I FATTI TRAGICI DI TORTOLI’ CON LA MORTE DEL GIOVANE MIRKO. IL MARTIRIO ED IL LINCIAGGIO: SARDEGNA, ALABAMA?

di GIANRAIMONDO FARINA

I recenti fatti tragici di Tortolì, che hanno portato al martirio del giovane Mirko, appena ventenne, ucciso per difendere la madre Paola dall’aggressione del suo ex, l’immigrato pakistano ventinovenne, fanno riflettere e rattristano. Fa, ulteriormente, purtroppo riflettere anche il successivo linciaggio a cui  l’assassino, appena arrestato, è stato sottoposto: un linciaggio non degno della civiltà o, meglio, come è stato commentato da alcuni opinionisti, degno di uno Stato come l’Alabama al tempo dello schiavismo (cfr. Vito Biolchini).  A questo punto, proprio per rispondere a quanti, sardi e non, insistono nel rivendicare quest’azione indegna, rispondo ricordando un fatto storico, ben documentato dall’amico Tonino Budruni (Itri, i giorni del massacro :   la camorra contro gli operai sardi  , Delfino, Cagliari, 2011), e dapprima nascosto nell’oblio delle cronache. Un fatto che tutti i sardi, soprattutto in queste circostanze, non dovrebbero mai dimenticare. Itri, Caserta, 12‐ 13 luglio 1911. Siamo nella cosiddetta Terra di lavoro. Una folla numerosa di abitanti locali per ben due giorni consecutivi, inizia una caccia spietata contro quattrocento operai e‐ migrati sardi, per lo più minatori, mandati dal governo per la costruzione della ferrovia Roma‐ Napoli. Al grido di : “Morte ai sardegnoli!”, gli isolani diventano le “prede indifese” di questa “caccia”. Nel primo giorno un gruppo di operai viene insultato e provocato nella piazza dellʹIncoronazione. In una ridda di sorpresa, di urla, anche le autorità locali aprono il fuoco promettendo lʹimmunità ai compaesani, non di meno fanno i carabinieri sparando sui sardi in fuga. Gli operai, scampati alla persecuzione xenofoba, si rifugiano, intanto, nelle campagne circostanti. Lʹindomani, i lavoratori rientrano nel paese per rac‐ cogliere i loro amici caduti. Entrano nellʹa‐ bitato e, nuovamente, divampa il sangue omicida. Gli itrani, convergendo in massa, passano prima in una bottega, nella quale si distribuiscono armi per lʹoccasione. Qui si avverte: “Prendete le armi ed uccidete i sardi”. Il numero esatto delle vittime non si conosce, poiché gli itrani riescono a trafugare numerosi cadaveri e feriti moribon‐ di. Alcuni operai sequestrati subiscono la tortura ed una sessantina sono i feriti, di cui, diversi molto gravi, periranno in seguito. Molti sardi scampati alla strage vengono arrestati con lʹaccusa di essere rissosi. Mentre altri, per la stessa imputazione, sono espulsi da quella “terra del lavoro” e rispediti in Sardegna. Eʹ  il primo fatto crudele di sangue dai contorni dichiaratamente razzisti accaduti nel nostro Paese dallʹUnità ad oggi, poco conosciuto e studiato dallʹopinione pubblica. Le accuse mosse contro gli operai isolani, secondo lʹimprobabile e faziosa difesa di A. De Stefano (cfr. La rivolta dʹItri, legittima difesa di una folla, Milano, Vallardi, 1914) sarebbero state le seguenti: “(…) stanca sopportazione di violazioni e prepotenze, soprusi dʹogni genere, (…) di come i sardi si trovavano nella condizione psicologica dei conquistatori (…) in questo centro sud da poco conquistato dal loro Re    e gli itriani non trovarono alcuna difesa nello Stato Sabaudo (?) mentre ai sardi fu accordata una sorta di tacito salvacondotto tanto da portare allʹesasperazione la società itrana, non nuova ad atti di resistenza”. In realtà, i motivi sono ben diversi e vanno a riscontrarsi in quel complesso intreccio economico‐  politico‐  mafioso che, ancor oggi “attanaglia” e blocca lo sviluppo del Sud Italia. Assumere sardi era allora con‐ veniente, poiché lavoravano sodo, in cambio, a parità di mansione, di un salario inferiore a quello degli operai continentali, loro colleghi. Gli abitanti di Itri, secondo le indagini successive, sono stati fomen‐ tati dai mass media italiani, che descrive‐ vano i sardi come una razza inferiore e “delinquente per natura” e, soprattutto, dalla camorra alla quale gli emigrati isolani avevano opposto, con risoluzione, il loro netto rifiuto di pagare il pizzo. A‐ spetto da addebitarsi sia alla fierezza della cultura “dellʹuomo” (in sardo de sʹomine), sia alla particolare e matura co‐ scienza dei diritti loro spettanti, anche se non ancora conquistati, in quanto lavoratori. La “lezione di Itri” sembra non essere bastata. Eppure, ora come allora, vi é uno Stato che, in qualche modo, dovrebbe dare delle risposte serie con delle politiche dʹintegrazione credibili e degne di un paese civile. Con i sardi la soluzione sarà, di lì a poco, la “valvola di sfogo” della Grande Guerra del 1915‐  18 che, grazie alle im‐ prese eroiche della Brigata Sassari sullʹal‐ topiano di Asiago e sullʹIsonzo, faranno conoscere allʹItalia per la prima volta un popolo ben diverso da quello raccontato tre anni prima dal De Stefano ad Itri: gente fiera, coraggiosa, onesta, profondamente legata alla storia unitaria italiana e temuta (gli austriaci chiameranno i sardi “i diavoli rossi” proprio per la foga con cui gli isolani combattevano). Eʹ  da allora, infatti, che, la Sardegna inizia, gradualmente, ad integrarsi a pieno titolo nella storia dʹItalia. Un percorso, questo, molto arduo e difficile se é vero che, dal 1984 al 1995, lo Stato italiano procederà ad una vergognosa schedatura poliziesca contro i sardi, e solo contro di essi, emigrati nella penisola, uomini, donne, vecchi e bambini. Sono questi gli anni dei sequestri di persona e lʹiniziativa partirà dalla regione Lazio, ad alta densità dʹemigrazione sarda, per poi estendersi alla Toscana ed alle altre regioni.

