LETTERA AD AMICI, CONOSCENTE, COLLEGHI DI LAVORO ELVETICI: VIVERE LA SARDEGNA DALLA SVIZZERA (LUCERNA 2004)

di MARCO PIRAS KELLER

Da oggi sono un cittadino svizzero. Che senso abbia per me annunciarvelo, dirvi della mia emozione, cercherò di spiegarlo brevemente. Ma non potrà essere troppo in breve, perché dovrò dire tante cose che per un italiano possono risultare scontate, tanto più per un sardo, ma forse non lo sono per voi amici e colleghi Svizzeri.

Oggi sono contento ed emozionato di essere diventato svizzero, come svizzere sono mia moglie e mia figlia. È per me una sensazione strana e curiosa pensare che il mio cognome – forse il più sardo dei cognomi sardi – figuri nel registro dei cognomi svizzeri e si sia dovuto fare un atto ufficiale per tale inserimento.

Il mio passaporto, la mia carta di identità sono italiani, ma prima di essere e sentirmi italiano – quale pure sono – sono e mi sento sardo. Non so come uno Svizzero senta il suo essere svizzero in rapporto a un ginevrino, non so come lo senta uno zurighese, un vallesano, un grigionese, un ticinese; che tipo di appartenenza o non appartenenza possiate sentire e quale grado di affinità tra di voi. E quanto si potrebbe dire sul sentirsi italiani di un milanese, di un siciliano, di un romano, di un fiorentino… cosa li accomuna?

Lasciamo perdere, al momento, la storia lontana di secoli, che, pure, rimane – deve rimanere – come memoria, come insegnamento, come orientamento, come ammonimento. Chi, meglio di voi Svizzeri, santifica e tesaurizza la propria storia passata? I propri eroi?

Limitandomi a quanto io ho vissuto e conosciuto, la mia esperienza di sempre è stata quella di uno Stato – parlo di quello italiano – che ha sempre sottostimato, quando non disprezzato – nel migliore dei casi ha folclorizzato – i valori della mia cultura d’appartenenza, a cominciare dalla lingua; uno Stato che ha usato il territorio della Sardegna come merce di scambio con altri stati, concedendo immensi territori e spazi di mare per le più grandi basi militari d’Europa, dove si esercitano i bombardieri di mezzo mondo, dove vengono sperimentati i missili nel più grande poligono di lancio europeo, dove esiste una delle basi aeree militari tra le più grandi d’Europa, se non la più grande. Dove approdano anche gli aerei da combattimento della tua – ora ‘nostra’ – neutrale Svizzera per esercitarsi alla guerra.

Territori tolti alle popolazioni locali, espropriati; i proprietari – perlopiù poveri contadini – spesso trascinati a forza via dalle loro case, qualcuno morto di crepacuore. Lunghi tratti di coste tra le più belle e pescose usate per sganciare bombe, per esercitazioni al bersaglio per gli aerei.

Il rumore che uomini e animali devono sopportare quando gli aerei da guerra sorvolano i centri abitati non sarebbe tollerabile neppure un solo giorno dagli abitanti dell’area della tua Zurigo, che si mobilitano giustamente contro i rumori degli aerei in avvicinamento a Kloten. Potrebbe un cittadino svizzero concepire e accettare un tale uso del suo territorio da parte di eserciti stranieri?

Proprio in questo inizio d’autunno, decine di pescherecci della costa del mio Sulcis di cui forse vi ho parlato, la costa sudoccidentale della Sardegna, stanno provando a impedire con la loro presenza nelle acque Off limits, le esercitazioni a diecimila soldati americani, italiani, tedeschi, olandesi e chissà quali altri, a cinquanta navi da guerra, ad alcuni sommergibili, a decine di bombardieri. Non c’è bisogno di pensare che quei pescatori intraprendano questa azione di disturbo per ideologia antimilitarista o anticolonialista, quanto, semplicemente, per mantenere la speranza di avere un reddito dal loro lavoro e quindi di non dovere anche loro fuggire dalla propria terra.

