IL “MISTERO BUFFO” CON ELISA PISTIS: MILANO CELEBRA I 50 ANNI DALLA PRIMA RAPPRESENTAZIONE DEL CAPOLAVORO DI DARIO FO E FRANCA RAME

ph: Elisa Pistis
di SERGIO PORTAS

Dall’8 al 20 ottobre il Piccolo teatro di Milano ha celebrato i 50 anni dalla prima rappresentazione di “Mistero Buffo” con un nuovo allestimento del capolavoro di Dario Fo e Franca Rame. Ogni serata era introdotta da alcuni protagonisti della cultura e dello spettacolo con un loro ricordo personale dei due autori. C’era il figlio Jacopo ovviamente, ma anche Simone Crsticchi, Marco Travaglio, Moni Ovadia, Ascanio Celestini, Marco Paolini, Paola Cortellessi e molti altri. La prima volta che quest’opera venne rappresentata all’Università Statale di Milano, l’aula magna stipata da 3000 studenti, era il maggio del ’69. In dicembre sarebbe scoppiata la bomba all’interno della banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana: “La bomba” (Feltrinelli, 2019) titola il suo ultimo libro Enrico Deaglio, quella per antonomasia: “…che ha cambiato l’Italia; o meglio l’ha picchiata come un pezzo di ferro rovente su un’incudine, umiliata. Per cinquant’anni tutta la vasta cospirazione di potere che l’ha prodotta ha lavorato per lei perché restasse impunita e si moltiplicasse”. Per avere un’idea di che clima politico si respirasse in quel periodo molto bello è anche: “Italia occulta” di Giuliano Turone , edizione Chiarelettere, gennaio 2019. Dario Fo e Franca Rame, di questo va loro dato atto, furono tra quelli che cercarono di arginare la marea montante di violenza anti popolare che ne scaturì, e vi assicuro che ci voleva del coraggio per mettere in scena (a Varese) solo una anno dopo: “Morte accidentale di un anarchico” (costò loro una quarantina di processi e poi venne vietato del tutto,  osava mettere in dubbio la mostruosità di Pietro Valpreda e il suicidio di Giuseppe Pinelli). “Mistero Buffo” era altrettanto “rivoluzionario”, se non di più, è una rappresentazione in chiave ironica e dissacratoria di ogni tipo di “Autorità”, potenti e nobili, gerarchie ecclesiastiche, abusi di potere nei loro più vari aspetti. Seguendo il canone dei misteri medievali, rappresentazioni sacre derivanti dai riti misterici dell’antica Grecia. Lo spettacolo vero e proprio era rappresentato dal Dario, ogni suono, ogni risata o pernacchia, la parola gridata o cantata, lo strabuzzare degli occhi ribollenti d’ironia, uniti alla complessa gestualità dell’attore formavano un insieme semantico inscindibile, dove il racconto degli eventi è quasi solo un canovaccio, utile per porre l’accento sulla mistificazione degli avvenimenti storici e letterari nel corso dei secoli. Il tutto condito dal “gramlot”, un linguaggio che pare fosse usato dai giullari medievali che si spostavano da paese a paese e avevano necessità di farsi capire in posti dove si parlavano i più diversi dialetti. Da qui una fonetica piena di suoni più che di parole vere e proprie, Fo usava un misto di dialetti” padani” mischiati a a fonemi di pura invenzione, di fatto non esiste un “Mistero Buffo” uguale ad un altro. L’invenzione mutava col giorno della rappresentazione. Da qui la quasi impossibilità di mettere in scena lo spettacolo una volta che il maestro non è più. Eppure , tra gli artisti, c’è chi non si fa intimidire dal compito, pur ardo che sia. Uno, anzi una di essi, è la cagliaritana Elisa Pistis che, al teatro Blu di Milano, si esibisce in quello che i cartelloni dicono essere: “Il Mistero Buffo di Dario Fo”, domenica 29 settembre. Vero niente, quello che mette in scena l’artista di Elmas è il suo mistero. Intendiamoci, l’apparato scenico segue il canone prescritto, un unico attore in scena, un’attrice vestita di nero che stempera con uno scialle rosso a coprirle le spalle, la voce variamente intonata a drappeggiare ogni situazione, il viso mobile che si atteggia ai vari momenti drammatici del racconto. Elisa che è ora Madonna, Re magio e Gesù, bambino e sulla croce. La prima parte recitata in un gramlot con forti venature venete ( da qualche anno Elisa vive in Friuli, da quando ha frequentato per tre anni l’Accademia d’Arte drammatica Nico pepe di Udine, dopo una laurea in Beni Culturali a Cagliari), la seconda, di gran lunga la più intensa, è recitata in sardo-campidanese. C’è pieno di sardi a teatro, ebbene domandando in giro vengo a sapere che quelli del capo di sopra del parlato non hanno inteso quasi nulla, i soli privilegiati siamo stati noi del Campidano. Per gli altri “italiani” il gramlot-sardo era altrettanto incomprensibile che quello lombardo-veneto. In una delle numerose interviste che si possono recuperare su internet Elisa dice che “il nostro è un dialetto duro e dalle sonorità antichissime, assomiglia a una lingua araba e ti