TERTENIA, FRAZIONE DI MANHATTAN: NEL SUD DELL’OGLIASTRA ALLA SCOPERTA DEL MUSEO CIVICO DEDICATO AD ALBINO MANCA, L’AMERICAN SCULPTOR

la scultura a New York di Albino Manca

A Tertenìa, sui balconi malconci, ricolmi di gente accalcata – con le finestre spalancate e le balaustre ricce rivestite a festa di coperte colorate in ricami, tra i glicini e le viti rampicanti – l’eco cadenzata dell’Ave Maria risaliva lenta, acuendosi di buia paura quando, la statua barcollante del Cristo Risorto, con la mano alzata in arpione, mancava il luttuoso velo nero della Addolorata. I tentativi si ripetevano a più riprese, tra i sospiri preoccupati e atterriti delle donne in corteo – il rischio malaugurante dello sfracello delle antiche sculture sempre in agguato – fin quando la processione degli uomini aveva la meglio: il velo della Vergine, portata a spalle dalle donne, restava impigliato in trofeo tra le mani del simulacro del figlio ritrovato, il costato rosso e lacero, liberando finalmente il volto dell’Immacolata non più a lutto. E così, accompagnato dall’agitarsi nervoso dei turiboli caliginosi e argentei, il canto delle donne, che avevano accompagnato la Madre a “S’incontru” col Salvatore, cresceva in acuti.

Ora le donne si scioglievano, tra applausi e scambi d’auguri, mentre l’officiante – lo sguardo sdegnoso e severo su un corpicino minuto, smarrito nei paramenti ornatissimi – tra i fumi d’incenso che disegnavano ghirigori in ascesa, proseguiva la preghiera, al suono alto delle campane, quasi intimando ai presenti la litania liberatoria e oscura che, scandita rigorosamente in sardo, proseguiva oramai nei toni di festa. Fra i sorrisi compassati i «bona Pasca Manna» correvano dunque di bocca in bocca, mentre le mani veloci si cingevano in compunti e rigidi abbracci, mai troppo affettuosi, e pur convintamente magnanimi.

“Pasqua Grande” – così la festeggiano gli ogliastrini, contrapponendola al Natale, che è invece “Paschixedda”, ovvero la Pasqua minore – aveva finalmente il suo alto riscatto, e con lei l’intera Tertenìa poteva risalire garrula la salita che dalla principale via Roma l’avrebbe ricondotta, tra mura scrostate e tetti di coppi muschiati e malfermi, alla chiesa dell’Assunta. Qui, dal grande portone in bronzo fino all’abside, con il maestoso e tizianesco dipinto dedicato all’Assunzione della Vergine, tutto racconta di don Egidio Manca (1906-1957), il curato che negli anni 50 eresse la chiesa “nuova”, rigorosamente a croce latina, con il solenne campanile al fianco in blocchi di granito e mattoni rossi, decorandone gli interni e donando alle “sue anime” uno dei migliori esempi di romanico moderno nell’isola.

La storia dei Manca, famiglia d’artisti, ha segnato a più riprese l’architettura del paese ai piedi del monte Giulea, 100 chilometri a nord del capoluogo, lungo l’Orientale Sarda. Così, tra le foto e i monili aviti, immagini e profumi di quello che per me è il paese delle vacanze, tornano svelti e indelebili. Souvenir nostalgici di estati ingenue e svagate, tra le ampie terrazze della “casa al mare”, placidamente allungate fin sulle dune, ormai scomparse, della spiaggia bianchissima di Foxi Manna; è lei “la bella di Sarrala”, con il Nuraghe Aleri che la domina granitico tra gli ulivi assetati e i lentischi.

Proprio il nuraghe, all’ombra delle guglie rosate del Monte Cartucceddu – l’unica montagna dell’isola a gettarsi maestosa e frastagliata sul mare – segna la placida e cristallina baia dove era l’antica città romana di Saralapis, così individuata dal generale Alberto Ferrero di La Marmora, e che, per una strada tormentata – che gli odiosissimi incendi hanno devastato più volte – risale fino al paese, arroccato e inospitale, degli orgogliosi e inurbani terteniesi, che voglio raccontare con un altro ricordo.