Anche la polizia italiana ha sempre avuto in Sardegna – e ha – i più importanti centri di addestramento e i “banditi sardi“ sono stati sempre una buona opportunità per l’addestramento; per esempio circondando interi villaggi dell’interno, svegliando la popolazione durante la notte e perquisendo tutte le case. Uomini, donne, bambini, spettatori impotenti e comparse di un grande crudele gioco di guerra. Cose ormai certo un po’ lontane. Ma non è molto lontano il tempo (neanche 20 anni fa) in cui è capitato che i carabinieri abbiano esibito sulle loro jeep i corpi dei banditi uccisi, facendo il giro del paese degli uccisi, come cacciatori che esibiscono la preda di cinghiali abbattuti; riproposizione dal vivo di immagini conservate da stinte fotografie della fine dell’Ottocento, che ritraggono gruppi di Carabinieri con pose da eroi con la loro preda di caccia grossa: banditi, uomini morti al suolo, ai piedi dei militari. E poco più di trent’anni fa, in uno dei più autorevoli giornali italiani compariva la proposta di usare il Napalm per stanare i banditi. Cose orribili che neppure un codice di guerra ammette. Cose che voi non vi sognereste mai di pensare possibili, di questi tempi, nella vicina Italia. Cose che neppure la gran parte degli italiani conosce nella loro reale dimensione e portata.

Oggi le cose non sono così brutali, certo, ma è ancora presto per cancellarle. E che senso avrebbe cancellarle? Non si tratta di incentivare odi e risentimenti contro lo Stato italiano – tra i politici che hanno portato a certe decisioni molti erano sardi e sardi erano e sono anche i militari, carabinieri e poliziotti – ma semplicemente di conservare testimonianze come importanti riferimenti per il futuro.

Oggi, addirittura, la lingua sarda è entrata nella scuola e ha una parvenza di ufficialità – peccato che ora molti sardi ne stiano facendo un uso folclorico essi stessi e che si dimentichi che il valore di una lingua non sta nel farne un uso ‘ufficiale’ ma nell’usarla – ma io e molti miei compagni di classe abbiamo fatto ancora in tempo, a scuola, a ricevere le bacchettate sulle mani, quando utilizzavamo il sardo; ha fatto in tempo a fare tale esperienza anche chi è più giovane di me. Molti dei miei compagni, però, non hanno mai ricevuto bacchettate perché ormai erano completamente italianizzati. Un problema sociale in più, tale separazione.

Può essere concepibile per voi, svizzeri, che la Confederazione, da oggi a domani, imponga il Tedesco e che proibisca l’uso della parlata materna, che invii circolari alle famiglie invitandole a non utilizzare lo schwitzertütsch, la vostra lingua materna, per esempio, con la motivazione che tale uso comprometterebbe l’apprendimento della lingua ufficiale scritta (l’hochdeutsch, il tedesco letterario) e delle altre lingue? Può concepirlo un cittadino svizzero? Che, magari, si imponga il tedesco anche ai ticinesi e agli svizzeri romandi? Peraltro, sono pochissimi gli italiani che sanno che qui nella svizzera alemanna non si parla tedesco e che gli svizzeri alemanni non amano parlare in tedesco se non necessario. Così come voi non sapete tante cose dell’Italia.

Come quando qualcuno di voi non mi ha creduto (forse ancora) quando ho detto che per tanto tempo l’Italia è stata lo stato a più bassa natalità del mondo. Avete pensando stessi burlandomi di voi. Quante cose si ignorano di chi vive nella porta accanto!

