“RONDINI”, IL LIBRO DI ANNA MARIA SECHI, SETTANT’ANNI LONTANA DA CASA: L’EMIGRAZIONE SARDA NELLE MINIERE DEL BELGIO

Anna Maria Sechi

di FRANCESCA BIANCHI

Eppure in certi momenti di smarrimento, nel mio intimo, ritorno alle mie origini di donna sarda e alla mia rustica terra, che è stata per me fonte inesauribile di energia e stabilità. Mi ha insegnato, attraverso la sua cultura, i valori di un popolo all’apparenza semplice, ma dotato di un’incredibile capacità di adattamento e di un’insospettabile forza di carattere, acquisite attraverso i secoli, nel silenzio dei suoi graniti. (Anna Maria Sechi, Rondini)

Anna Maria Sechi, oggi 82enne, emigrata in Belgio all’età di 12 anni. Alcuni anni fa Anna Maria ha dato alle stampe il libro Rondini, una testimonianza molto dura relativa all’immigrazione sarda in Belgio nel secondo dopoguerra. In quegli anni povertà e miseria regnavano sovrane in Sardegna. Così, nel 1952, il padre di Anna Maria lasciò l’amata isola per cercare altrove un futuro dignitoso. Si unì ai tanti lavoratori italiani che partirono per il Belgio per lavorare nelle miniere di carbone. L’anno successivo Anna Maria, insieme a sua madre e ai suoi fratelli, raggiunse il padre, ma non trovò la terra promessa tanto sognata. La famiglia Sechi, come tante altre famiglie di emigrati, dovette affrontare non solo i pericoli della vita in miniera, ma anche la povertà e il razzismo: gli italiani erano visti davvero male dai belgi.

Alcuni anni dopo Anna Maria intraprese una strenua lotta per curare sua figlia Lucia, a cui venne diagnosticata la talassemia, una malattia che all’epoca era sconosciuta in Belgio. Ha fondato anche un’associazione grazie alla quale è stato possibile ottenere il riconoscimento della malattia. Lucia è venuta a mancare alcuni anni dopo. Anna Maria Sechi ha invitato i lettori a riflettere sul disprezzo e sul razzismo che hanno accolto i nostri connazionali al loro arrivo in Belgio, ricordando che oggi questa terra è diventata per tanti di noi una seconda patria, ma non è stato un regalo, è stata una dura conquista che i nostri padri hanno pagato con la loro salute e la loro vita.

Anna Maria, il libro Rondini, oltre ad essere una preziosa testimonianza di vita, è stato definito un documento sull’immigrazione italiana in Belgio. Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro? Mia madre, avvilita per tutto quello che abbiamo vissuto una volta arrivati in Belgio, mi esortava spesso a mettere per iscritto la nostra esperienza. Diceva sempre che sarebbe stato difficile credere all’orrore che abbiamo vissuto. Ricordo che in tutti i paesini della Sardegna arrivavano volantini che incoraggiavano l’immigrazione, lasciando intendere che il Belgio sarebbe stata la nostra terra promessa. Ci promettevano scuole, assegni familiari, case dignitose: il Belgio veniva presentato come il paese delle meraviglie, invece, una volta arrivati lì, non abbiamo trovato quello che sognavamo. Nei volantini non si parlava mai della silicosi, dei pericoli del lavoro in miniera; non si parlava del razzismo, brutto e crudo. Molti minatori alloggiavano nelle cantine, in quanto i belgi si rifiutavano di affittare le case alle famiglie italiane. Tanti di noi hanno vagato da un ghetto all’altro; i primi tempi sono stati durissimi per tutti.

Perché ha intitolato il suo libro Rondini? La rondine è l’uccello migratore più celebre. La prima edizione del libro, pubblicata nel 2017, è in francese; si intitola Les oiseaux sans plumes (‘gli uccelli spennati’). Metaforicamente eravamo degli uccelli spennati: non potevamo volare, a noi non era concesso nulla. A volte ho avuto l’impressione di aver vissuto la guerra del carbone.

Che ricordo ha del suo arrivo in Belgio insieme a sua madre e ai suoi fratelli? Siamo arrivati in una giornata grigia di marzo, eravamo tanto stanchi: il viaggio era stato lungo. Quando siamo arrivati nel nostro alloggio, la tristezza fu tanta: quella era tutto, fuorché una casa. Io non so se quella muratura fosse in mattone o in legno: era finissima. C’erano due stanzette, nella cucina c’era un tavolino piccolo con quattro sedie; non potevamo metterne una in più perché non c’era spazio. Nella camera c’erano due letti: uno per babbo e mamma e uno per noi tre fratelli; io condividevo il letto con i miei fratelli. Nessuno di noi aveva l’acqua in casa: dovevamo andare a prenderla nel cortile del gestore di queste abitazioni. C’era una pompa per tirare l’acqua piovana destinata alla nostra quotidianità. Per poter essere usata, quest’acqua doveva essere filtrata e bollita. Mio padre trovò un’altra sistemazione: una vetreria disastrata dai bombardamenti della guerra, che non era neppure abitabile, ma il comune non badava a questo. Una casa dignitosa è arrivata nel 1955, quando abbiamo lasciato la vetreria.

