“ANCHE LEI UN GIORNO SAREBBE TORNATA PER NON PARTIRE”: LA SARDEGNA NEL CUORE CON LE POESIE DI ANTONIETTA LANGIU

ph: Antonietta Langiu

di LORENZO SPURIO

La scrittrice di origine sarda Antonietta Langiu, da molto tempo nelle Marche, ha recentemente dato alle stampe una silloge poetica dal titolo La mia isola per i tipi di Grafiche Fioroni. A campeggiare nella copertina di questo volume è una foto del figlio Sergio Pierleoni che ritrae uno scorcio suggestivo della brulla terra sarda con un primo piano di una vegetazione esile e spinosa, simile al cardo.

Antonietta Langiu, nata a Berchidda (Sassari) nel 1936, ha alle spalle una intensissima attività letteraria, con particolare attenzione alla narrativa. Seguiamone alcuni tracciati per comprendere la fitta trama delle sue scritture. Lasciata la Sardegna (alla quale è sempre ritornata per periodi più o meno lunghi, nel corso del tempo) si è laureata in Sociologia all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”; vive a Sant’Elpidio a Mare (Fermo) assieme al marito Ottorino Pierleoni, noto pittore e incisore, autore di un libro-testimonianza, cronaca della nostra Italia del XX secolo, Tracce di un percorso. Aspettando una nuova primavera (2018). Particolarmente legata alla sua terra natale, della quale vi è vivida e continua testimonianza nei suoi scritti (“Corre la penna/ e il mio foglio bianco/ si trasforma/ in un paesaggio/ multiforme”), la Langiu ha pubblicato varie opere, tra le quali raccolte di racconti, opere critiche di approfondimento, studio e ricerca e studi monografici: Sa contra – Racconti sardi (1992; riedito nel 2014); il libro per ragazzi con schede didattiche Dietro la casa (1993), Sas paraulas – Le parole magiche (1998; riedito nel 2008); L’amica Joyce (1999), libro d’arte dedicato alla celebre scrittrice e difensora dei diritti civili di cui fu grande amica, Joyce Lussu (nata col cognome di Salvadori a Firenze nel 1912, sposa del politico e scrittore Emilio Lussu, deceduta a Roma nel 1998) da lei frequentata nella sua casa signorile di San Tommaso alle porte di Fermo e con la quale viaggiò insieme in Sardegna; il saggio, un libro di ricerca e storia orale, dal titolo Maestre e maestri in Italia tra le guerre (2004) scritto assieme a Liduina Durpetti, Immagini lontane (2005), Lettera alla madre (2005), ancora sulla Lussu l’intenso lavoro di ricerca confluito in Joyce Lussu. Bio e bibliografia ragionate (2008) scritto assieme a Gilda Traini, Lungo il sentiero in silenzio – Dalla Sardegna all’Europa: diario di vita, di viaggi e di incontri (2008), La linea del tempo (2014), Tessiture di donne (2017). Diversi racconti, corredati da incisioni e inseriti in libri d’arte, si trovano presso raccolte pubbliche e private a Fermo, Fabriano, Urbania, Ancona, Venezia, Aachen e Copenaghen. Saggi, racconti e altri testi sono stati pubblicati sulle riviste letterarie NAE, l’immaginazione, nostro lunedì, Proposte e ricerche, Sardegnasoprattutto, Euterpe e El Ghibli. Sulla sua produzione si sono espressi, tra gli altri, il critico Giorgio Barberi Squarotti, il poeta e critico sardo Angelo Mundula, Silvia Ballestra, Maria Giacobbe, il critico e docente universitario Franco Brevini, studioso dei dialetti.

La mia isola, che chiaramente è la Sardegna, “lontana nel tempo/ e per millenni lontana dal mondo”, si compone di tre parti, la più consistente, quella di apertura, contiene liriche dedicate alla sua magica terra “ammantata di storia/ antica come le sue genti/ fiere rigorose superbe” con la quale la Langiu colloquia. Si tratta della terra che l’ha vista alla vita, dove ha da sempre nutrito legami inscindibili con la sua famiglia, le sue genti e le varie amicizie. Quella terra circondata da “un mare che s’allontana dal mondo” la quale, pur ormai lontana, ancora vive nel suo cuore e lo testimoniano questi testi cosi ricchi di suggestione, nei quali è in grado di delineare in maniera superba non solo gli spazi naturalistici della sua regione, ma anche il temperamento del popolo sardo. Ci parla del “rumore del vento che fischia e scivola sfrigolando tra le foglie coriacee delle querce curve, o si insinua tra i massi concavi dei graniti”. Come non pensare ai romanzi della nuorese Grazia Deledda, unica donna vincitrice del Premio Nobel per la letteratura, nel 1926: “Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento” con il vento che si staglia come metafora esistenziale di debolezza, di mancata risolutezza e angoscia opprimente, ammorbata dal fatalismo nonché dalla commistione tra religione e conoscenze arcaiche e sortilegi.