Noi sardi questa imposizione linguistica – concepibile o meno che fosse – l’abbiamo dovuta subire come ‘normalità’ con tanto di argomentazioni e motivazioni ‘pedagogiche’, ‘sociologiche’, ‘scientifiche’ elaborate ad hoc da linguisti, pedagoghi, politici prezzolati o, come minimo, biechi ed ignoranti. Con molta normalità i maestri, professori, le circolari ministeriali, dicevano che parlare in sardo avrebbe pregiudicato l’apprendimento dell’italiano. Una sorta di condanna al monolinguismo italofono.

Con mia figlia ho sempre parlato solo in sardo, dal giorno in cui è nata, e dal giorno della sua nascita mia moglie le ha parlato solo in schwitzertütsch, anche quando vivevamo in Italia. Nessuno oggi potrebbe dire che lo schwitzertütsch di mia figlia non sia perfetto o che non lo sia il suo italiano, per come può praticarlo in Svizzera; e il suo tedesco letterario è perfetto nella media svizzera. E, ormai, orecchia discretamente francese e inglese. Non mi sembra, quindi, che il sardo o lo schwitzertütsch – lingue non ufficiali – abbiano compromesso le sue capacità di apprendimento di quale che sia altra lingua.

Ma, se un genitore ad alto grado di scolarizzazione oggi parla in sardo con un figlio, come minimo, si suppone da parte sua una impegnativa presa di posizione ideologica, magari sofferta ecc. Per me è stato l’istinto a decidere, perché in casa mia non si è mai usata una parola di italiano, se non “tra virgolette”. Non voglio certo colpevolizzare coloro che ai figli parlano in italiano: troppo complessa e ingarbugliata la situazione sociolinguistica per esprimere giudizi ‘a metri’, come si dice. Non finirò mai, comunque, di essere grato ai miei genitori per avere resistito alla pressione che scuola e società ufficiale imponevano di parlare in italiano ai propri figli. E loro sapevano parlare anche bene in italiano.

Per un genitore – dico uno che sia uno – della Svizzera dei cantoni interni, cosiddetti ‘tedeschi’, non sarebbe possibile parlare con il proprio figlio in altra lingua che in schwitzertütsch, la lingua materna. Usare il tedesco nella comunicazione tra Svizzeri – che pure è la lingua ufficiale scritta – è semplicemente inconcepibile. Riuscite a immaginarvi parlare con i vostri figli in tedesco o con vostra moglie svizzera anche lei?

In questo tentativo di annientamento dell’identità di un popolo non c`è spazio per troppo sottili distinzioni ideologiche. Molto spesso, ancora oggi, quando si parla di autodeterminazione di popoli, quando entra in gioco lo scontro di culture – e di economie – quando stato e nazione non coincidono entro un territorio, quando questo territorio è governato da uno stato centralista miope, sembra che le linee tradizionali che tracciano confini ideologici si deformino, assumano altri percorsi, vengano a sovrapporsi, a divergere: cadono numerosi schemi o entrano in crisi. Banalizzando: cadono le linee di demarcazione tradizionali tra destra e sinistra.

Molti hanno collaborato a tale disegno di cancellazione dell’identità culturale e di popolo dei sardi: l’ideologia di destra, di centro e di sinistra, spalleggiate dai servitori locali, quegli intellettuali – così da noi vengono dipinti – uguali a cani che stanno sotto il tavolo, aspettando che al padrone cada qualche briciola dalla tavola imbandita. Ma, in generale, gran parte della popolazione, assuefatta alla condizione di suddito, è rimasta passiva. Non tutti, per fortuna, non tutti quelli di destra, non tutti quelli di centro, non tutti quelli di sinistra, non tutti quelli non schierati da nessuna parte, si sono prestati a questo ruolo di sudditi o di mediatori o di ruffiani.