Albino Manca

Quando ancora bambino transitavo lungo la via Sonnino, a Cagliari, mio padre mi invitava perentorio a guardar verso il cielo. Un terrore curioso spingeva allora il mio sguardo: alte e solenni, sul bianco Palazzo della Legione dei carabinieri, le sculture di quattro bronzi virili, L’Età Fascista, La Giustizia, La Nuova Giovinezza e Il Dovere, incutevano in me un panico soffocato e mesto: il sovvenire impaurito delle statue barcollanti in processione alla Domenica di Pasqua aveva allora la meglio: «Verranno giù dal cornicione?», domandavo sgomento! Il babbo, sempre altero e imperturbabile, col tono severo di note al ribasso, scandiva rassicurante: «Sono i bronzi del terteniese Albino Manca (1897-1976), che nonostante i numerosi ritratti compiacenti del dittatore Benito Mussolini, ebbe grande fortuna negli Stati Uniti d’America». E così, d’un baleno, ritorno ancora una volta a Tertenìa, che dello scultore celebrato Oltreoceano, in una piazza angusta e disadorna – su un cippo inspiegabilmente troppo basso – conserva una copia dell’Aquila, The Diving Eagle di Manhattan; quella, per intenderci, sul fronte mare di Battery Park, che il Manca realizzò nel 1963, in ricordo dei caduti in mare della Seconda guerra mondiale; le ali dispiegate per 13 metri e alta otto, a inaugurarne la posa fu, niente meno che l’allora presidente John Fitzgerald Kennedy, come testimoniano sbiadite foto d’occasione. Quella terteniese, d’apertura alare e proporzioni assai ridotte, insieme ad altri lasciti, è arrivata in Ogliastra per volere dell’artista, che è sepolto nel piccolo cimitero, fitto di secolari cipressi, ai margini del paese.

Dopo anni d’oblio, il comune ha dedicato al suo concittadino – che insieme al più noto Costantino Nivola, oranese, ha illustrato la propria terra natale Oltreatlantico – un piccolo museo gioiello: il Museo civico Albino Manca. È ospitato in una ex-caserma, quasi torreggiante tra le case anguste del borgo più antico. Arrivarci, tra vicoli e salite, non è certo facile, e la diffidenza sgarbata dei locali – oltre agli orari di apertura, talvolta ballerini – non offre il meritato aiuto ad avventori e turisti. Ma la visita è una sicura sorpresa. Uno di quei coup de cœur che, come a Ulassai l’incantevole Museo Stazione dell’Arte – dedicato a Maria Lai – l’Ogliastra riserva imprevisto e generoso. Nella piccola galleria, dismesse le sacrali e limpide plasticità dei bronzi monumentali, evidentemente segnati dalla propaganda fascista, le sculture minute, dai tratti così borghesemente animalier, qui si fanno ornamenti d’argento, che brillano tra le foglioline acuminate di agrifoglio, di leccio e di quercia. I bronzi, di gazzelle e di pantere, ora segnano un bestiario di stilemi e zampate di chimere d’Arezzo, ora vagheggiano care reminiscenze di bronzetti nuragici e boscaglie assolate. Fra bronzee fanciulle languidamente dormienti e chiare crete in mezzobusto, oltre ai marmi magniloquenti con l’inconfondibile profilo del Duce, La Gazzella e fico d’india (bronzo, 1936) è il culmine di questa esposizione.

Segnata d’alterne fortune – che gli porteranno anche le commissioni dei ritratti del presidente Franklin Delano Roosevelt – la nostalgia per la terra natìa del Manca, “American sculptor”, tra le forme moderniste addolcite in curvilinei, riemerge plasticamente nelle rughe di vecchi o sui volti scolpiti di giovani donne, con i capelli scriminati al mezzo e il tipico chignon ribassato di spilli, che ancora le anziane del luogo esibiscono d’un eleganza ritrosa e sobria. Le medaglie commemorative e le monete, dagli ieratici profili pisanelleschi, si affiancano ora alle terrecotte, ora ai disegni e ai numerosi bozzetti preparatori su carta ingiallita. Uno squarcio di nuovo mondo, che a Tertenìa si riveste d’antico e fantastico: è il museo che nessuno s’aspetta, che frettolosi rituali estivi trascurano per l’altrove smeraldino di spiagge e di scogli. Perché è e sarà così: l’orgogliosa e parca Sardegna più autentica, che pure svanisce di anno in anno, si nasconde sdegnosa dei frastuoni sfrenati di un turismo roboante e avvilente, e financo dei colori del mare più celebrato; ma è lei, l’arida e dura terra che amo.

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