IL FEMMINILE OLTRE LE LENTI DEFORMANTI DELLA SOCIETA’: CON “MAREE”, LA SECONDA FATICA LETTERARIA DI MARIACHIARA FARINA

Mariachiara Farina

di LUCIA BECCHERE

Mariachiara Farina è nata a Nuoro ma vive a Milano dove alterna il lavoro di avvocato alla scrittura, da sempre sua grande passione. Il suo secondo libro Maree (Robin edizioni) trae origine dai racconti della nonna sulle esperienze di una sua sorella insegnante vissuta a contatto con i bambini della Barbagia di Seui.

«Ho avuto la curiosità di leggere diari, lettere di questa mia prozia – dice Mariachiara – e di analizzare la documentazione dei comuni che mio padre ha custodito con tanta cura. Da lì è nata la mia curiosità di verificare cosa significasse essere donna in quei paesi e in quel periodo».

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Mariachiara, quali problematiche affronta nel libro?  «I conflitti generazionali, sociali politici ed economici degli anni Trenta durante il fascismo quando i padri erano costretti ad emigrare in Belgio per lavorare nelle miniere e alle mamme spettava tirare su i figli senza la certezza che gli uomini ritornassero o riuscissero a mandare qualcosa alla famiglia».

Nel testo storie, sogni e lettere. Perché questa scelta e quali i significati?  «Nei racconti, miti e archetipi sono temi ricorrenti e narrano molto dell’inconscio collettivo della società di quel tempo. Io ho cercato di riprodurre, il più fedelmente possibile, quella che era una sua volontà a raccontarsi attraverso queste parabole».

Il bellissimo rapporto fra le sorelle del romanzo, Lucia e Zenia, ha del personale?  «Indubbiamente c’è l’idea di non far ricadere sugli altri quelle che sono delle vicende che si sono patite.  L’idea è sempre quella di potere dare agli altri il meglio che non si è avuto per sé».

Perché ha voluto ambientare il romanzo in quel determinato periodo storico?  «Perché lei è vissuta in quegli anni di cui io racconto fatti storici e di cronaca, alcuni li ho compattati con un lavoro di romanzatura».

C’è un’altra figura femminile che entra prepotentemente nella casa e quindi nella storia. Chi è Antioca?

E perché l’esigenza di inserire il suo personaggio?  «Antioca entra in casa come figlia d’anima in quanto figlioccia di Annamaria, madre di Zenia. A seguito di un fidanzamento andato male la famiglia la allontana un po’ per la vergogna, un po’ per la volontà di proteggerla proiettandola verso una nuova vita. Avevo la necessità d’inserire il suo personaggio per rappresentare tanti modi di essere donna».

L’anticonformismo di Lucia è stato motivo di scontro con suo padre? «Certamente. Non si è voluta sposare, ha voluto studiare e rendersi indipendente quando le donne non solo non avevano diritto di voto, ma venivano penalizzate perché non portavano voti. Questo il motivo per cui si era deciso di abolire la scuola femminile».

Il padre non riesce ad aver presa sulle figlie. Perché?  «Non le capisce. Lui è diviso fra i suoi sentimenti e il ruolo che la società del tempo attribuisce all’uomo e ad un padre».

E la madre?  «Un buon esempio di madre e matrigna, da parte sua c’è la volontà di costruire una famiglia e di sostenerla come tale».

Nel romanzo si avverte il peso di tanti silenzi, ma anche il dilemma eterno fra la vita e la morte. Tutto questo genera momenti di grande riflessione da parte di chi legge. «I silenzi sono legati ad una difficoltà di comunicazione, alla mancanza di empatia. Là dove l’empatia c’è, la parola non serve. Le tre donne (Zenia, Lucia e Annamaria) hanno un sentire comune e non hanno bisogno di parole, mentre tra Salvatore e le donne che lo circondano, le parole non nascono perché non ci sono gli strumenti».

Quale il messaggio alle donne?  «La vita vera sta al di là di quelle che sono le lenti deformanti, per poterla catturare e goderla dobbiamo essere in grado di togliercele.  Forse le donne non sempre riescono a trovare il bandolo della matassa.  Annamaria che pure è la donna più completa fra tutte, alla fine rimane bloccata in quelle che sono le aspettative di una società patriarcale nel suo ruolo di madre e fa tutto quello che il marito le chiede».

Purtroppo tutti, bene o male, siamo vittime di quelli che sono degli occhiali deformanti che ci dà la società. Quale è il nemico peggiore che ci sovrasta?  «L’ignoranza è il peggior nemico da combattere per Lucia che accomiatandosi dal mondo dice: “Ho fatto la mia esperienza di vita e non posso trasmetterla, posso solo sperare che gli altri tirino quel filo che io ho lasciato”.  Un’esortazione a voler cogliere i messaggi che ci arrivano dalla vita per viverla in maniera diversa da quello che la società ci propone, nonostante l’ineluttabilità del destino».

per gentile concessione de https://www.ortobene.net/

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2 commenti

  1. Grazie Tottus in Pari, Lucia è una persona rara; mi considero fortunata per aver avuto l’occasione di dialogare su questi temi con lei.

  2. Mariachiara e Lucia, due donne meravigliose, entrambe

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