L’ultima grande offensiva fatta – forse, in termini di sconvolgimento reale, la più riuscita – è stata quella della falsa industrializzazione della Sardegna, con l’insediamento di stabilimenti industriali di un certo tipo, estremamente inquinanti e senza speranza di innescare uno sviluppo economico. In vari territori non è più possibile la coltivazione in quanto i terreni sono pesantemente avvelenati e i raccolti sono proibiti; zone col più alto tasso mondiale di leucemie infantili, mortali, sono un regalo dei processi di lavorazione di tali industrie. Questo massiccio intervento che non ha nessun senso economico, ha avuto un senso prettamente politico: per lo Stato è stato quello di dare un colpo, che voleva essere mortale, alla cultura ed economia agropastorale, individuata come refrattaria a una certa concezione di Stato; ma anche per certa ideologia che si opponeva al potere dominante, il senso era pressoché lo stesso: „il pastore e il contadino non sono classe operaia, sono poco permeabili alle idee del ‚progresso’, sono difficilmente organizzabili, troppo attaccati al loro gregge, al loro piccolo pezzo di terra; ben vengano le industrie, quali che siano, purché producano degli operai”. Addirittura gruppi indipendentisti di sinistra, in buona parte figli di pastori e contadini, arrivarono ad adottare come slogan “Ottana o lotta partigiana”. Ottana è la petrolchimica nel centro della Sardegna.

Insediare un certo tipo di fabbriche, non importa se le petrolchimiche (nel centro pastorale della Sardegna, assai distante dai punti di attracco delle navi che trasportano il greggio, quindi in contrasto con qualunque criterio economico) o la lavorazione dei fanghi rossi della Bauxite importata dall’Australia per estrarne l’alluminio che poi per le lavorazioni più fini e pulite (e a maggior valore aggiunto) viene trasportato in Italia, o altre industrie i cui processi di lavoro determinano malattie invalidanti e mortali e, comunque, economicamente avulse dal territorio, è stato un atto volutamente dirompente nei confronti di una società che ancora resisteva – fosse anche per inerzia – all’italianizzazione forzata.

Si dirà che è il tributo che bisogna pagare al benessere. Quale benessere?

Si calcola che se i soldi pubblici serviti per il finanziamento di tali industrie fossero stati distribuiti ai dipendenti, questi avrebbero potuto vivere senza lavorare, con le loro famiglie, da ricchi; l’ambiente non avrebbe sofferto e i soldi messi in circolo avrebbero creato un qualche benessere. Si tratta di centinaia di milioni di lire di allora per ciascun posto di lavoro; posti di lavoro rivelatisi in buona parte improduttivi: gran parte di queste industrie oggi sono chiuse. Soldi buttati al mare con tutte le scorie velenose e le conseguenze sociali che hanno prodotto. Ma è cosa molto recente il rifinanziamento di alcune di queste attività.

Oggi tutti questi attacchi, questi interventi, si sono attenuati, hanno perso in brutalità, si è detto. Ormai la scuola, la televisione, generazioni colpevolizzate per la propria lingua e cultura, una malintesa ideologia progressista, hanno lavorato in profondità. Hanno ormai scavato un solco che è un baratro, difficilmente colmabile, tra passato e presente, tra sardi.

Oggi i ragazzi sardi, nei loro programmi scolastici, finalmente, accanto alle piramidi egiziane, alle torri a ziqqurat assiro babilonesi e ai templi greci, possono sentir parlare anche dei monumenti megalitici vecchi di migliaia di anni che hanno intorno a casa: di nuraghi, di dolmen e menhir, di complessi di grotte funerarie, di pozzi sacri, monumenti presenti a migliaia nel territorio sardo e prima mai citati nei testi scolastici degli studenti sardi, né di quelli italiani.

Stando così le cose, posso ragionevolmente – meglio sarebbe dire, emozionalmente – sentirmi rappresentato dallo stato italiano? Fino a che punto posso sentire la mia appartenenza a uno stato simile?