La seconda sezione del volume si compone, invece, di poesie espressamente dedicate ai figli e ai nipoti, una per ciascuno. Sono dei preziosi omaggi, dei regali preziosi ben più di qualsivoglia oggetto materiale, con i quali la madre/nonna è come se osservasse non vista i propri familiari e ne cogliesse, con stupore e piacevolezza, alcuni degli aspetti più rilevanti. Se la prima sezione in un certo senso ha un collegamento assai forte con il passato, con le radici, la terra natale e tutto quel mondo di echi e ricordi dell’infanzia, questa sezione si sposa con un desiderio di continuità focalizzandosi non tanto sulla famiglia dalla quale discende ma su quella che ha contribuito a generare. Parlano del presente, dunque, e indirettamente ammiccano a quel futuro di cui, giorno dopo giorno, lentamente ci appropriamo.

A suggellare la raccolta è un brano in prosa ma dal contenuto fortemente poetico, dove in appena due pagine consente la nostra immersione nella terra sarda con la sua affascinante vegetazione e il suono del vento, ripescando un’età che sembra andata con la quale contraddistingue un momento di distacco da quella terra, di abbandono fisico. Una prosa poetica, potremmo definirla, dalla quale si percepisce distintamente la sofferenza sperimentata dalla donna con quell’abbandono, metafora di un dolore che è di tutti coloro che, per cause di diversa tipologia, sono costretti a sradicarsi fisicamente dal proprio territorio, dalla propria naturale collocazione nel mondo. Eppure qui si sente ancor più distintamente questa distanza dall’isola (una porzione della nostra Italia, è vero, ma pur sempre un mondo tutto a sé!), similmente a quella sicilitudine codificata e sperimentata da intellettuali della Trinacria. Su quella forma, infatti, ha preso piede il termine di sarditudine che non è forse che una migliore specificazione della sardità come fatto identitario e inclinazione attitudinale propria di quel popolo.[1] Aspetti, entrambi, che si esaltano in chiave innata sulle ali di una fierezza primigenia, nel momento in cui le condizioni impongono una distanza da quei confini. Qui, nel caso della Sardegna, quella terra mitica che vive nel ricordo, è una sofferenza continua (“voglio tornare anch’io/ nella mia casa”) eppure smagata, col pensiero fisso che essa è viva perché alberga nel cuore di chi l’ha vissuta. “Sono impastata della tristezza/della mia gente/ remota e rugosa come la corteccia/ di una vecchia quercia piegata dal vento”. In questo brano ben vengono tratteggiati anche alcuni aspetti dell’attitudine del sardo, nelle quali lei si riconosce, così contrastivi tra loro eppure talmente distintivi di questa natura fiera e nostalgica, fatalista e apparentemente restia all’apertura: “Il segno nel suo essere diffidente e guardingo; nel voler studiare le intenzioni di colui che gli sta di fronte. Ma anche l’orgoglio e la forza della sua singolarità; del suo essere un uomo vinto ma non piegato”.


[1] Paolo Pulina durante il Sesto Congresso della FASI tenutosi a Quartu Sant’Elena (CA) nel 2016, di cui sono presenti gli atti, che esiste una differenza sostanziale tra sardità e sarditudine e l´ha spiegata facendo ricorso al concetto di negritude coniato dal poeta L.S. Senghor: “Il concetto di “sarditudine” (ma anche di “sicilitudine”: si vedano a questo proposito gli scritti di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino) è esemplato su quello di “negritudine”. Dice giustamente il vocabolario Treccani: «negritùdine s. f. [adattam. del fr. négritude (der. di nègre “negro”), termine coniato, o per lo meno diffuso, dallo scrittore e presidente del Senegal L.-S. Senghor (1906-2001)]». Lo stesso dizionario, dopo aver definito correttamente la negritudine come «coscienza e rivendicazione della tradizione culturale negra come patrimonio culturale autonomo da difendere e preservare contro ogni tentativo di assimilazione da parte della cultura europea», scrive che «il termine ha come sinonimo negrità». A me sembra invece che una differenza ci sia: “negrità” e “sardità” rinviano a dati biologici-geografici-anagrafici esteriori (in linguistica “denotativi”) mentre “negritudine” e “sarditudine” rimandano a un complesso di elementi soprattutto interiori (in linguistica “connotativi”), a quella che il sardo Antonio Gramsci chiamava Weltanschauung, cioè in tedesco “visione-concezione del mondo””, in Paolo Pulina, “La sardità isola. La sarditudine non isola…”, Emigrati sardi, 17/11/2016. Vedi anche al link

http://www.tottusinpari.it/2016/11/14/la-sardita-isola-la-sarditudine-non-isola-la-relazione-scritta-e-la-sintesi-dellintervento-al-sesto-congresso-fasi-di-paolo-pulina-membro-del-comitato-esecutivo/

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