un altro compagno di viaggio richiamò la mia attenzione sopra delle stuoie.

Arrivando a Cagliari, il tetto del vagone era rovente.

La cittadina, nella parte nuova, è ben costruita: un bel porto, un bel paesaggio; il “bastione” è un terrapieno con scalinate e portici in pietra chiara, veramente maestoso.

Gli alberghi lasciano a desiderare, a detta della guida del Touring e più ancora a detta della loro stessa apparenza: sono sceso, anzi salito al primo albergo, la “Scala di Ferro”.  Tutto è in arretrato, salvo i prezzi.

A questo proposito, noto che le mirabolanti virtù sarde (ospitalità, lealtà, ecc.) si esprimono nei conti in modo molto continentale, milanese o torinese o genovese perfetto. La camera 100 lire: è bella, è spaziosa, ma anche un biglietto da 100 è spazioso, specie per me.

Pare che ci siano dei bagni di mare: (i più belli del Mediterraneo). Sono dietro un cocuzzolo di roccia pelata tipo brigante Musolino, e il mare, naturalmente, è azzurro: questo azzurro pare sia qualchecosa di trascendente.

Per scacciare la malinconia e ascoltando le voci dell’interno ho fatto una buona colazione in un ristorante dove alcuni avventori erano in maniche di camicia: ho mangiato anguille e aragoste a un prezzo onesto, dati i tempi: [Nota che qui le aragoste, il pesce, ecc. non è roba di lusso, come potrebbe essere all’Eden; ma la mangiano anche in maniche di camicia.]

Simpatico è l’ing. Silva, il direttore dell’Esercizio, un giovanotto di 30 anni. Buona gente, almeno pare, i subalterni. Oggi ho galoppato tutto il giorno, la mattina nella centrale, il pomeriggio dietro le linee della città, per far conoscenza con le cabine. Il mio accompagnatore era il capo tecnico della bassa tensione, un sardo della brigata Sassari. Erano le tre del pomeriggio, cioè le 2 solari, e mi informava camminando nel locale polverone con gran naturalezza. Così faccio una specie di cura mitridatica con­ tro le insolazioni.

Quanto rimpiango le nostre montagne, la verde Lombardia!: rimpiango per modo di dire, visto che spero di tornarci presto. Per consolarmi di questa terra bruciata, mi vanto con me stesso di averla prevista: e realmente m’accorgo che l’immagine che me n’ero fatta è molto, molto vicina alla realtà.

Nel percorso in ferrovia, si vedeva ogni tanto una fumata enorme all’orizzonte: sono prati o campi che bruciano a ettari; i bravi isolani trovano che fa troppo fresco nella loro splendida terra e pensano di rimediarvi con questi allegri suffumigi, che lasciano sul suolo un negrore con fili giallastri qua e là, d’un aspetto seducentissimo.

Cagliari, 17 agosto 1920

Carissima Lalla, […] come ti scrissi, ho moltissimo da fare e quindi poco tempo per scrivere: il lavoro non è pesante, anzi vario e quale desideravo: ma mi occupa l’intera gior­nata fino oltre le otto di sera.

Mi è invece pesante il clima, nel quale c’è qualche cosa di stranamente antipatico: per darne un’idea, è come l’ambiente d’una serra, quando si prende il sole sul capo attraverso i vetri: ma mi abituerò, tanto più col rinfrescarsi della stagione.

Sono stato già a Iglesias, a Monteponi e a Porto Vesme, per vedervi gli impianti, che sono modernissimi. Poi, con l’ing. Dolcetta, […] che è molto simpatico e cordialissimo, sono stato a visitare i lavori del Tirso, veramente grandiosi e in una fase interessante, poiché si stanno ponendo le fondamenta delle pile della diga.

[…] Sono molto soddisfatto delle mie occupazioni, del modo in cui vengo trattato. Il direttore è simpaticissimo. L’unica seccatura è il clima, la Sardegna in sé e per sé.