Non sento neanche l’orgoglio dell’eredità di Roma che, programmaticamente, si accanì nelle lunghe guerre contro i sardi, e che considerò la Sardegna – so bene che ciò è nella ‘natura delle cose’ della Storia – solo come riserva di grano, di materie prime e di schiavi, come tante altre sue provincie, secondo una logica, in fondo, ‘naturale’, non molto diversa dalla politica delle grandi potenze di oggi. Terra dove confinare gli avversari politici condannandoli ad metalla, cioè alla morte sicura nelle miniere. Non è curioso che anche il regime fascista, nelle miniere di carbone in Sardegna confinasse oppositori e omosessuali? O che ancora, o fino a poco tempo fa, la Sardegna fosse il luogo dove si inviavano anche i funzionari pubblici non desiderati, perché inefficienti, perché lavativi, perché disonesti, ma talvolta anche perché onesti o troppo efficienti?

Posso, certo, apprezzare il prodotto culturale degli intellettuali che scrissero nella lingua di Roma, peraltro, in gran parte, anch’essi appartenenti a popoli sottomessi da Roma (Stazio, Terenzio, Sallustio, Cornelio Nepote, Livio, Virgilio, Ovidio, Livio Andronico, Catullo, Seneca, Plinio, Lucano, Quintiliano, Marziale, Tertulliano e chissà quanti altri). Non mi è certo simpatico Cicerone, quasi romano de Roma, feroce nemico dei sardi.

Saltando i Vandali – pare che solo con questi invasori in Sardegna si ebbe una discreta convivenza tra dominatori e dominati – Bizantini, Pisani, Genovesi, Catalani, Spagnoli, Austriaci – questi ultimi padroni per pochi anni della Sardegna che cedettero ai Savoia in cambio della Sicilia, quasi si trattasse di fare cambio di piccoli oggetti di poco conto come fanno i bambini tra di loro – si arriva ai Savoia, re ‘di Sardegna’, quasi svizzeri – pensate cari amici e colleghi – e futuri re d’Italia. E sì perché la Savoia tocca la Svizzera, e la cittadina di Carouge quasi attaccata a Ginevra non era forse il confine della Savoia, quella cittadina piena di nomi di strade e piazze che richiamano la Sardegna? Guarda un po’ che mi trovo ad essere contento di diventare svizzero e dovere ammettere che sono scontento di uno stato fondato da sovrani di origine svizzera!

Comunque, mentre nel Nord dell’Italia i futuri italiani combattevano contro gli Austriaci, in Sardegna i sardi venivano impiccati a decine, quelli che non ne volevano sapere né dei Carabinieri del Re d’Italia né di diventare per forza Italiani e di rinunciare alle proprie leggi consuetudinarie e scritte ormai da secoli. Che fossero delinquenti è tutto da dimostrare come anche per quanto riguarda il brigantaggio in tutto il Sud e Centro dell’Italia.

La storia così presentata – certamente banalizzata, soprattutto ad usum Helvetiorum – non è solo storia della Sardegna ma, senza allontanarci troppo, quella di molti popoli e culture della Penisola italiana.

Per me, cittadino dello Stato italiano, di uno Stato che non ha mai avuto la lungimiranza e capacità di valorizzare la sua ricca, preziosissima, eterogenea e multiforme componente etnica e culturale compresa entro i suoi burocratici confini, di uno Stato che ha condannato la dimensione comunicativa a un monolinguismo imperfetto, per me acquisire la cittadinanza di uno Stato plurilinguistico, multiculturale, multietnico, nel quale questi elementi sono normale vita, esperienza e prassi quotidiana, è come appartenere, finalmente, a una dimensione desiderata e pensata come possibile anche per lo Stato italiano, ma mai raggiunta. Una dimensione in cui riconoscermi. Se si vuole – devo ammettere – c’è un certo sentimento di rivalsa nei confronti dell’Italia da parte mia. Per una parte, siamo fatti anche di stomaco.

