L’ARTE POVERA DALLA COLLEZIONE AMERICANA DI GIORGIO SPANU E NANCY OLNICK, IN MOSTRA SINO ALL’8 DICEMBRE A CAGLIARI DIRETTAMENTE DA NEW YORK

di STEFANO SALIS

Non ci sono didascalie. Il visitatore è solo, davanti all’opera, nel confronto con le emozioni ma anche con le legittime perplessità che può suscitare un’opera d’arte, soprattutto di questo genere. Niente titoli, niente autore, niente date: certo, si può consultare l’agile e ben fatto “libretto di sala” che viene fornito allo spettatore all’ingresso, ma, almeno per il primo giro è forse consigliabile farne a meno.

Una sfida, ma anche il modo più profondo e appropriato per avvicinarsi alle 15, eccezionali, va detto subito, opere dell’Arte Povera che arrivano a Cagliari (in mostra fino all’8 dicembre) direttamente dalla collezione americana di Nancy Olnick e Giorgio Spanu. Alla visita in anteprima per la stampa, Spanu – per lui si tratta di un ritorno: non veniva in Sardegna da 40 anni, ma è nato e ha vissuto per i primi anni della sua vita nel Sulcis Iglesiente – , completamente vestito di bianco, ha spiegato che nulla deve distogliere dall’emozione – positiva o negativa – dell’opera d’arte: è lo stesso sentimento che lo ha guidato, finora, nella costruzione della sua collezione.

Sì, perché queste 15 opere, disposte in maniera pressoché perfetta negli spazi del Palazzo di Città dei Musei Civici di Cagliari (il finale, soprattutto, è emozionante), arrivano come prima collaborazione tra il Magazzino Italian Art Foundation, il museo dedicato all’arte italiana costruito dalla coppia di coniugi Nancy e Giorgio a pochi chilometri da New York, a Cold Spring. Un’impresa che sa d’altri tempi. Mecenatismo e passione personale si sono mischiati in questa realizzazione che è cresciuta pian piano negli anni da raccolta personale fino all’idea di voler “restituire” agli americani un pezzo di arte italiana, altrimenti molto difficile da vedere da quelle parti.

E, ora, come prima uscita pubblica dal suolo americano, almeno in veste di museo (molte opere della collezione sono spesso andate in prestito: per fare un esempio, diverse opere di Maria Lai appartenenti ai collezionisti sono oggi al Maxxi di Roma per la mostra della grande artista sarda) , la collezione ha scelto Cagliari: un “ritorno” naturale. Non è un caso, tra l’altro, che, ad accompagnare le 15 opere di Arte Povera, nelle sale al piano terra ci sia un’altra mostra, quella del fotografo Marco Anelli che, in “Building Magazzino”, ha documentato proprio il “making of” del sontuoso progetto culturale voluto da Olnick e Spanu. Sono, qui, 27 fotografie con 12 ritratti dei lavoratori che hanno partecipato alla costruzione del Magazzino (e l’orgoglio di essere carpentieri è ben visibile nei loro sguardi intensi) e 15 fotografie che documentano, invece, via via la costruzione del cantiere.

Del resto non sarà un caso se il Magazzino Italian Art si è imposto, in soli due anni, come una realtà della Hudson Valley di New York. Da quando è stato aperto, infatti, ha registrato oltre 30mila presenze e ha appena acquisito, lo ha detto Spanu nella conferenza stampa di apertura della mostra cagliaritana, lo status di museo federale, coronando un percorso non scontato e niente affatto semplice. Sono circa 2000 metri quadrati, ad ingresso gratuito, dedicati all’arte contemporanea italiana costruiti su progetto, pulitissimo, dell’architetto Miguel Quismondo e diretti da Vittorio Calabrese che affianca il progetto di esposizione della collezione a una serie di collaborazioni con organizzazioni americane e italiane per sostenere artisti italiani contemporanei e promuovere un dialogo sull’arte italiana del dopoguerra negli Stati Uniti.

Eppure c’è qualcosa di ulteriore, se questi pezzi di arte italiana, in molti casi, sono inediti anche in Italia e dunque quella cagliaritana è una ghiotta occasione per vederli e sentirne da vicino l’emozione.

In esposizione al Palazzo di Città ci sono tutti i grandi. Si inizia con una pietra sospesa (Senza titolo) di Giovanni Anselmo, un Luciano Fabro (Basta la vista, 1988), due lastre di ottone, una catena in acciaio e la cornice in metallo perforato, e poi, tra i grandi capolavori di questa mostra, uno straordinario polimaterico di Pier Paolo Calzolari (Senza titolo, 1982), con le candele, immerse in olio di oliva, che “sciolgono” e modificano la materia di cui è fatta l’opera d’arte, una lastra di piombo, sottoposta al calore e alla corrosione, dunque al mutamento, esattamente come la nostra vita.

Ci sono tre opere di Alighiero Boetti: e se l’arazzo coloratissimo (Oggi nono giorno dodicesimo mese dell’anno 1000 nove 100 ottontotto) è uno dei tipici prodotti di questo geniale artista, meno noti sono certamente la Dama (1969) in legno intagliato con 144 pezzi ordinati in una griglia (la logica interna sono dei numeri intagliati, uno dei quali corrisponde con uno del quadrato accanto) e Legno e ferro (1967), mai uscita in esposizione prima d’ora. Sono otto spicchi di legno che, fissati insieme da un anello di ferro, formano un cerchio.

Ma forse le opere più spettacolari sono nelle ultime sale. Uno strepitoso insieme di Kounellis del 1986. Quattro enormi pannelli, ognuno di 2mx181 (le misure del letto matrimoniale, misura della intimità quotidiana), acciaio, smalto e piombo, una sequenza mozzafiato; un Pino Pascali dei primordi, un Samurai del 1965 quando ancora l’artista collaborava al Carosello, una felicità di tratto soave ed esplosiva insieme, e poi la Sfera di giornali di Michelangelo Pistoletto in uno dei suoi celebri quadri specchianti.

Si tratta, anche in questo caso, di un ritorno: quando, primo museo italiano, i Musei Civici di Cagliari vollero costituite una collezione di arte italiana contemporanea, l’allora direttore Ugo Ugo chiese a molti artisti di donare a prezzo simbolico delle loro opere. Ebbene Pistoletto propose proprio una sfera di giornali, ma, per varie vicissitudini, l’opera non arrivò mai a destinazione. Ci arriva ora, grazie, alla tenacia di Paola Mura, direttrice dei Musei che ha “rincorso” l’opera, fino a trovarla ad un oceano di distanza, alla generosità della coppia Olncik-Spanu e a quella “nostalgia di casa” che in qualche modo ha giocato una parte in questa mostra e alla sensibilità dei collezionisti per un’operazione che è culturale, nel più alto grado della parola, ma allo stesso tempo, umana e sentimentale. Il che non guasta: in tanta Arte Povera, la ricchezza (spirituale) delle persone è una risorsa quanto mai rara e da custodire.

(ilsole24ore)

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