Porto Vesme, 21 agosto 1920

Lalla carissima, sono a Porto Vesme per dieci o quindici giorni, poi dovrò andare a Iglesias. […] Siamo quasi nel deserto. Porto Vesme è una banchina, (senza porto), a cui fa capo una  ferrovietta  a  scartamento  ridotto, la  quale  discende  al  mare  i  minerali  della  conca di Monteponi.  Vi attraccano piccoli piroscafi e velieri da carico.  Oltre a questa banchina, c’è la stazioncella, due guardie di finanza e la Centrale, che è grandiosa e  modernissima,   con   begli   impianti   fatti  dalla casa Siemens per la parte elettrica e da Tosi per le caldaie, ecc.

La centrale brucia metà della produzione di lignite della miniera di Bacu Abis e alimenta tutti gli impianti di Sardegna (che sono in prov. di Cagliari). Di qui parte la linea a 70.000 volt per Monteponi, dove avvengono gli smistamenti.

Sono lieto della residenza, selvaggia e solitaria, adatta per me. Farò i bagni di mare, che a Cagliari non potevo fare per il lavoro, e la cura dell’uva.

Speriamo di non prendere la malaria: mi ho dei riguardi e prendo il chinino.

Del trattamento fattomi dalla Società  non  posso  che lodarmi,  sotto ogni rapporto.

[…] L’unico guaio è il clima e la gente selvatica, rompiscatole, inospite.

Iglesias, 12 settembre 1920

La vita a Porto Vesme è certamente molto monotona, ma la giornata passa lavorando. Il clima è ingrato, come in tutta la Sardegna.

[…] Circa l’idea di venire a Cagliari, essa mi ha meravigliato, poiché già nel partire ti avevo scritto che non intendo di fermarmi qui: (a meno che speciali avvenimenti mi vi costringano): questa terra bruciata non è per me e questa popolazione di goffi rognosi è meglio che si goda la sua sporcizia senza di me.

Io ho sempre desiderato di andare all’estero, dove la vita, anche se dura, si svolge in un ambiente meno bestiale e meno lurido.

Porto Vesme, 14 settembre 1920

[…] Io sto bene. Sono un po’ seccato degli avvenimenti nel campo politico e industriale, ma non me ne do eccessivo pensiero.

Qui non vi è nulla ancora e, comunque, l’animo degli operai è mite. Essi sono ignoranti e testoni, ma non cattivi e assolutamente incapaci di male azioni. Io sono in ottimi rapporti con tutti.

[…] Qui fa sempre caldo, naturalmente aumentato dalle caldaie e dalle macchine. L’uva è finita e rimangono solo i fichi e i fichi d’India. […] Il terremoto non alligna in Sardegna: è una terra molto più vecchia e già con la testa a posto. Nessuna scossa, nulla.

[…] Ti scrissi che non ti consigliavo di venir qui per il clima: io non ho intorno che dei malarici e penso che guaio sarebbe se tu dovessi contrarre le febbri. Esse sono una cosa ben grave già per chi è in floride condizioni!

E questa è la causa principale per cui non voglio prolungare la mia residenza in Sardegna. […]

Cagliari, 2 ottobre 1920

[…] Io sono a Cagliari dal 21 settembre. Il direttore è tornato. Ho molto lavoro e l’orario delle otto ore è sempre superato. Devo disegnare, fare calcoli e progettini di linee e occuparmi della sorveglianza della Centrale.

Sono soddisfatto dell’impiego che realmente è buono, buonissimo e mi consente di far pratica in molte cose. Il direttore come pure il rag. Lazzari sono simpaticissimi.

È grama invece la vita in Sardegna: il clima è molto antipatico: ora è sopportabile, salvo che nelle giornate in cui soffia il levante, ma prima era infernale. Non ho avuto la malaria, fino ad ora: adesso viene la stagione buona, e dopo l’ottobre il pericolo cessa.

Abitanti piuttosto antipatici, non però cattivi. Vita d’insieme molto misera, paesi che non hanno nulla e non dicono nulla. Cagliari è discreta, ma non c’è mezzo di fare una conoscenza. […] Dopo pranzo passeggio un po’ in Via Roma, una specie di allée lungo il porto.

Cagliari, 7 ottobre 1920

[…] Di salute sto proprio bene, ora. Lavoro molto. Dalle otto del mattino, alle otto di sera, salvo s’intende la colazione. Sarei tanto contento del mio posto, se non fosse in Sardegna! È troppo antipatica quest’isola, questa gente!