I cittadini svizzeri credo, mediamente, non hanno piena coscienza di queste particolarità del loro Paese, di queste e di altre che ne fanno un paese unico, un esempio che sarebbe un peccato se si perdesse. Per uno svizzero – voi potrete confermare o smentire – tali caratteristiche, tali concezioni, sono un dato acquisito dalla nascita, come i monti, i laghi e qualunque altra cosa del paesaggio da cui sono circondati o in cui sono avvolti. Niente, in questo senso, è da conquistare per voi. La speranza è che sappiate conservarle come avete fatto fino ad oggi. Fino ad oggi…

Rinnego quindi la mia italianità? E penso che La Svizzera sia lo stato ideale?

A entrambe le domande rispondo: no di certo!

Come posso non riconoscere che sono italiano? Ho frequentato una scuola italiana, ho imparato bene la lingua italiana, come tanti altri italiani, ho studiato la sua cultura, la sua eccezionale letteratura e la sua grandiosa arte in genere, la sua storia del pensiero, cose a cui hanno contribuito e contribuiscono anche sardi. E, naturalmente, in molto di tutto ciò mi riconosco e molto di ciò ammiro. E forse che posso dimenticare che gran parte tra i miei più cari amici sono italiani?

E grande ammirazione sento per tutti quegli intellettuali, artisti, artigiani dell’Umanesimo e Rinascimento detti ‚italiani’ ma che erano cittadini di Firenze, di Perugia, di Venezia, di Ferrara, di Mantova, Lombardi, (addirittura lombardo-ticinesi come Maderno, Borromini) e altre realtà statali forti anche di uno spirito di indipendenza culturale e di pensiero e che assicuravano, quando potevano, protezione ad artisti e pensatori altrove perseguitati per le loro idee.

E, indietro nel tempo, ammiro anche quell’imperatore di Germania e re di Sicilia Federico II che seppe sconvolgere certi schemi che volevano Cristiani e Mussulmani obbligati a combattersi e che, pur fortemente amante del suo potere che difendeva contro i liberi comuni italiani – come doveva essere nella ‘natura delle cose’ della Storia -, era un gran protettore delle arti e degli artisti, egli stesso non disprezzabile poeta in siciliano.

Certo non mi sento rappresentato nei miei valori di italianità dalla nazionale di calcio o dalla Ferrari e per come vengono usati, o dall’inno nazionale di pessimo gusto e di pessima qualità testuale; e provo anzi fastidio enorme per queste occasioni di identificazione di massa che fanno dimenticare tante cose, utilizzate da giornali e TV come droghe a buon mercato e che mutuano il loro linguaggio da quello della guerra, salvo poi la politica – almeno quella italiana – mutuare ampiamente il proprio linguaggio da quello del calcio. Insomma, che il linguaggio del calcio diventi il metalinguaggio per la scienza della convivenza della società, lo trovo il massimo del degrado politico, sociale e culturale.

Insomma mantengo il mio passaporto italiano ma con il miraggio di un cambiamento di uno Stato che non ha mai avuto il coraggio di ammettere la diversità e ha puntato forzatamente, non ultimo con la violenza, a un comodo e pigro disegno di uniformità, di omogeneità che non esiste e che è umanamente e culturalmente assurdo perseguire.

Ma non dico: “sono orgoglioso di essere italiano”, come non dico neppure: “sono orgoglioso di essere sardo”, perché si tratta di affermazioni assolute che prevedono un’identificazione in toto che cancella l’individuo riducendolo a indistinta parte di una massa, e che cancella le scelte individuali, la possibilità di critica. Posso dire: “Sono italiano, ma prima ancora sono sardo, mi sento sardo”.

Non credo neanche che la Svizzera sia uno stato ideale – temo anche gli sconvolgimenti, lenti o veloci che saranno, che già si prospettano nel progressivo avvicinamento a un’integrazione europea – ma forse sarebbe perlomeno di cattivo gusto, proprio in questo momento in cui divento Svizzero su mia richiesta, elencare quelli che vedo come fatti criticabili della mia seconda Patria (perché non Matria?); non credete cari amici e colleghi?

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