Come e quando iniziò l’immigrazione sarda in Belgio? Dopo la guerra, in Sardegna c’era tanta miseria. L’Italia ha accolto con favore la possibilità di un accordo con le società carbonifere del Belgio. In questa maniera si liberava di molti disoccupati e poteva usufruire di una certa resa di carbone al giorno per ogni cittadino che emigrava in Belgio per lavorare nelle miniere. In Italia c’era miseria ovunque, ma nelle isole la situazione era più grave, infatti dalla Sardegna partirono 36.000 persone, dalla Sicilia addirittura più di centomila. Dovevamo far funzionare le industrie italiane; l’Italia ha guadagnato con le nostre partenze, ma non ci ha mai tutelato.

Com’era la vita dei minatori? Lei prima ha parlato di silicosi. Di cosa si tratta? Sia mio padre che mio marito lavoravano nelle miniere di carbone belghe. La vita del minatore è stata squallida e molto difficile. I minatori erano a rischio di silicosi, che penetrava nei polmoni. All’epoca si parlava poco di questa malattia. Quando una certa percentuale era riconosciuta, veniva concesso un risarcimento in denaro, una sorta di pensione, direttamente dalla cassa delle malattie professionali. Una legge iniqua prevedeva che, una volta raggiunti i 65 anni, la percentuale di quella pensione veniva ridotta, visto che l’operaio non apparteneva più al mercato del lavoro.

Poi, nel 1956, avvenne un fatto tragico che bloccò l’immigrazione italiana in Belgio… Sì, la tragedia di Marcinelle dell’8 agosto 1956. Sino al 1956, ogni due settimane arrivavano dall’Italia treni pieni di giovani uomini, anche sotto i vent’anni, tutti con il contratto di lavoro che li legava alle miniere per cinque anni. L’immigrazione italiana cessò con la tragedia della miniera di carbone “Bois du Cazier” di Marcinelle, perché mise dolorosamente in evidenza la mancata sicurezza che c’era nelle miniere. Dei 262 minatori che persero la vita in quella tragedia, 136 erano italiani; persero la vita anche due bambini di 14 anni.

Nel libro parla moltissimo di sua figlia Lucia, scomparsa a 21 anni a causa della talassemia. Nonostante il suo grande dolore di madre, non si è mai persa d’animo, ha combattuto fino all’ultimo; ha fondato anche un’associazione in onore di sua figlia. Come è avvenuta la scoperta della malattia? Quali risultati ha raggiunto l’associazione? Quando ho scoperto la talassemia di Lucia, mi è crollato il mondo addosso. Nel Belgio degli anni Sessanta della talassemia si sapeva poco e niente. Del resto, prima dell’immigrazione italiana, la talassemia in Belgio non esisteva. Ricordo che i medici ci ricordavano che la malattia era legata alle nostre origini sarde. Quanto ho odiato quelle parole! Quando un medico ti dice che si tratta di una malattia inguaribile, non hai più nemmeno la minima speranza. Nonostante tutto, non mi sono persa d’animo, mi sono data da fare e ho combattuto con tutte le forze per la mia Lucia. Con l’infermiera dell’ospedale parlavo delle associazioni che esistevano in Italia. Nel 1981 abbiamo fondato l’associazione. Questo ci ha permesso di ottenere i rimborsi mutualistici e il riconoscimento della malattia. Oggi in Belgio la talassemia è curata come nei migliori centri italiani con cui abbiamo aperto i contatti. Il nostro comitato scientifico ha potuto approfondire le conoscenze sulla patologia. Abbiamo diffuso l’informazione preventiva facendo delle riunioni nelle varie associazioni e circoli dell’immigrazione italiana. Di questa malattia si è parlato nelle scuole. Abbiamo potuto realizzare due colloqui internazionali di grande spessore scientifico: il primo si è svolto nel 1986, il secondo nel 2006.

Cosa le manca di più della Sardegna? Tornerebbe a viverci? Della Sardegna mi manca il sole, ma non tornerei a viverci per sempre: è un’isola abbandonata, isolata, manca tutto; la ritrovo come quando l’ho lasciata, nel 1953.

Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori di Rondini? Voglio che si sappia che noi italiani emigrati in Belgio non siamo stati accolti bene. Tanti hanno scritto dell’immigrazione italiana, ma non hanno raccontato dettagli crudi, non hanno descritto quello che abbiamo vissuto. Io ho raccontato tutto quello che abbiamo patito, tutto ciò che è stato e che non si può cancellare. Descrivo la realtà, la nostra storia. Oggi questa terra è diventata per tanti di noi una seconda patria, ma non è stato un regalo, è stata una dura conquista che i nostri padri hanno pagato con la loro salute e la loro vita.

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4 commenti

  1. Anna Maria Sechi

    Caro Max ti ringrazio d’aver ripreso la mia storia di vita, sei davvero un uomo generoso, compressivo e molto dinamico , hai un grand cuore.
    Come lo ha Francesca. Peccato che nessun editore ha voluto pubblicare il mio libro, avrebbe avuto certamente una più ampia diffusione. Ma io son comunque felice così, e felice di aver trovato te. Grazie ancora, ti abbraccio con stima e affetto.

  2. Hai fatto un gran bel lavoro Anna Maria.complimenti per il coraggio di raccontare le difficoltà e i patimenti.Brava Francesca a cui hai aperto il ❤

  3. Angela Solinas

    omplimenti
    Anna-Maria Sechi

  4. Anna Maria, Sei già in Sardegna?

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