Ora ho dovuto progettare delle cabine di trasformazione per 15.000 volt. Sto ora progettando le stazioni a 70.000 volt della linea del Tirso. Poi mi devo sempre occupare della Centrale, sorvegliar un po’, vedere i lavori di riparazione, ecc. Il mio posto in somma è molto interessante e c’è molto da imparare. Ma è in Sardegna!

Per altro, dati gli avvenimenti occorsi nel continente, non è stato male essere qui.

Cagliari, 12 ottobre 1920

[…] Io sto ora benissimo: il clima è fresco e discreto. Progetto le stazioni di trasformazione della linea del Tirso e ho sempre da fare in Centrale.

Cagliari, 19 ottobre 1920

Lalla Carissima, sto sempre benone e lavoro. Adesso piove e fa quasi freddo: un simpatico brivido autunnale, (finalmente), dopo tanto bruciore di terra.

In questi giorni mi occupo dello smontaggio di una turbina che deve andare alla riparazione a Oerlikon [quartiere di Zurigo, Ndr].

Roma, 27 novembre 1920

Telegramma:

Salute ottima lasciata Sardegna trattengomi Roma poki giorni pratike urgenti prego indicarmi vostra residenza fermo posta

Commenti alle testimonianze gaddiane sopra riportate

1) Il curatore Gianfranco Colombo pubblica la seguente nota: «Non deve trarre in inganno questo tono acre e a volte addirittura violentemente imprecante contro la Sardegna e, più avanti, contro i sardi. C. E. Gadda non è affetto da xenofobia acuta, piuttosto lavora dentro di lui una lenta, ma insopprimibile nevrosi che gli rende spesso insopportabile tutto ciò che lo circonda. Nella fattispecie la lontananza da casa, l’aver accettato controvoglia un lavoro che lo ha allontanato dai suoi affetti, fanno sì che il veleno ch’egli mastica covi dentro di lui. Gli faccia veder in modo alterato tutto ciò che nell’isola lo circonda».

2) Pier Giorgio Zunino, autore del volume “Gadda, Montale e il fascismo”, Laterza, 2023, pp. 401.

«Quando nell’agosto del 1920 l’ingegner Gadda aveva abbandonato Milano ritrovandosi in una delle terre più desolate d’Italia, la Sardegna, il suo senso di perdizione inevitabilmente si accrebbe. Per lui, un laureato al Politecnico, precipitare in un mondo fermo in una immota arretratezza, e che tale emergeva anche nelle coeve descrizioni di Gramsci, non era stato il miglior modo per intraprendere la sua carriera di ingegnere. Così, quella “prima prova” fu tutt’altro che positiva. Lasciata la Società Elettrica, e soprattutto quella insopportabile isola e i suoi semibarbari abitanti, tali li reputava, era tornato a Milano dove lo troviamo nuovamente dipendente di una società elettrica.

Con l’amico Ugo Betti rivendicava però il diritto di proclamarsi un “ingegnere fantasia” al quale la sorte avrebbe dovuto riservare qualcosa che non fosse, come quel lavoro a Milano, “totalmente diverso e lontano dalla mia naturale curiosità”».

Nota finale

Nel volume al quale fa riferimento Zunino (Carlo Emilio Gadda, “L’ingegner fantasia: lettere a Ugo Betti, 1919-1930”, a cura di Giulio Ungarelli, Milano, Rizzoli, 1984, pp.143, [4] carte di tav.; ill.), è riprodotta la lettera che Gadda inviò all’amico Betti da Porto Vesme il 14 settembre 1920. In essa Gadda ripete le informazioni  sul suo lavoro e sulla sua vita quotidiana che già aveva dato alla sorella; la Sardegna è definita  «fiera e amena isoletta nei pressi di Tumbuctu»; «intorno alla centrale c’è la terra grigiastra, arsa dal sole, con radi ginepri e mentastri, sassi, vigne, fichi d’india. La gente soffre di malaria e il clima è porco».

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3 commenti

  1. Molto simpatico nei confronti dei sardi.

  2. Gavina cherchi

    Ho la sensazione che stare in Sardegna non gli piacesse….. bon débarras

  3. Grazie Paolo, davvero interessante. Il contenuto del tuo articolo mi dà modo di “conoscere” un autore a me, fino ad oggi, del tutto sconosciuto.

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