Da Itri a Tortolì, il passo è breve ed i parallelismi piuttosto significativi. Tuttavia, mi piace chiudere questo pezzo, con un messaggio non solo di denuncia, ma di speranza. Nel 1911 sono stati i minatori sardi a ribellarsi al pizzo imposto dalla camorra per la loro cultura de sʹomine. Oggi, nonostante i beceri commenti social che si leggono, vi è la poesia sarda, fonte di una cultura millenaria a ridare luce e speranza. Già, perché la poesia non è razzista, né xenofoba; la poesia è amore ed, in questo caso, purtroppo, anche mero dolore. La poesia, non offende né condanna, ma ricorda: ed in questo caso fa memoria del sacrificio del povero Mirko, martirizzato per difendere sua madre. Le parole dell’amico Juanne Villa, grande poeta di Bitti sono quantomai emblematiche:

A si poteret ortare su prantu

In su sentitu ‘e Deus su perdonu (…)

Aite permittis o Deus custu

Unu giovanu mortu istochitzatu

Santificalu ha difesu su justu

Dae sa morte sa mama ha’ sarvadu

Aite custa vita es’ chene gustu

Aite permittis o deus su vatu

Aite su giovanu est trapassatu

Innantis ‘ e trapassare vitustu

Una poesia, questa, Santificalu, che  è ben piu’ di numerosi commenti social deliranti.  Versi in cui, promana, inizialmente, un’altissima riflessione teologica sul perdono che viene da Dio, ma al quale l’uomo o, meglio, il cristiano, è sempre teso a convertire in tal senso il suo pianto ed il dolore ( A si poteret ortare su prantu in su sentitu ‘ e Deus su perdonu– desiderio che è anche invocazione). A questo si aggiunge la richiesta del poeta, diretta a Dio, di santificare questo giovane: un grido che squarcia il silenzio di dolore: Santificalu, ha difesu su justu (Santificalo, ha difeso il giusto). Una difesa del giusto che, però, in Villa, non cade mai nell’offesa libera e nel linciaggio dell’assassino, anch’egli uomo come noi. I versi finali sono, invece, delle crude risposte sul senso della vita, ben rese dalla locuzione sarda interrogativa aite/ perché: perché questa vita è senza senso, senza gusto (aite custa vita es chene gustu); perché o Dio permetti il destino (aite permittis o deus su vatu). Per arrivare al nodo cruciale: perché Mirko è morto così giovane (aite su giovanu est trapassatu innatis ‘ trapassare vetustu).    

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