riporta indietro di 2000 anni, per cui mi è sembrato perfetto per raccontare il dolore di Maria sotto la croce, quello di una madre che assiste alla morte del figlio. Spesso le persone mi dicono che se anche non hanno capito le parole è la parte che li ha emozionato di più: a volte, paradossalmente, è meglio non seguire il filo del discorso: lo spettacolo diventa una specie di rituale in cui si abbattono le barriere linguistiche e si resta senza difese davanti a quello che si prova”. Ha avuto il permesso da Fo per questa sua contaminazione regionalistica-isolana. Peccato che lui sia mancato prima di poterla vedere in scena. Lo spettacolo ha girato anche per l’Europa, è stato portato al festival d’Avignone e, ovunque ha ottenuto un successo lusinghiero. Si sente indubbiamente la riscrittura femminile del testo, Maria stessa ha un peso fondamentale nel dispiegarsi dell’azione scenica. Del resto i vangeli cosiddetti “apocrifi” (nascosti, ndr.) da cui molte scene vengono tratte sono improntati in maniera massiccia sulle vicende familiari della sacra famiglia. Sullo sposalizio della vergine con quel tal Giuseppe, un vedovo molto più anziano di lei giovinetta quindicenne, scelto tra gli altri tramite un segno divino. E poi la fuga in Egitto, l’arrivo a Giaffa dove nessuno si presta ad aiutare questa famiglia di migranti (che tutto il mondo è paese). E se chiedete a Elisa se vi sia del voluto nel rimandare ai giorni nostri queste situazioni di estrema disperazione, per un numero sempre maggiore di persone nel mondo, vi risponderà che è ovvio che così sia. Che il teatro parla una lingua universale sempre, e vive nelle contraddizioni dei suoi tempi. A Giaffa il piccolo Gesù lo chiamano “Palestina” e i bimbi con cui si ritrova a giocare tendono a fargli scontare questa sua “diversità”. Nei vangeli apocrifi Gesù bambino si mette a fare miracoli a destra e a manca, il più celebre è senza dubbio quello che fa mutare in veri uccellini quelli che lui aveva costruito col fango e che i piccoli egiziani gli avevano schiacciato per scherno. Immaginate lo stupore della marmaglia quando il “Palestina” li fa restare con un palmo di naso. Un bel caratterino questo piccolo Gesù, capace persino di far morire anche chi esagera nelle vessazioni, salvo resuscitare il malcapitato (ben prima del miracolo di Lazzaro, par di capire) dietro l’intercessione di Giuseppe, che viene descritto come uomo dotato di solido buon senso. Maria, nello spettacolo di Elisa, ha un suo lavoro autonomo, non è certo una donna di casa, l’attrice e regista ne sottolinea l’indipendenza dal marito, che lei ha scelto (a seguire i vangeli apocrifi) invece di rimanere “sposa” nel tempio di Gerusalemme. Il suo rapporto con l’angelo Gabriele che le avrebbe vaticinato una maternità di origine divina non può che essere conflittuale. Specie nella seconda parte dello spettacolo, quando agli spettatori è richiesto di immaginare la scena in cui in primo piano è la croce, vista da dietro. Gesù crocifisso parla in sardo con la madre, Elisa Pistis, di spalle, spalanca le braccia e china il capo verso destra, non altro occorre perché tutti “vedano” quale tragedia si venga dispiegando sul monte Calvario. “Baidindi a domu” dice alla madre, “tornatene a casa”, che per te qui il tormento è grande, insopportabile. Ma Maria sale su di una scala per poter almeno tergere la fronte del figlio dal sangue che gli causa la corona di spine. E gli parla con i teneri accenti che una madre riserba al suo bimbo. Elisa è Maria, Gesù, ufficiale romano che consiglia alla madre di porre fine, lei con una lancia, ai dolori del figlio. E’ donna del popolo che prende una pietra nel tentativo di fermare il dolore folle che si impossessa di Maria all’avvicinarsi della croce. Insomma il vero miracolo a cui si assiste è questo snodarsi dell’immaginazione di ognuno degli spettatori che vengono come trasportati sulla scena drammatica, magicamente, dalla maestria dell’artista. “Una fabulatrice sarda con piglio istrionico capace di incantare” scrive di lei Sabina Sabatino su “Recen-sito”, quotidiano di cultura e spettacolo sul web, e continua: “Un’opera questa che ha vissuto mille vite e grazie a una licenza concessa personalmente dal Nobel all’attrice trentaduenne soddisfa le attese e conferma una possibilità utopica: che in qualche rara occasione il teatro possa davvero essere- come ha dimostrato la lezione di Fo , e di Elisa Pistis, un linguaggio per tutti, uno spazio che si coabita per riflettere sul proprio tempio e far sì che, se opportunamente sostenuto, divenga lo strumento privilegiato per guardare con occhio critico la realtà, agitare le idee e rigenerare gli orizzonti della cultura”.  

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